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Le grotte per casa e lʼeconomia delle “pirrere” a Favignana

- «Carta topografica della Favignana isola adiacente alla Sicilia», Palermo, 2 settembre 1829, disegnata da «Pietro Cusmano Agrimensore», (Archivio di Stato di Palermo, Ministero e Real Segreteria di Stato presso il Luogotenente Generale, Ripartimento Lavori Pubblici, n. 32.

«Carta topografica della Favignana isola adiacente alla Sicilia», Palermo, 2 settembre 1829, disegnata da «Pietro Cusmano Agrimensore», (Archivio di Stato di Palermo, Ministero e Real Segreteria di Stato presso il Luogotenente Generale, Ripartimento Lavori Pubblici, n. 32.

di Rosario Lentini 

Nel 1807, si pubblicava a Napoli un saggio del teologo brindisino, nonché docente di matematica e filosofia, grande cultore di economia, di agricoltura e di scienze naturali, Teodoro Monticelli, dal titolo Del trattamento delle api in Favignana. Lʼopera era stata scritta durante gli anni di esilio-detenzione (1796-1801) nella maggiore delle isole Egadi, dove era stato destinato per scontare la condanna a dieci anni ‒ poi ridotti a sei ‒ per giacobinismo. Da acuto osservatore e studioso, la sua sintetica descrizione del contesto, del paesaggio agrario e delle attività che si praticavano in quella comunità di circa 1.800 isolani coglieva alcuni aspetti essenziali: 

«[…] lʼarte umana, dico, sforzando la sterile natura di questo scoglio, lo ha vestito in qualche luogo di viti; vi ha formati deʼ frequenti, e piccioli giardini nelle cave, donde traggono il tufo per uso di fabbrica; vi ha introdotti molti orti, scavando deʼ spessi e larghi pozzi; vi ha sparso gran quantità di fichi dʼIndia, e molti alberi di fichi nostrali; vi ha piantate delle viti di uve dolcissime, fra le quali lʼApiana deʼ Latini, o sia il Zibibbo di Calabria, o moscadellone tanto gradito alle api; molti melogranati, peschi, ed altri alberi da frutta»[1]. 

I piccoli giardini nelle cave e lʼutilizzo della pietra estratta dalle stesse, per esigenze costruttive, osservati da Monticelli, erano indicativi di unʼattività umana che aveva permesso di resistere alle difficili condizioni di vita nellʼisola e di rendere possibile la stanzialità. 

«La pietra calcarea – ha scritto Vincenzo Guarrasi – che già domina il paesaggio mediterraneo naturale, perché raramente la vegetazione la ricopre di un manto così folto da impedirle di apparire a nudo, dà la propria impronta indelebile anche al paesaggio umano realizzando una particolare continuità tra natura e cultura, ambiente urbano e rurale»[2]. 

In età recente, i primi utilizzi architettonici della calcarenite bioclastica – come più propriamente i geologi definiscono la pietra di Favignana e le cui origini rinviano a oltre due milioni di anni fa – hanno riguardato le ipotizzate torri saracene, il castrum angioino, poi sostituito dal forte di Santa Caterina, sulla vetta dell’omonimo monte, il forte di San Giacomo e la torre di San Leonardo; prima le difese, poi la progressiva edificazione del nucleo del paese. Ma se si volesse andare più lontano nel tempo, si coglierebbero le prove concrete della capacità degli antichi abitatori di adattarsi alla geomorfologia dell’isola, quando le stesse grotte naturali assolvevano alla duplice funzione di luogo di rifugio e di dimora. 

«Lʼuso di abitazioni ipogee ‒ sottolineava alcuni decenni fa Franca Torre ‒ è perdurato a lungo tra i meno abbienti e in special modo tra i cavatori, tanto che ancora se ne conserva vivo il ricordo tra i più anziani, oltre naturalmente che fra coloro i quali ne hanno fatto recente esperienza durante la seconda guerra mondiale alla ricerca di un riparo dai bombardamenti»[3]. 

Nel cuore degli antri e delle caverne segnate dalla presenza umana e negli ipogei, che ci consegnano le testimonianze dei riti dei vivi e dei culti per i morti, si è formata la plurimillenaria maestria di quegli isolani, che Rosanna Pirajno ha definito «sapienti sacerdoti e maghi di un rito ormai desueto e muto», capaci di modellare la pietra friabile [4]. 

«Mastro di pirrera o di mannara ‒ ha scritto Antonino Cusumano ‒ era chi sapeva identificare il migliore punto di attacco e individuare la disposizione degli strati “ascoltando” le risonanze delle battute sulla pietra, chi aveva l’occhio e l’orecchio tecnicamente addestrati a “sentire” i pieni e i vuoti della roccia, chi sapeva maneggiare il piccone con un elevato e sapiente coordinamento dei movimenti, privati di ogni eccedenza gestuale»[5]. 

02In un alternarsi di grotte naturali e di cave, Favignana ha acquisito un plusvalore paesaggistico notevole, in controtendenza con i disastrosi interventi umani di consumo e abuso di suolo praticati negli scorsi decenni in larga parte del Paese.

Lʼavvocato e mineralogista Giuseppe Emanuele Ortolani, nel descrivere lʼinterno di alcune grotte da lui visitate nei primi dellʼOttocento, sottolineava di avervi trovato non soltanto stalattiti, ma anche la farina fossile ‒ cosiddetta di Wallerio [6] ‒ derivante da piccolissime alghe intrappolate nelle rocce silicee sedimentarie; e lo storico e archeologo marsalese Salvatore Struppa così scriveva nel 1877: 

«Varie grotte la natura scavò nelle terga e nelle viscere della montagna, bellissime per le loro amorfe disposizioni interne. Nella grotta così detta, dellʼacqua, e in quelle che lʼaffiancano, vi si sono trovati avanzi di fossili umani ed arnesi industriali creduti dellʼepoca della pietra» [7]. 

