Stampa Articolo

Le amanti del nemico. Le rasate, collaborazioniste e peccatrici in Europa

Eure-et-Loir. Chartres, August 18th, 1944. Just after the liberation of the town, a French woman who had had a baby with a German soldier was punished by having her head shaved. © Robert Capa / International Center of Photography / Magnum Photos / Agentur Focus

Eure-et-Loir. Chartres, 18 agosto, 1944 (ph.Robert Capa, International Center of Photography / Magnum Photos / Agentur Focus)

di Sonia Salsi 

Introduzione 

Non è impresa facile scegliere quali memorie e quali luoghi privilegiare nella scrittura di un testo quando si tratta di eventi che hanno segnato drammaticamente il territorio europeo durante il periodo bellico. Lo storico statunitense Charles Maier dice che «le memorie collettive tendono a concentrarsi non sulla storia di lungo periodo di un popolo, ma sui suoi più dolorosi episodi di vittimizzazione»[1]. In questo senso i processi di rammemorazione sono spesso legati alla richiesta di «rispetto, attenzione, legittimazione» delle sofferenze subite da parte di comunità che cercano, non sempre con successo, di costruirsi uno spazio nella narrazione pubblica svolgendo una funzione di collegamento tra livello locale e nazionale. Queste comunità appaiono dunque come i veri, spesso unici, custodi della memoria del Paese: interpretano quella nazionale, conservano quella locale.

Dal dopoguerra in poi, con il crescere dell’attenzione alle forme della soggettività individuale, l’intreccio tra memorie pubbliche e private si è fatto più intenso, si sono costruiti portali per dare voce direttamente ai testimoni, uomini, donne e bambini che vissero sulla propria pelle gli orrori della guerra. Sembra però che alcuni episodi fatichino a radicarsi nella memoria storica collettiva, forse perché rappresentano una macchia nella vittoriosa marcia verso la liberazione dal nazifascismo. In realtà tali episodi andrebbero a maggior ragione indagati e analizzati per far sì che l’esercizio della memoria, per quanto doloroso, stimoli la consapevolezza e rimanga come monito per non ricadere negli stessi errori.

Per questo ho scelto di trattare quegli eventi e quelle memorie che si potrebbero definire “densi” di sofferenza e di senso di vergogna per aver vissuto “atti di amore” con il nemico tedesco durante la Seconda Guerra mondiale. Le donne che avevano diviso il letto con i nazisti, o che con loro avevano anche solo fraternizzato, furono accusate di quella che venne definita “collaborazione orizzontale”, quindi trascinate in strada e pubblicamente umiliate e vessate con la pratica che storicamente più si addice alle punizioni femminili: la rasatura dei capelli.

Il presente articolo indaga come, in guerra, il corpo della donna divenne terreno di forte appartenenza identitaria e nazionale su cui il nemico esercitò una violenza disumanizzante per affermare la propria virilità e superiorità sul genere femminile. La rasatura delle donne, pratica eminentemente simbolica di riappropriazione del corpo femminile, rappresentava infatti la specifica privazione della femminilità. Di fatto il loro corpo divenne un campo di battaglia rituale, un terreno per la parata trionfale del vincitore, «un messaggio trasmesso da uomini ad altri uomini: una vivida prova di vittoria per gli uni e di sconfitta per gli altri» [2]. 

81ia7dohgsl-_ac_uf10001000_ql80_Se la sopravvivenza è una categoria alla quale dobbiamo appellarci per interpretare i comportamenti femminili in guerra, d’altra parte non dobbiamo sottovalutare che talvolta le donne sfruttarono a loro vantaggio la presenza dell’occupante. Alcune intrecciarono relazioni per arricchirsi, ottenendo vantaggi economici in un periodo di forti privazioni e di estrema sofferenza per tutta la popolazione. Altre furono informatrici di professione che simpatizzavano con gli ideali nazifascisti; donne che miravano a inserirsi in dinamiche di potere o magari anche solo a vendicare abusi subiti da parte di connazionali prima della guerra. Certune, nonostante fossero fidanzate o sposate, alla partenza dei propri uomini per il fronte dovettero provvedere al mantenimento della famiglia e drammaticamente furono forzate a concedersi al nemico straniero o a prostituirsi.

In Francia, le femme à boche furono accusate di collaboration horizontale, espressione coniata per indicare tutte quelle relazioni sexuelles, intimes o sentimentales strette con gli occupanti durante la guerra [3]. Collaborazione significava “denazionalizzarsi”, rinunciare consapevolmente alla propria identità nazionale per quella del sale boche e commettere dunque un tradimento. Lo storico francese Olivier Wieviorka ci dà alcuni esempi di ciò che veniva considerato “collaborazionismo”: «avoir des relations étroites et suivies avec les Allemands», «travailler à leur service», «les recevoir à sa table», «manger, boire, rire avec eux», «se promener en leur compagnie» [4].

Nell’era della global history, lo scritto intende utilizzare un approccio comparativo che consentirà di superare le classiche analisi di tipo nazionale per far dialogare assieme i differenti contesti europei in cui ebbe luogo la pratica della rasatura delle donne in tempo di guerra. L’analisi di questo fenomeno prende avvio dall’approfondito studio condotto in Francia da Fabrice Virgili, che nel volume La France virile stima che circa 20 mila donne francesi furono rapate sul territorio nazionale, per poi ampliare l’indagine in nazioni come il Belgio, l’Olanda e l’Italia nel periodo della Liberazione 1943-1945 [5]. 

9788806248628_0_536_0_75Le donne rasate nella storia, dall’antichità sino all’epoca contemporanea 

La rasatura come pratica di punizione si riscontra fin dall’antichità in molte società umane. In varie epoche storiche e in diversi contesti, le donne sono state punite e mortificate con il taglio drastico dei capelli alla radice con il duplice scopo di evidenziare visivamente la loro colpa e, soprattutto, privarle simbolicamente della loro femminilità. Una punizione definita sessuata che vede i capelli come un esplicito richiamo sessuale. Durante il Medioevo era credenza comune che tra i capelli delle donne ritenute streghe si nascondessero forze ed entità malefiche, perciò a esse veniva recisa la capigliatura, per privarle di ogni potere soprannaturale. Nel Malleus Maleficarum, pubblicato nel 1487 dagli inquisitori domenicani Heinrich Kramer e Jacob Sprenger, si prescriveva la rasatura del capo al fine di infrangere l’incantesimo che permetteva alle imputate di non confessare [6].

Ancora prima, nel 98 d.C., nell’opera Germania Tacito descrive il taglio o la rasatura dei capelli a cui è sottoposta una donna adultera del popolo dei Germani: il marito tradito caccia di casa la donna alla presenza dei parenti, la denuda, le taglia i capelli e la insegue per i vicoli del paese malmenandola con una verga [7]. Alla veemenza della punizione del marito si aggiunge dunque il marchio di infamia sociale che secondo Tacito spiegherebbe il basso tasso di tradimenti femminili nella popolazione.

Anche Boccaccio in una novella del Decameron (1349-1353) descrive la stessa pratica, anche se in tono tragicomico, a testimonianza del fatto che l’usanza della rasatura fosse ancora in voga nel XIV secolo [8]. Numerose le testimonianze nel corso di tutto il Medioevo. Alcuni ordinamenti la imponevano alle meretrici colpevoli di crimini contro la morale. Il denudamento dei vestiti e il “denudamento” della testa con il taglio dei capelli sono due gesti simbolici che hanno l’obiettivo di condannare la persona all’infamia, un’umiliazione socialmente riconosciuta e legittima nel caso di adulterio o infedeltà [9].

Anche le donne che avevano stretto relazioni con il nemico durante la Seconda Guerra mondiale vennero considerate infedeli e quindi rasate, denudate e esposte all’umiliazione della pubblica piazza [10]. In questo caso però il tradimento non è più una questione privata tra marito a moglie, ma tra popoli in conflitto. La presenza della folla diventa dunque indispensabile perché il castigo giunga a compimento. Marcatura come distruzione simbolica del corpo colpevole, desacralizzazione che vieta alla donna rasata di ricoprire gli attributi della femminilità, essendo il corpo martoriato il riflesso della bruttezza morale interiore. La trasgressione compiuta dalle collaborazioniste non è tanto quella di una legge o di una norma scritta, quanto un’offesa alla morale profonda condivisa dal popolo [11]. 