Alessandro Cataliotti annotava un secolo fa come numerose cave della parte di Nord-Est, raggiungendo quasi il livello del mare, avessero reso molto frastagliata la costa, mentre quelle dellʼinterno dellʼisola si sviluppassero spesso sotto tale livello [8].

Risale forse agli arabi la scelta di coltivare le cave in orizzontale, «a galleria», evitando così di dover procedere alla perforazione e all’asportazione dello strato roccioso (il cappellaccio), prima di raggiungere quello sottostante di pregiata calcarenite bianca da estrarre in blocchi.

Fin dai primi decenni del Quattrocento si andava a caricare la pietra da costruzione «cavata a cielo aperto»[9]: 

«Nel 1437 ‒ precisa Ferdinando Maurici ‒ tale Manfrè lu Miraldu vendette alla chiesa di S. Agostino di Trapani dodici balatas … insule Fagugnane al prezzo di un fiorino. Nel 1498 tale Andrea de Napoli, trapanese, vendette al concittadino Giuliano la Ficarra ben cinquecento cantoni di Favignana al costo di 18 tarì al centinaio. I cavatori di pietra erano esplicitamente invitati, nei contratti di ingaggio, a rimanere nascosti in caso di arrivo di navi corsare» [10]. 
Disegnato acquerellato dellʼisola di Favignana; a sinistra la torre di San Leonardo (Biblioteca Riccardiana di Firenze, Erasmo Magno (1597-1616), ms. 1978, c. 76v

Disegnato acquerellato dellʼisola di Favignana; a sinistra la torre di San Leonardo (Biblioteca Riccardiana di Firenze, Erasmo Magno (1597-1616), ms. 1978, c. 76v

I documenti dʼarchivio oltre ad attestare l’estrazione delle «balatas» (dial. cantuna) per acquirenti trapanesi, ci informano anche delle lavorazioni che si svolgevano con relativa continuità riguardanti la pesca del tonno in prossimità della costa e la commercializzazione del legname ricavato da quel che un tempo era il bosco dell’isola. Non va ignorato, infatti, che la principale difficoltà a mantenere in vita gli impianti di pesca, seppure stagionalmente – da aprile a giugno – e a dare continuità ad ogni altra produzione, era generata dalle periodiche incursioni dei pirati nord-africani, che non minacciavano soltanto l’arcipelago, ma insidiavano pure la sicurezza delle città di Trapani e di Marsala, facendo base e rifornimento coi loro velieri proprio a Favignana. Da qui la decisione regia, dalla seconda metà del XV secolo, di rafforzare le difese costiere mediante torri e fortilizi.

Anche nella cartografia storica veniva evidenziata lʼimportanza delle cave. La «perriera» – italianizzazione del termine dialettale pirrera – era segnalata nella relazione a corredo della carta di Favignana disegnata e acquerellata dal senese Tiburzio Spannocchi nel 1578 e lo stesso autore dava notizia della torre della tonnara, vicino alla cala di San Leonardo, nella quale «vi stanno dodicj huomini pagati dal detto arrendatario a 4 scudi al mese […], sono trapanesi et dj Marsala ve ne sono de li maritatj, et scapolj, sono travagliantj et per il più pereatorj [dial. pirriaturi], che il giorno travagliano a tagliar pietre, et la notte a far la sentinella» [11]. Senza nulla togliere allʼautorevolezza di Spannocchi, è, tuttavia, improbabile, che dopo aver duramente faticato a tagliar pietre, questi guardiani riuscissero a rimanere svegli durante la notte. Ma il dato che qui va sottolineato riguarda la prevalenza delle dimore naturali e di quelle utilizzate allo stesso scopo, dopo aver estratto i conci da commercializzare. Lo attestava con precisione lʼingegnere bresciano Giovan Francesco Pugnatore, pseudonimo di Lazzaro Locadello, autore del manoscritto Historia di Trapani del 1591, trascritto e pubblicato da Salvatore Costanza nel 1984: 

«Dellʼabitazion della Favognana manifesta fede ci mostrano le vestigia di due casali di quattro strade per uno, dritte, et accanto del litto nella nativa pietra altamente incavate, e quinci e quindi di varie riquadrate grotte guernite: le quali son lʼuna appresso dellʼaltra ordinatamente disposte, e tutte parimente da finestre illuminate, che nel proprio sasso sono, insieme con esse grotte, intagliate, le quali invece di case servivano. Laonde essi casali sono daʼ moderni grotte communemente chiamate. Uno deʼ quali era nella più interior parte che fa il lido inverso Sicilia, appresso del quale sono alcune miniere di pietra, di cui i Trapanesi si hanno continuamente, dal tempo antico infin ora servito: la qual è bianca e granedita, e facile tanto da squadrarsi che con la serra si può, a modo di legno, partire; e, posta in opera alfine, lunghissimamente, al par dʼognʼaltra, vi dura»[12]. 

Come noto, la licentia populandi concessa da Filippo IV al genovese Giacomo Brignone nel 1640, costituisce lʼatto formale di nascita della «città nuova» [13], a partire dal quale si avviò il processo di insediamento stabile di diverse centinaia di abitanti e conseguentemente di costruzione di edifici, in aggiunta alle dimore scavate nel sottosuolo, che rimasero a lungo abitate. Anche nella carta disegnata da Francesco Negro e Carlo Maria Ventimiglia, facente parte del loro Atlante del 1640, viene indicata al numero sette della legenda la «Costa delle Perrere», non distante dalla Cala di S. Leonardo [14].

L’attività estrattiva era tenuta in grande considerazione dalla monarchia spagnola, per il valore strategico che le cave assumevano in un disegno politico-militare di difesa dei domini. Non a caso, allʼart. 7 dell’atto di gabella delle isole e delle tonnare delle Egadi, stipulato nel 1634 con Ottaviano Del Bono, in nome e per conto del genovese Giacomo Brignone, si prevedeva espressamente quanto segue: 

«Durante il presente arrendamento possa ognuno liberamente andare a pescare pesci attorno delle isole, riservata per la R.C. [Regia Corte] facoltà di potere per uso suo fare cavare ogni sorte di pietra rotta, cantoni ed altra di taglio in qualsivoglia parte di dette isole. La R.C. sia tenuta mettere in quelle isole li soldati, guardie, provisione di vitto, artiglieria, e monizione […] e similmente fare fabbricare quelle torri e stanze le quali e quando si giudicherà essere conveniente nellʼisola della Favignana, e di Levanzo; tutto questo si facci a spese della R.C.» [15] 

Il numero delle dimore naturali o scavate nella pietra, utilizzate fino ai primi del Settecento, era considerevole e dallʼarea circostante il forte di San Giacomo alla torre di San Leonardo, secondo quanto riportato da una fonte coeva [16], si contavano circa 300 case «assai basse e sotterranee, nelle quali vi abiteranno qualche mille anime circa», ed altre erano state realizzate nelle cave del monte di Santa Caterina.

siciliaAncora nel 1816, i favignanesi Paolo Torrente e Angela Durano Vetrano, per la rispettiva «grotta per casa», erano assoggettati al pagamento di un censo ai proprietari delle Egadi, i banchieri genovesi Pallavicini [17].

Oltre alla cartografia cinque-seicentesca prima ricordata, rimangono insuperate per precisione e ricchezza di dettagli le due carte di Favignana disegnate nei primi decenni dellʼOttocento e, in particolare, quella del 1829 a firma dellʼagrimensore Pietro Cusmano, nella quale, fra lʼaltro, si trovano indicati i tratti del perimetro costiero relativi alle «pietrere da taglio», in prossimità del centro abitato [18].

Le grotte naturali e le cave create dai pirriaturi nel corso dei secoli costituiscono lʼaltra faccia della medaglia di Favignana che, tardivamente, è stata apprezzata al pari di quella più nota, rappresentata dalla pesca del tonno. L’insicurezza e la costante minaccia delle invasioni barbaresche e turche – in un quadro di reciprocità di relazioni commerciali tra popolazioni frontaliere, ma anche di conflitti armati, di spionaggio, di compravendite di schiavi e di riscatto delle prede – hanno delineato i limiti e determinato la qualità delle condizioni di vita e della sopravvivenza nelle Egadi. Questi condizionamenti hanno, quindi, segnato a fondo il rapporto tra gli abitanti e il territorio, ma non sono riusciti a neutralizzare e inibire né lʼattività estrattiva, né la pesca del tonno. Lʼuna è giunta al traguardo del Novecento grazie alla defatigante ed eroica attività dei pirriaturi, fin quando nuovi materiali per lʼedilizia non lʼhanno ridimensionata e condotta quasi allʼestinzione degli ultimi decenni. Lʼaltra è stata sviluppata considerevolmente, dal Seicento alla seconda metà del Novecento, prima dalla dinastia dei genovesi Pallavicini e Rusconi, poi dai palermitani Florio e, infine, dai genovesi Parodi, che hanno fatto conoscere e apprezzare il pescato delle tonnare di Favignana e di Formica ai mercati di «infra Regno» ed esteri.

Attorno al mondo delle tonnare gravitava un complesso di soggetti, singoli individui, istituzioni civili e religiose, destinatari di decime e di regalie contrattualizzate o frutto della filantropia dei proprietari. Così, oltre alle beneficenze in favore della popolazione favignanese – come precisava l’amministratore della casa genovese in una corposa relazione al Tribunale del Real Patrimonio nel 1799 – i Pallavicini 

«hanno anche sempre fatto sperimentare gli effetti della loro pietà ai Conventi, Mendicanti, e Chiese della città di Trapani, dando in ogn’anno ai primi un Tonno fresco per ogni Convento, e di somministrare gratis alle Chiese una quantità di Cantoni, o sia di Pietre per le Fabriche. Così alla Chiesa di S. Pietro non ha molto, che hanno rilasciato per elemosina onze 100, e più. Alla Parrocchia di S.to Nicola l’importo di due mila, e più cantoni». 

Pietre e tonni assumevano, quindi, pari rilevanza per il donante e per il donatario, ma sul piano della redditività, mentre il pescato assicurava introiti cospicui, sulle prime, il «dominus» difficilmente riusciva a conseguire il canone previsto. Non si può dire, infatti, che dalle «perriere» i Pallavicini traessero lauti profitti; di certo potevano edificare per esigenze proprie, senza porsi il problema del reperimento delle pietre e dei costi. Il guadagno netto medio annuo, derivante alla proprietà dallo sfruttamento delle cave, rappresentava poco più dell’1% delle entrate generali delle Egadi che, nel 1799, ammontavano a circa 8200 onze; infatti, deducendo le «spese delle Carrette, Ferramenti, Bovi, Soccorsi alli Perriatori, ed erbaggio per li Bovi, per trasporto di detta pietra» [19], che rimanevano a carico dei Pallavicini, residuavano circa 84 onze.

A fine Settecento erano soltanto 17 i pirriaturi – di cui si conoscono anche i nomi – ai quali sicuramente si aggiungeva un imprecisato numero di aiutanti e lavoranti occasionali, autorizzati a coltivare le cave e tenuti per contratto a pagare un diritto fisso al proprietario dell’isola, cioè la cosiddetta «fida», che a quella data ammontava a 6 tarì per ogni 100 «cantoni» estratti [20]. Poiché, mediamente, il prezzo di vendita per i conci «siti e posti alle loro Perriere» si attestava a 9 tarì per ogni 100, la differenza di 3 tarì era ciò che rimaneva in potere del cavatore; non molto, se si considera il dispendio fisico quotidiano di energie e lʼelevato rischio di infortunio, ma più di quanto questi avrebbe ricavato dal lavoro agricolo.