9788858118917_0_424_0_75Il marchio della testa rasata delle donne in guerra 

Come abbiamo visto la rasatura dei capelli è una pratica arcaica, ripresa più volte nel corso della storia in occasione di crisi politiche e militari. Episodi di questo tipo hanno coinvolto diversi schieramenti ideologici e politici che, nonostante le differenze, si trovarono concordi su come punire le donne traditrici o incriminate di collaborazionismo. Alla fine della Seconda Guerra mondiale la tosatura si verificò in tutti i Paesi che avevano subìto l’occupazione tedesca. A partire dallo sbarco in Normandia degli Alleati si diffuse in Francia e in Italia, ma anche Belgio, Olanda, Danimarca, Jugoslavia, Polonia e Cecoslovacchia conobbero le loro tondues [12].

Attraverso le fotografie, le collaborazioniste dai crani rasati sono rimaste impresse nella memoria pubblica di quegli anni. La donna che rappresentò la rasata per eccellenza in Francia fu Simone Toseau. In una foto scattata dal fotoreporter Robert Capa il 16 agosto 1944 osserviamo la giovane rasata e marchiata con una svastica sulla fronte, vessata dalla folla che la circonda mentre abbraccia una neonata, una degli enfants de la honte, o fils de boche, testimone della vergogna. L’immagine fu pubblicata sulla rivista americana Life nel mese successivo e riprodotta poi su numerosi giornali. La rasata della Francia divenne presto famosa a livello mondiale come la tondue de Chartres.

Eure-et-Loir. Chartres, August 18th, 1944. Just after the liberation of the town, a French woman who had had a baby with a German soldier was punished by having her head shaved. © Robert Capa / International Center of Photography / Magnum Photos / Agentur Focus

Eure-et-Loir. Chartres, 18 agosto 1944 (International Center of Photography / Magnum Photos / Agentur Focus- Wophoto)

La Toseau all’epoca aveva ventitré anni e durante l’occupazione tedesca lavorava come impiegata presso l’ufficio di interpretariato degli occupanti tedeschi. Simone simpatizzava per il Parti Populaire Français di Jacques Doriot, il più vicino ai nazisti. Ma la colpa di Simone fu soprattutto di aver avuto una relazione con un militare tedesco da cui aveva avuto una figlia. Lui, Erich Göz, allora trentaduenne, proveniva da una famiglia borghese e protestante di Künzelsau, una piccola cittadina del Baden-Wurttemberg nella Germania sud-occidentale. Laureato in studi umanistici, nel periodo prebellico lavorava come bibliotecario. A Chartres era responsabile della libreria dell’esercito tedesco. Secondo Gérard Leray, che ha indagato su Simone Touseau ed Erich Göz, l’uomo e la sua famiglia erano distanti dal nazionalsocialismo [13]. Stando alla ricostruzione e alle testimonianze raccolte dallo storico, Erich Göz era innamorato di Simone e intenzionato a sposarla, ma la Storia li separò: lui fu inviato sul fronte russo, mentre Simone scontava 26 mesi di prigione.

Le tondues divennero infine il simbolo di una «virilità ritrovata» e mettono in luce il rapporto tra donne e uomini che, umiliati nel loro campo di elezione (la guerra), non seppero proteggere il loro Paese [14]. 

cef10c690e535d2fd46ade2ae1bc3c03La forza distruttiva maschile e la simbologia della rasatura dei capelli 

Nel 1868 Cady Stenton, attivista statunitense, guida dei primi movimenti femministi per l’emancipazione femminile, scriveva: «L’elemento maschile rappresenta una forza distruttiva, decisa, egoista, eccessiva, amante della guerra, della violenza, della conquista e dell’avidità, che genera discordia, disordine, malattia e morte sia nel mondo materiale che in quello spirituale. Guardate quali testimonianze di sangue e di crudeltà ci mostrano le pagine della Storia!» [15].