Sulla base dell’importo complessivo incamerato annualmente dai Pallavicini, si deduce che, nei primi decenni dell’Ottocento, il numero di conci estratti a Favignana oscillava da 20 a 30 mila unità. È un dato verosimilmente inferiore a quello reale, perché non tiene conto del fenomeno delle estrazioni abusive, il cui contrasto risultava problematico. L’ostilità a riconoscere l’imposizione della «fida» spingeva i pirriaturi a diventare debitori cronici verso la proprietà. Non a caso, infatti, i Pallavicini, constatato che il sistema in essere non recava grandi vantaggi, dal 1798 decisero ‒ anziché di gestirle in economia ‒ di dare in gabella le cave al favignanese Mauro Livolsi, consegnandogli buoi e carrette per il trasporto dei «cantoni» agli «scari» d’imbarco.

Purtroppo, però, 

«questa novità dispiacque a taluni de’ favignanesi, che ritraevano qualche vantaggio dalla detta Economia; chepperò dopo la detta fatta consegna, di notte tempo, in due distinte notti furono uccisi due bovi de’ consegnati al detto Gabelloto, dal che ne nacque, che esso Gabelloto si volle dismettere dalla Gabella sudetta, e riconsegnò nuovamente all’Amministrazione tutto ciò, che li era stato consegnato meno li due bovi uccisi» [21]. 

Il pagamento della «fida» era previsto anche sullʼutilizzo di alcuni animali (buoi, vacche, asini, capre, mule, vitelli) e sul legname che veniva «posto alla vela» per Trapani.

Su questi aspetti contrattuali, il contrasto tra i Pallavicini e i pirriaturi ‒ e, più in generale, i favignanesi ‒ col tempo si sarebbe inasprito, a causa anche dell’obbligo di avvalersi esclusivamente dei mezzi forniti dalla proprietà per il trasporto delle pietre, soprattutto per motivi di controllo più stringente sulle quantità estratte. Questa imposizione sarebbe stata alla base delle violente proteste dei cavatori e dellʼinvio di un’istanza al re, che avrebbe riconosciuto le loro ragioni [22]. Di certo, lʼIntendente della provincia di Trapani emise la seguente ordinanza nel febbraio del 1844: 

«Che cessi immediatamente la riscossione, che dallo ex-feudatario dellʼisola di Favignana si pratica a carico dei suoi abitanti sotto nome di fida per lo taglio delle pietre, sia che si esegue suʼ fondi a ciascuno censiti, sia sulle strade spianate, e lidi di mare, e cessi la privativa del trasporto delle pietre medesime salva lʼingerenza dellʼAmministrazione civile per impedire i cavi [escavazioni] nella strada dellʼabitato, e dellʼalta Amministrazione pei cavi, che si tentasse di fare nei lidi del mare. Sia salvo il dritto allo ex-feudatario medesimo, innanti chi e come di ragione, di far valere il patto che dicesi esistere nei contratti, cioè di non farsi cave di pietra senza il permesso del concedente» [23]. 

E a nulla valse il ricorso dei Pallavicini alla Gran Corte dei Conti.

- «Isola della Favignana», disegno acquerellato facente parte del ms. del 1640, con tavole di Francesco Negro e Carlo Maria Ventimiglia. Al n. 7 della legenda la «Costa delle perrere».

– «Isola della Favignana», disegno acquerellato facente parte del ms. del 1640, con tavole di Francesco Negro e Carlo Maria Ventimiglia. Al n. 7 della legenda la «Costa delle perrere»

La connessione che si è andata consolidando, per lo meno dal Seicento in poi, tra la pesca del tonno e le isole di Favignana e Formica, è diventata tratto distintivo quasi esclusivo, una sorta di logo ante litteram che ha contrassegnato una delle aree marine privilegiate del Mediterraneo per la cattura e uccisione di uno scombride da sempre molto apprezzato. È stata e rimane tuttora ‒ pur se le tonnare sono inattive ‒ una relazione dominante e prevalente, ragion per cui ogni altro elemento identitario è rimasto in secondo piano, sovrastato dalle innumerevoli immagini di straordinarie mattanze del passato di cui testimoniano oli su tela e splendide foto otto-novecentesche; difficile per lʼeconomia delle cave assurgere a comprimaria.

È improbabile, perciò, che un osservatore esterno riesca a cogliere immediatamente le altre specificità dellʼisola, sopraffatto dalla grandiosità dell’ex stabilimento Florio di lavorazione del pescato, che si appalesa al visitatore già a distanza dallʼapprodo nello scalo favignanese e dalla cultura marinara specializzata di raisi e tonnaroti, attestata da lapidi sul numero delle «uccise» di tonni in alcune stagioni (4.345 nel 1848; 8.628 nel 1853; 10.159 nel 1859).

Quando nel 1874 Ignazio Florio subentrò agli eredi dei marchesi Pallavicini, acquistando l’arcipelago delle Egadi, diede subito incarico di predisporre i disegni e le tavole per una «casa di campagna in Favignana» all’architetto Giuseppe Damiani Almeyda il quale, già a febbraio del 1875, fu in grado di presentare al committente un progetto di massima e un primo schizzo del prospetto [24]. Il dato che qui interessa sottolineare è rilevabile dalla relazione di accompagnamento nella quale il progettista prevedeva, fra l’altro, che il palazzo di villeggiatura dovesse sorgere nello stesso luogo della pericolante e quasi diruta torre di San Leonardo e che il neo-proprietario, ottenuta l’autorizzazione a provvedere allo smantellamento della struttura a sue spese, potesse utilizzare i blocchi di pietre ritenuti necessari integrandoli con i «cantoni» delle due cave di San Francesco e di Frascia.

Il primo edificio floriano, emblema di una nuova trionfale stagione imprenditoriale, sarebbe sorto, quindi, sulle fondamenta di un antico baluardo comprato nell’agosto del 1876, da potere del Comune, per 4.500 lire [25]. Era il segno dei tempi: la modernità irrompeva nell’isola sostituendo un rudere-simbolo dell’architettura militare spagnola dello scacchiere mediterraneo, con il palazzo di villeggiatura, dimora-simbolo del nuovo potere finanziario di un principe meridionale del capitalismo ottocentesco.

Il riuso dei conci, in verità, non costituiva un’eccezione, proprio per la naturale duttilità e per le possibilità di rimodulazione degli stessi. I mercanti-imprenditori inglesi del vino marsala, per esempio, lo compresero immediatamente, rilevando tra fine Settecento e inizio Ottocento i bagli abbandonati di due antiche tonnare ‒ autentiche cattedrali preindustriali ‒ fuori le mura dell’omonima città, costruiti con la calcarenite disponibile in quello stesso territorio. John Woodhouse senior acquisì l’ex tonnara del Cannizzo e Thomas Corlett l’ex tonnara di Boeo, apportando tutte le modifiche necessarie e funzionali alle nuove e diverse esigenze produttive enologiche.

Va evidenziata, tuttavia, un’importante differenza qualitativa nei blocchi di colore giallo paglierino estratti nelle cave di Marsala e di Mazara del Vallo, che risultavano più friabili e meno resistenti rispetto ai conci di Favignana.

Don Vincenzo Florio, padre del futuro «dominus» delle Egadi, in veste di affittuario delle tonnare nel periodo 1842-1859, fece costruire anche a Formica, diversi magazzini funzionali allʼattività, con i «cantoni» estratti a Favignana. Ma il vero trionfo della calcarenite bianca sarebbe stato celebrato da suo figlio Ignazio, con la costruzione del grandioso stabilimento per la lavorazione del pescato. Fu realizzato ampliando considerevolmente un preesistente corpo di fabbrica degli anni Sessanta dell’800, denominato “Torino”, risalente alla gestione del gabelloto genovese Giulio Drago. Dal 1882-83 in avanti, data di inizio lavori, i cavatori dell’isola fornirono decine di migliaia di cantuna per la definizione degli edifici del complesso industriale e per le mura di recinzione.

816ruoy1fl-_ac_uf10001000_ql80_Da metà Ottocento, quindi, l’attività estrattiva cominciò a diventare sempre più intensa e redditizia e il suo sviluppo non conobbe sosta lungo tutto quel secolo, coinvolgendo un numero elevato di ex agricoltori trasformatisi in pirriaturi. Si consideri, d’altronde, che a parte i pochi mesi che impegnavano direttamente e indirettamente alcune centinaia di favignanesi e di relegati del carcere di San Giacomo nella pesca del tonno e nelle attività collegate, per il resto dell’anno, quando neppure l’agricoltura riusciva ad assicurare il necessario per la sussistenza, l’unica alternativa rimaneva lʼattività di cavatore, ognuno dei quali «lavorava in proprio badando quasi esclusivamente al proprio tornaconto» [26].

Si era, però, agli antipodi della gerarchia piramidale dei prestatori dʼopera del mondo delle tonnare, nel quale l’unico soggetto autorevole e riconosciuto, sia dalle ciurme di terra e di mare, sia dalla proprietà e dagli amministratori che a lui affidavano lʼorganizzazione del lavoro e le sorti della stagione, era il raisi. Non sussisteva alcun punto di contatto tra le due realtà: da una parte la fatica solitaria dei pirrriaturi, dall’altra la collegialità in tutte le fasi preparatorie e poi di svolgimento della pesca, fino alla conclusione della mattanza. Lo jurnataru delle campagne poteva alternare il lavoro agricolo con quello di tonnaroto, così come di fatto avveniva in diverse aree in prossimità delle coste siciliane, dove erano dislocati i siti di pesca; ma un pirriaturi difficilmente avrebbe accettato di abbandonare la cava presa in affitto per trasferirsi in tonnara.

I dati mostrano come queste due attività economico-produttive fossero diventate, a fine Ottocento, fonte di ricchezza mai registrata in passato, contribuendo, peraltro, a dare anche grande impulso al trasporto marittimo per lʼesportazione dei conci [27]. Nel periodo 1895-98, si estraevano da 430 a oltre 530 mila quintali di pietra ogni anno, alimentando un indotto importante: dai manovali e dai carrettieri che si occupavano rispettivamente del carico e del trasferimento dei blocchi di vario formato dalle cave agli scari dell’isola per l’imbarco, ai marinai dei velieri e poi degli schifazzi a motore. Di conseguenza, il prezzo di vendita finale – già più elevato per il maggior pregio della pietra favignanese rispetto a quella delle cave marsalesi e mazaresi – si incrementava sensibilmente per l’incidenza dei costi di trasporto del prodotto.

Sotto il profilo sociale, però, la realtà si presentava con tutto il suo carico di dramma e spesso di tragedia; della distribuzione di questa ricchezza si avvantaggiava, infatti, una fitta rete di intermediari e di sfruttatori che avevano facile gioco a imporre le loro condizioni ai pirriaturi, imprenditori di sé stessi, per niente assimilabili a una categoria di lavoratori coesi. Lo spiegava bene un relegato molto speciale come lʼanarchico vercellese Luigi Galleani, autore della seguente lettera pubblicata in un periodico, a gennaio del 1898: 