Un elemento rilevante, che merita di essere indagato, è la correlazione tra guerra e strumentalizzazione della donna, ricondotto attorno al riflesso automatico “conflitto armato-violenza sessuale”, tema che si collega anche al significato che nelle società patriarcali viene attribuito al corpo femminile, investito di significati intrinsechi come purezza, onore e continuazione della famiglia e quindi della società.

È appena il caso di ricordare che la Liberazione dell’Europa dal nemico tedesco fu un periodo complesso sul piano umano. Si mescolarono da un lato sentimenti di gioia e di entusiasmo, dall’altro paura e tristezza. Anche per cementare questa gioia collettiva la popolazione si sfogò sulle donne che avevano avuto relazioni con i soldati tedeschi, mettendo in luce gli aspetti più oscuri dell’animo umano. Uno strumento di rivalsa, se si vuole, per pareggiare i conti con chi durante la guerra si era fatto notare nei luoghi pubblici, in atteggiamenti amorosi con i nemici [16].  Di fatto, durante la guerra, mostrarsi in compagnia del nemico infrangeva la frontiera tra pubblico e privato, trasformando una relazione intima in un atto politico: le relazioni sessuali, dunque «par la façon dont elles s’affichent et font scandale» [17]. In realtà la maggior parte di queste donne visse queste relazioni come un atto di spensieratezza o anche di incoscienza. In Olanda vennero chiamate moffenmeiden (le puttane del nemico), in Belgio moffenhoeren, in Francia femmes a boches. Tutti termini ugualmente dispregiativi.

Eure-et-Loir. Chartres, August 18th, 1944. Just after the liberation of the town, a French woman who had had a baby with a German soldier was punished by having her head shaved. © Robert Capa / International Center of Photography / Magnum Photos / Agentur Foc

Donne francesi collaborazioniste (Wophoto/International Center of Photography / Magnum Photos / Agentur Foc)

In Francia, l’immagine della femme à boche si radicò nelle rappresentazioni collettive della collaborazione femminile. La visibilità delle “amanti del nemico” ne enfatizza il carattere “trasgressivo”. Le relazioni con il nemico furono sovradimensionate a causa dello scandalo che quei legami provocarono nelle comunità locali. Esporre le rasate al pubblico significava offrire alla popolazione uno spettacolo carnevalesco, di beffa e di generale irrisione.

La tosatura simboleggiava il riappropriarsi del corpo delle donne, che gli uomini locali ritenevano di legittima proprietà. Un corpo che, durante la guerra, divenne proprietà del nemico. Tagliare i capelli alle traditrici mirava dunque a ristabilire l’ordine patriarcale e l’autorità dell’uomo sulla donna. Lo studioso Luc Capdevila sostiene che «il taglio dei capelli puniva infatti le collaborazioniste che, disponendo liberamente del proprio corpo, invece di riservarlo ai compatrioti l’avevano offerto al nemico: tradimento politico e sessuale erano così sovrapposti, e la punizione mescolava al suo interno i temi della sessualità, della moralità, della collaborazione attiva e dell’identità nazionale» [18].

Donne francesi accusate di collaborazioniso (wophoto)

Donne francesi accusate di collaborazionismo (wophoto)

La rasatura delle donne richiedeva un’accurata esecuzione e organizzazione [19]. Mentre le tosature prima della Liberazione erano svolte in segreto, alla fine della guerra le collaborazioniste venivano condotte in un luogo pubblico ed esposte alla folla testimone della punizione. Questo aspetto organizzativo e metodico conferiva all’evento un carattere quasi ufficiale. Sovente le vittime erano prelevate con violenza dalle loro abitazioni, da parte di gruppi di uomini armati. Di fronte alla popolazione, il corpo della vittima era sottoposto ad atti umilianti: la rasatura della testa, talvolta marchiata con svastiche, il corpo cosparso di catrame e piume, svestite e costrette a camminare nude per le vie dei centri urbani dove venivano derise, alcune picchiate o lapidate e, nei casi peggiori, giustiziate a morte. La stessa procedura avveniva nei villaggi sparsi sui territori.