«Son circa duecento i cavatori della cosidetta pietra di Favignana, che colla prima alba del giorno si alzano e fanno i tre, quattro, talvolta i cinque chilometri che li separano dalle cave dove scendono col primo sole e donde non escono che all’ultimo tramonto, sfiniti, stanchi, laceri, ombre più che uomini, quando pure un lungo grido straziante non sospende improvvisamente il lavoro avvisando che una tremenda disgrazia è avvenuta e che lo scalzo esercito dei poveri iloti ha una vittima, un morto od uno stordimento di più. Disgraziati come loro, si sa, ve ne sono a migliaia sotto il bel cielo della patria e non meriterebbero certo un esame speciale, se come tutto il restante del greggie si lasciassero tosare oltre ogni più evangelica pazienza, oltre ogni eroica rassegnazione da padroni immediati.
Quello che è nuovo, quello che merita una speciale considerazione è il fatto che questi duecento sfruttati sono gli imprenditori, i padroni veri, i contrattatori soli del proprio lavoro, dell’opera e del compenso proprio, e che si trovano con tutto ciò nella più miserabile delle condizioni che sia stata mai fatta ad uno schiavo, perché ammettono e tollerano l’intromissione dissanguatrice e ladra di tutta una turpe genìa d’intermediari organizzati nella più impudente, nella più ignobile e più… rispettata delle camorre, riducendosi così a non raggiungere mai, dopo quattordici ore di un lavoro selvaggio l’irrisorio compenso di una lira» [28]. 

Se, dunque, la soverchiante prevalenza della pesca del tonno nella storia di Favignana ‒ fatta propria dallʼimmaginario collettivo, oltre che dalla letteratura ‒ non rende giustizia ad una più articolata rappresentazione della sua economia e del suo tessuto sociale, diventa necessaria una riflessione e unʼulteriore campagna di studi interdisciplinari che può avvalersi delle numerose fonti documentarie disponibili. Basti pensare all’archivio Pallavicini di Genova e all’archivio romano dell’ex I.R.I. ‒ già esplorati da Marco Bologna, Orazio Cancila, Nicola Calleri [29] ‒ a quello d’impresa dei Parodi, a quelli del Comune e del Carcere di forte S. Giacomo, ai registri parrocchiali della Chiesa Madre, alle fonti notarili e ad altri fondi degli archivi di Stato di Trapani e di Palermo [30], nonché alle collezioni private di carte e di foto.

Una nuova stagione di ricerche varrebbe anche a dare le giuste proporzioni alle varie fasi della storia delle Egadi dallʼantichità alla contemporaneità. L’enfasi e lo sbilanciamento di attenzione sulla Favignana dei Florio, per esempio, hanno ingiustamente collocato in secondo piano sia i quasi duecentoquaranta anni di possesso genovese da parte dei marchesi Pallavicini e rami collaterali, dal 1637 al 1874, sia i decenni di proprietà e di gestione novecentesca dei Parodi, anch’essi genovesi, particolarmente attivi nella lavorazione industriale della produzione ittica.

La marginalizzazione del ruolo dei genovesi, nell’immagine che Favignana continua a proporre di sé, è un grave limite non solo sul piano della conoscenza del contesto, quanto soprattutto su quello sostanziale; è un capitolo in bianco di una monografia parziale sulla storia dellʼisola e – almeno in questo caso – non per responsabilità degli storici, che ben sanno quanta parte i genovesi abbiano avuto come finanzieri, mercanti e imprenditori nel commercio e nell’economia generale della Sicilia dal medioevo in poi.

È loro merito, infatti, se Favignana fu resa abitabile e se, anno dopo anno, si potenziarono e moltiplicarono le architetture funzionali alla pesca del tonno. Chi avrebbe potuto investire cospicui e ingenti capitali nelle Egadi se non i genovesi, che la ricchezza furono in grado di crearla e moltiplicarla? Chi avrebbe potuto inserire i barili di sorra e di tonnina tra i prodotti più richiesti nel grande commercio internazionale e resistere al predominio dei mari, prima olandese e poi inglese? Perché, allora, questa sottovalutazione del loro ruolo e da dove trae origine? Forse una spiegazione va ricercata nella sedimentazione dei passati e ripetuti contrasti che larga parte della popolazione manifestava apertamente nei loro confronti; insofferenza verso “stranieri” visti come sfruttatori di ricchezza dellʼisola. Atti di intolleranza e persino intimidazioni ‒ come quello prima ricordato a danno del Livolsi ‒ nei confronti degli amministratori e dei fiduciari dei Pallavicini, che non risparmiarono neppure il gabelloto trapanese delle tonnare, don Vito Alì e, in particolare il fratello Giacomo che lo coadiuvava nella gestione e che, nel 1806, fu vittima di un tentato omicidio a colpi di fucile [31].

Un altro esempio illuminante del difficile rapporto con la popolazione è riscontrabile nelle azioni di disturbo dei pescatori locali che, negli anni Sessanta dell’800, raggiunsero un livello tanto elevato di «molestia», da costringere l’imprenditore genovese Giulio Drago, esercente delle tonnare in quel periodo, a chiedere l’intervento della Marina militare, per impedire che le barche dei favignanesi intralciassero le operazioni di “calato” della tonnara. La stratificazione di questi micro-conflitti che i documenti riportano, non è stata ininfluente nella formazione di un cliché da sub-cultura sicilianista: Pallavicini-genovesi-monopolisti versus Florio-siciliani-filantropi.

Simili stereotipi, ancora oggi non del tutto rimossi, hanno impedito che la comunità isolana recuperasse le pagine originarie della propria storia, fino alla ricostruzione delle fasi di sviluppo degli edifici privati, delle chiese, delle opere pubbliche e dell’organizzazione della vita economica del paese. La storia di Favignana va scritta per intero, senza zone d’ombra, se non con quelle determinate dall’assenza di reperti archeologici o di fonti documentarie.