Il giudice diretto era in primis il popolo, composto da combattenti della Resistenza, ma anche da gente comune, donne, uomini, bambini e anziani che accompagnavano chi tagliava i capelli o stavano più in disparte, osservando la scena in modo passivo. Il corpo umiliato, privato dalla sua femminilità, appariva al pubblico come uno squallido carnevale, il marchio della collaborazionista, «più colpevole di non aver subìto che di essere veramente complice della violenza dell’occupante» [20].

le_chagrin_et_la_pitie_1969_Il film documentario Le Chagrin et la Pitié (Il dolore e la pietà) di Marcel Ophuls, uscito in Francia nel 1969 sottolinea le differenze tra collaborazionismo maschile e femminile. Hanna Diamond, nel volume Women and the Second World War 1939-1948, individua per la prima volta la misoginia e il paternalismo utilizzati nel dopoguerra dai tribunali d’epurazione per condannare sommariamente l’attività delle collaborazioniste, e mette in luce come, a differenza degli uomini, le donne fossero giudicate più per le loro qualità morali che per i crimini effettivamente commessi durante la guerra. Gli uomini collaborarono a livelli politico e militare mentre alle donne venne assegnato il ruolo di collaborazione sessuale. Furono dunque ritenute dei meri oggetti passivi, non veri e propri soggetti politici capaci di scegliere autonomamente se schierarsi o meno con il nemico [21]. Il giudizio per collaborazionismo per le donne, è un castigo di ordine morale, prima ancora che giuridico, che consente di esplorare una vasta anatomia di atteggiamenti e personalità affatto riconducibili alle immagini stereotipate dell’ausiliaria e dell’amante dei tedeschi [22]. 

Donne amanti del nemico. I casi italiani 

Michela Ponzani nel suo libro Guerra alle donne [23] descrive il biennio 1943-1945 in Italia come un periodo costellato di tensioni, esasperazioni, atteggiamenti e scelte individuali che segnarono uomini e donne su entrambi i fronti: i fascisti e antifascisti. Si giunse così alle fasi finali della guerra con un carico emotivo e psicologico pesante che forse, in parte, può aiutare a comprendere la violenza post-insurrezionalista che si scatenò al momento della Liberazione. Il popolo infuriato decise di vendicarsi, di giudicare e punire chi aveva provocato tanto dolore in vent’anni e più di dittatura e di estirpare dalla società italiana il “male del fascismo”. Le azioni di vendetta sono ricordate nelle testimonianze come necessarie, quasi si trattasse di un lavacro nazionale da cui attingere una rinascita per un Paese troppo a lungo martoriato dalla guerra.

Eppure, anche in questo contesto d’espiazione collettiva, non può mancare una riflessione su quelle “pratiche ingiuste” a cui vennero sottoposte le donne accusate di collaborazionismo. Come ricorda Ponzani, i casi che negli anni sono stati raccolti nel territorio nazionale non sono sufficienti per quantificare il fenomeno né permettono di giungere ad analisi conclusive compiute, assumono però un’importante valenza storiografica in quanto testimonianze esemplificative di documentazione della tosatura delle donne come pratica consolidata. Il fenomeno, in Italia come in Francia e negli altri territori coinvolti nella guerra, fu complesso e diversificato e non riguardò solo la fase insurrezionale ma si protrasse almeno fino alla fine del 1945.

Inoltre vittime del taglio dei capelli non furono soltanto le fasciste repubblicane, con colpe precise e circostanziate, ma anche mogli, fidanzate, madri di fascisti repubblicani, amanti di fascisti, tedeschi o americani. Eppure spesso si è cercato di spiegare la punizione barbara e arcaica della tosatura come gesto utile a canalizzare la rabbia e a evitare atti di violenza più gravi da parte di un popolo che gridava vendetta. Esemplificativo è il caso del Tribunale di Bergamo che nel processo a un partigiano, intentato da un’attrice a cui erano stati tagliati con violenza i capelli, assolse l’imputato dichiarando che la tosatura si era resa necessaria «nell’interesse dell’ordine pubblico, e nello stesso interesse delle povere malcapitate, oggetto dell’odio popolare» [24]. La rasatura per i giudici rappresentava dunque il “male minore”, essendo sì un atto oltraggioso, ma che «esauriva tutta la punizione, senza che venisse intaccato alcun diritto inalienabile o imprescrittibile, come sarebbe stato il diritto alla vita o anche alla sola integrità personale» [25]. 

Donne francesi accusate di collaborazionismo

Donne francesi accusate di collaborazionismo (wophoto)

Figli del nemico in Belgio e Olanda. Le testimoni viventi Monika Dietrichs e Gerlinda Swinnen 

Durante la Seconda Guerra mondiale, migliaia di bambini nacquero in Belgio da una relazione tra i militari della Wehrmacht e donne locali. Sono stati chiamati “figli della guerra” nel senso letterale del termine perché i loro genitori non si sarebbero incontrati senza il conflitto. La maggior parte dei bambini nati durante la guerra furono generati all’interno di rapporti volontari, quando non da vere e proprie storie d’amore. A differenza della Prima Guerra mondiale, quando le truppe tedesche terrorizzarono la popolazione civile, la Wehrmacht aveva ricevuto ordini rigorosi di comportarsi cortesemente con le donne. Gli stupri erano rari e venivano anche puniti. I soldati tedeschi durante la guerra non furono autorizzati a sposare le donne dei Paesi occupati con cui avevano avuto relazioni. Le compagne, quindi, a cui venne impedito di diventare mogli legittime, si ritrovarono sole, spesso in stato di gravidanza, tra la vergogna e l’isolamento sociale. Alcune scelsero di abbandonare i figli segreti negli orfanotrofi o di darli in adozione, tentando così di riappropriarsi di un’esistenza normale e magari sperando per i loro bambini una vita lontano dallo stigma sociale. Altre decisero di tenerli con sé nonostante le difficoltà e le sofferenze che non sarebbero state loro risparmiate e nonostante si mettesse continuamente in dubbio la loro capacità di provvedere alle loro creature.

Durante l’infanzia le madri tendevano a non parlare ai figli della loro discendenza tedesca. Rispondere alle domande, che pure i bambini ponevano spesso, spinti anche dalla curiosità (o dalla cattiveria) dei loro compagni, significava rinnovare il senso di vergogna e ammettere delle colpe che, in verità, non avevano [26]. La maggior parte di loro scoprì solo in tarda età l’origine paterna. Alcuni riuscirono poi a conoscere il proprio padre, altri invece non ebbero nemmeno la possibilità di conoscere la madre naturale.

Le ricerche storiche in Olanda dicono che più di 140 mila ragazze e donne olandesi strinsero contatti con l’occupante tedesco tra il 1940 e il 1945. Da queste relazioni si stima che siano nati tra i 13 mila e 15 mila bambini. Bambini la cui vita è stata segnata da una guerra che hanno appena vissuto ma che spesso li ha resi bersaglio di molestie, di rifiuto ed emarginazione sociale, dal momento che essere un figlio illegittimo all’epoca comportava una serie di complicazioni burocratiche che rendevano difficoltoso anche trovare un lavoro e guadagnarsi da vivere. Per le loro madri, chiamate in modo dispregiativo moffenmeiden la liberazione del Paese occupato dai tedeschi non fu proprio un sollievo. Alcune subirono processi e furono condannate a pene detentive o agli arresti domiciliari, altre furono spedite in campi di lavoro insieme ad altri “traditori”, altre ancora riuscirono a fuggire all’estero con il bambino nato dalla relazione [27]. 

L’elaborazione della memoria dei figli dei nemici non è stata impresa facile. Venne spesso scelto il silenzio perché l’esercizio della memoria e il racconto avrebbero riaperto ferite mai del tutto rimarginate [28]. Essere “figli del nemico” significava essere “figli delle traditrici della patria” e questo marchio d’infamia li accompagnò per tutta la vita.