L’attività estrattiva nelle cave, dopo un lungo periodo di quasi rimozione, da qualche decennio ha cominciato ad essere studiata, a partire dalle tecniche e dalle due modalità di scavo: 

«[…] a cielo aperto (a fossa) e sotterranea (a galleria e pilastri). La scelta del metodo di scavo deriva dalle diverse situazioni orografiche del terreno e spesso si fondono insieme. […] Questa descrizione dei metodi di estrazione è indispensabile alla comprensione del territorio; essa diventa descrizione esatta delle forme che sono rimaste impresse nel paesaggio: lʼopera di sottrazione disegna le pareti, ne definisce la perpendicolarità, gli elementi, le rende praticabili, percorribili, insomma lo scavo produce una continua costruzione del paesaggio, in una forma che è già altro» [32]. 

smartLe incisioni ortogonali visibili alle pareti delle cave, a dimostrazione del tracciato dei tagli effettuati, richiamano il reticolo delle chilometriche reti della tonnara, il calatu, così come le volumetrie pietrificate del sottosuolo, che si sono andate modificando e ampliando nel tempo, rimandano a un immaginario fondale marino nel quale decine di uomini hanno condotto una cattura incruenta, ma non meno defatigante e pericolosa per la loro vita, che era scandita, dal mattino al tramonto, dal sordo rumore della piccozza.

La pesca del tonno, così come abbiamo imparato a conoscerla e come per secoli si è effettuata, è ormai al suo epilogo e non solo nei mari delle Egadi. È scaduto anche il tempo dei pirriaturi, in tutte le cave siciliane, sopraffatti dalle macchine e dai nuovi materiali per l’edilizia. Tuttavia, c’è una sostanziale differenza nellʼestinzione delle due attività: il Mediterraneo è diventato sempre più insidioso per i tonni genetici, ricercati, inseguiti e catturati con strumentazioni sofisticate e con dispiegamento di mezzi aerei e navali; inoltre, il «nostro» mare è diventato anche meno ospitale, perché il suo ecosistema sta subendo gli effetti dell’antropizzazione sfrenata della linea di costa, degli scarichi inquinanti urbani, industriali e delle petroliere, nonché della navigazione di ogni tipologia di navi e di natanti.