Monika Diederichs, nasce in Germania, da madre olandese e padre tedesco. Suo padre era tornato gravemente ferito dalla guerra (aveva perso entrambi gli occhi), per questo la famiglia visse quei primi anni con i nonni paterni in Germania. Nel 1947 il padre di Monika, Alois, morì ancora molto giovane, così Monika e sua madre tornarono nei Paesi Bassi. Ci vollero tre giorni di viaggio per attraversare la Germania, distrutta dalla guerra e dai bombardamenti, e raggiungere il Paese materno. Appena arrivate al confine, però, sorsero nuovi problemi dovuti alla paternità tedesca di Monika, sgradita ai Paesi Bassi. Nonostante questo, madre e figlia riuscirono ad attraversare legalmente il confine e arrivarono ad Amsterdam. Qui la madre di Monika si risposò con un olandese e diede un taglio al suo passato. Per diversi anni, Monika era solita trascorrere le vacanze dai nonni e dalla zia paterna, fino a quando il suo passato non divenne troppo pesante per una bambina. Nonostante gli enormi sforzi per nascondere le sue origini tedesche, veniva bullizzata a scuola e le domande su suo padre diventavano sempre più insistenti.

41gdawf3cil-_ac_uf8941000_ql80_A Monika non rimase che rassegnarsi al silenzio preservando il suo benessere psichico e la sua serenità. Nel 2006 decise di pubblicare il libro Wie geschoren wordt moet stil zitten [29], una ricerca sulle donne che durante la guerra avevano avuto relazioni sentimentali con i tedeschi e sui figli che nacquero da queste relazioni. Nel 2012 ha scritto invece la sua autobiografia Herinneringen van een moffenkind [30], in cui racconta della discriminazione e del rifiuto sociale con cui ha dovuto combattere tutta la vita in Olanda. Alla testimonianza della Diederichs si affiancano quelle di altri “figli del nemico”. Escono finalmente dall’oblio racconti drammatici e carichi di emozioni e appare un quadro che si discosta dall’immaginario comune del tempo: il tedesco crudele e assassino scompare e prende il suo posto, invece, un nemico cordiale, gentile e seducente. Nelle storie di questo libro si riconoscono molti “figli dei nemici”, e riaffiorano con una nuova dignità anche gli amori perduti, le storie d’amore proibite ostacolate dalle famiglie ed emarginate dalla società. La domanda che la Dietrichs pone al lettore è: «Perché “i figli dei nemici” sono considerati co-colpevoli della guerra?».

Gerlinda Swillen, cittadina francofona, è figlia di una madre fiamminga e di un soldato tedesco. La sua ricerca della verità si intensifica nel 2007 quando sua madre, oramai anziana, le rivelò il nome del suo padre biologico: Karl. L’autrice, nel suo libro autobiografico De koekoeskind. Door de vijand verwekt 1940-1945 [31], racconta dei nonni spaventati dal fatto che la nipote fosse figlia di un tedesco. I nonni materni infatti erano originari di Lovanio e avevano vissuto sulla propria pelle la Prima Guerra mondiale, con la devastazione delle città da parte degli occupanti. Avevano visto come venivano trattati i bambini delle donne stuprate dai nemici ed erano terribilmente preoccupati per il futuro della loro figlia e della sua bambina. Il libro raccoglie le storie di una settantina di “figli di guerra” belgi che per la prima volta raccontano la loro vita e l’emarginazione subita. Emerge anche che molti di loro idealizzarono il proprio padre biologico sperando che li portasse via dall’inferno in cui vivevano, speranza che in molti casi venne delusa. Qui la domanda di fondo è: le donne belghe videro i tedeschi come occupanti e nemici? Dalle interviste effettuate dalla Swillen sembra di no, ma che al contrario, forse con un po’ di ingenuità, li percepirono semplicemente come uomini giovani e bellissimi, affascinanti nelle loro uniformi e cortesi, a differenza dei belgi più rudi e meno generosi. 

51dp9kibf0l-_ac_uf10001000_ql80_Madri e figli avuti dai tedeschi, tra accoglienza ed esclusione sociale 

I soldati tedeschi erano sottoposti a una forte disciplina, in quanto il nazismo voleva anche controllare le vite intime dei loro militari. Furono distribuiti preservativi contro le malattie sessualmente trasmissibili e il regime istituì bordelli nei Paesi occupati per soddisfare i bisogni sessuali dei soldati. Questo però non fu sufficiente, anzi molte relazioni con le donne locali nacquero proprio come una sorta di “ribellione” da parte dei giovani soldati. La guerra innescava anche questa nuova necessità di rifugiarsi in sentimenti più intensi, intrisi di tenerezza per sfuggire agli orrori e distruzione che si vivevano ogni giorno.