Nelle cave, invece, è tornato il silenzio e l’affilata mannara per tagliare la pietra è passata dalle mani dell’artiere alle vetrine dei musei del lavoro ma, diversamente dall’ambiente marino, qui la sperimentazione botanica sta trasformando il paesaggio e la natura si prende la sua rivincita; e, in fondo, anche la storia, se si pensa che gli splendidi giardini impiantati dagli arabi in Sicilia sono nati dentro le pareti di antiche cave dismesse. Protette dal vento, all’interno di grandi e piccole cave, in passato regno esclusivo della calcarenite, proliferano adesso piante rigogliose, orti e macchie mediterranee, lungo percorsi dominati da nuovi colori e profumi che lasciano intravedere – dalle viscere del territorio – un orizzonte naturalistico inatteso. Lʼisola sta riscoprendo la sua seconda anima. 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023 
Note
[1] T. Monticelli, Del trattamento delle api in Favignana, Napoli 1807: 3; la stesura del testo risale al 1800, come precisa lo stesso autore a p. 6.
[2] V. Guarrasi, Le forme della pietra, in Le forme del lavoro. Mestieri tradizionali in Sicilia, a cura di Mario Giacomarra e Giuseppe Aiello, Libreria Dante, Palermo 1990: 24-33.
[3] F. Torre, Pirriatura e pirreri a Favignana, in I mestieri. Organizzazione Tecniche Linguaggi, Quaderni del Circolo semiologico siciliano, n. 17-18, Palermo 1984: 331.
[4] R. Pirajno, Dove abita il mito, in E. Zinna., Egadi, L’Ulivo Saraceno, Mascalucia 1991: 15-25.
[5] A. Cusumano, Madre Pietra. Arte e tecnica del costruire a Salemi, Comune di Salemi, Salemi 1998: 18.
[6] G.E. Ortolani, Nuovo dizionario geografico, statistico, e biografico della Sicilia antica e moderna colle nuove divisioni in Intendenze, e Sottintendenze, Tip. F. Abbate, Palermo 1819: 56. La farina fossile è il residuo di microscopiche alghe della famiglia delle diatomee, studiate dal chimico e mineralogista svedese Johann Gottschalk Wallerius (1709-1785).
[7] S. Struppa, Favignana.Memorie e note, Tip. P. Montaina & C., Palermo 1877: 9.
[8] A. Cataliotti, Favignana. Memorie ed appunti. Con speciale riferimento al Castello di San Giacomo, Tip. L. Dimora, Girgenti (Agrigento) 1924: 20.
[9] G. Fanelli, Dai normanni all’età moderna: il lento cammino verso il popolamento, in F. Maurici, G. Fanelli, Le Isole Egadi dal tardo antico alle soglie dell’età moderna, «Nuove Effemeridi», 48 (1999): 42.
[10] F. Maurici, Per la storia delle isole minori della Sicilia. Le isole Egadi e le isole dello Stagnone nel Medioevo, in Acta Historica Archaelogica Mediaevalia, Barcelona 2001: 206.
[11] T. Spannocchi, Description de las Marinas de todo el Reino de Sicilia, copia anastatica del manoscritto del 1575-1578, a cura di Rosario Trovato, Ordine degli Architetti della provincia di Catania, Milano 1993, f. 89. Si veda anche C. Polto, La Sicilia di Tiburzio Spannocchi, Istituto Geografico Militare, Firenze 2001.
[12] G.F. Pugnatore, Historia di Trapani, prima edizione dellʼautografo del secolo XVI a cura d Salvatore Costanza, Corrao, Trapani 1984: 26.
[13] M. Giuffrè, Licentiae populandi, in Città nuove di Sicilia XV-XIX secolo – 1. Problemi, metodologia, prospettive di ricerca storica. La Sicilia occidentale, a cura di Maria Giuffrè, Vittorietti, Palermo 1979, vol. 1°: 225-230.
[14] F. Negro, C.M. Ventimiglia, Atlante di città e fortezze del Regno di Sicilia 1640, a cura di Nicola Aricò, Sicania, Messina 1992: 51.
[15] Contratto di gabella dellʼIsole e Tonnare di Favignana, e Formiche, Levanzo, Maretimo, ed altro, di proprietà della R.C. ad Ottaviano del Bono per onze 7000 lʼanno, 5 settembre 1634, in Documenti di provenienza delle proprietà del condominio Pallavicini e Rusconi in Sicilia, Stabilimento tip. Gaetano Nobile, Napoli 1843: 4.
[16] A.I. Amico di Castellalfero, Relazione istoriografica delle città, castelli, forti e torri esistenti neʼ littorali del Regno di Sicilia, in Castellalfero & Altri, Sicilia 1713. Relazioni per Vittorio Amedeo di Savoia, a cura di Salvo Di Matteo, Fondazione Lauro Chiazzese della Sicilcassa, Palermo 1994: 78.
[17] Archivio di Stato di Palermo (in seguito ASPa), Deputazione del Regno, serie Riveli, Favignana, busta 2392, anno 1816, «Riveli di rettificazione».
[18] ASPa, Ministero e Real Segreteria di Stato presso il Luogotenente Generale, Ripartimento Lavori Pubblici, n. 32, «Carta topografica della Favignana isola adiacente alla Sicilia», Palermo, 2 settembre 1829, disegnata da «Pietro Cusmano Agrimensore», cm. 64 x 99. La seconda carta n. 33, non è firmata, né datata: «Pianta topografica della Isola di Favignana ed accennamento de’ punti delle coste della Sicilia che più si avvicinano alla stessa», cm. 55 x 68.
[19] ASPa, Conservatoria del Real Patrimonio. Conservatoria di Registro, busta 2186, anno 1799, «Prospetto dell’Introiti, ed Esiti dell’Isole di Favignana, Formica e delle Tonnare proprie de’ Sig.ri Pallavicini».
[20] ASPa, busta 2186, «Conto delli Perriatori di Favignana a tutto Agosto 1798».
[21] ASPa, busta 2186, «Piano dellʼIntroiti dellʼIsola di Favignana, Levanzo, e Maretimo ricavato da un Ristretto fatto a tuttʼAgosto 1796 dal Razionale dellʼAmm.ne di Esse Isole Dn Giuseppe Gnecco».
[22] M. Zinnanti, Cenni storici delle Isole Egadi, Tip. G. Genovese, Monte S. Giuliano (Erice) 1912: 20.
[23] Seduta del 3 luglio 1844, in Decisioni della G. Corte deʼ Conti di Palermo per lo scioglimento della promiscuità, Tip. B. Virzì, Palermo 1845: 75-78.
[24] A.M. Fundarò, Giuseppe Damiani Almeyda tre architetture tra cronaca e storia, S.F. Flaccovio, Palermo 1999: 14.
[25] R. Lentini, Favignana nellʼ800: architetture di unʼeconomia, in Lo Stabilimento Florio di Favignana storia, iconografia, architettura, a cura di Giuseppe Gini, Renato Alongi, Rosario Lentini, Regione Siciliana, Assessorato dei Beni Culturali e Ambientali e della Pubblica Istruzione, Trapani 2008: 208-213.
[26] F. Torre, Pirriatura e pirreri a Favignana cit.: 330.
[27] Annali di Statistica. Condizioni economiche della provincia di Trapani, Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Roma 1896: 26.
[28] I cavatori di pietra a Favignana, lettera non firmata inviata al periodico «Il diritto alla vita», anno I, n. 11, 23-1-1898, attribuita dalla prefettura di Trapani allʼanarchico Luigi Galleani, coatto a Favignana.
[29] M. Bologna, Gli archivi Pallavicini di Genova, Ministero BB.CC.AA., Genova 1994, vol. I – Archivi propri; O. Cancila, Storia dellʼindustria in Sicilia, Laterza, Roma 1995; N. Calleri, Unʼimpresa mediterranea di pesca. I Pallavicini e le tonnare delle Egadi nei secoli XVII-XIX, Unioncamere Liguria, Genova 2006; O. Cancila, I Florio. Storia di una dinastia imprenditoriale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019, (Bompiani 2008).
[30] Per le fonti rinvenibili negli archivi di Stato e di Palermo cfr. R. Lentini, Favignana nellʼ800: architetture di unʼeconomia cit.
[31] ASPa, Conservatoria del Real Patrimonio, Conservatoria di Registro, busta 2145, «Memoriale al re di don Vito Alì di Trapani», 1806.
[32] M. Leonardi, La cave metodi di estrazione e morfologia del territorio, in T. La Rocca, “Gli indistinti confini”, Medina, Palermo 1995: 42.

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Rosario Lentini, studioso di storia economica siciliana dell’età moderna e contemporanea. I suoi interessi di ricerca riguardano diverse aree tematiche: le attività imprenditoriali della famiglia Florio e dei mercanti-banchieri stranieri; problemi creditizi e finanziari; viticoltura ed enologia, in particolare, nell’area di produzione del marsala; pesca e tonnare; commercio e dogane. Ha presentato relazioni a convegni in Italia e all’estero e ha curato e organizzato alcune mostre documentarie per conto di istituzioni culturali e Fondazioni. È autore di numerosi saggi pubblicati anche su riviste straniere. Tra le sue pubblicazioni più recenti si segnalano: La rivoluzione di latta. Breve storia della pesca e dell’industria del tonno nella Favignana dei Florio (Torri del vento 2013); L’invasione silenziosa. Storia della Fillossera nella Sicilia dell’800 (Torri del vento 2015); Typis regiis. La Reale Stamperia di Palermo tra privativa e mercato (1779-1851) Palermo University Press 2017); Sicilie del vino nell’800 (Palermo University Press 2019).

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