In Norvegia, per molto tempo, ci fu la convinzione che i figli dei tedeschi fossero mentalmente disturbati. Il famoso psichiatra Ørnulf Ødegaard, che a lungo si è occupato delle donne che fraternizzarono con il nemico tedesco durante l’occupazione della Norvegia, quantifica che al 50-60% di bambini nati da 35 madri norvegesi e tedeschi furono diagnosticati problemi cognitivi, soprattutto a causa del pregiudizio e dell’avversione contro il nemico tedesco. Molti di loro furono collocati in istituti psichiatrici, trattati come incapaci di intendere e lì abbandonati al loro destino [32].

Ad Amsterdam c’erano ospedali speciali dove le amanti dei tedeschi potevano partorire a condizione che diventassero membri dell’associazione delle donne nazionalsocialiste. Secondo l’ideologia nazista, i figli delle donne belghe e olandesi potevano essere buoni ariani. A queste donne era concesso di scegliere se dare i figli in adozione o tenerli. Nell’Europa dell’Est le donne non avevano scelta. Erano i nazisti che sceglievano: se il figlio del soldato tedesco aveva sufficienti caratteristiche ariane poteva essere tenuto, nel caso non fosse risultato idoneo veniva dato in adozione.

Negli ospedali olandesi, le donne che amavano un tedesco non venivano sempre trattate bene. Ad esempio, capitava che sopra il letto di una di queste ragazze fosse appeso un cartello che recitava «Dopo la presa in cura della gestante obbligatorio lavarsi le mani».

Solo pochi uomini sposarono le amanti olandesi. Molte donne rimasero madri sole. Quelle che avevano potuto tenere i figli con sé spesso fecero ritorno nel Paese d’origine lavorando duramente, tra sacrifici e privazioni, per sfamare quei figli tanto desiderati quanto sfortunati e consentire loro una vita dignitosa. Il Sint Hubertus di Amsterdam era un istituto che accoglieva le madri nubili e i loro figli avuti dai tedeschi. Dopo la guerra, questa associazione prese una posizione chiara sull’inclusione dei bambini dei soldati tedeschi: potevano essere accolti solo se tenuto segreto il loro status e se il nome di battesimo tedesco veniva convertito in olandese. Diederichs trovò molti esempi di cambiamenti di nomi dei bambini “proibiti” [33]. In molti casi, anche quando un padre avesse voluto riconoscere il proprio figlio, non fu consentito registrarlo con il cognome paterno.

9789461538291-usI “figli del nemico” erano visti come “bambini proibiti”, testimoni scomodi di un fenomeno che si voleva cancellare dalla memoria nazionale [34]. In quanto figli “illegittimi” non potevano godere degli stessi diritti dei bambini nati all’interno del matrimonio, ma anche dentro le stesse famiglie non avevano lo stesso trattamento. Come ha sottolineato Eva Morletto «i bambini della vergogna crebbero nel dolore, nella negazione delle loro radici, spesso poco amati dalle stesse madri, molte volte umiliati in pubblico, discriminati, isolati». La stessa giornalista riporta la testimonianza drammatica di uno di loro D. R., che passò l’infanzia nella vergogna continua di colpe che non gli appartenevano. La nonna materna, infatti, detestava quel fils de boche che gettava disonore su di lei e sull’intera famiglia e lo puniva ripetutamente con pratiche dolorose e umilianti, che suscitavano le risate dell’intera comunità che continuamente lo insultava e lo prendeva in giro [35].

In Germania, prima dell’emanazione della legge del 1969 sullo status giuridico dei figli nati prima del matrimonio, i figli “illegittimi” erano completamente esclusi dalla successione del padre naturale, in quanto non considerati discendenti dello stesso. In seguito all’entrata in vigore della legge nel 1970 ai figli naturali venne riconosciuto questo diritto, ma non per i nati prima del 1949, che al momento dell’attuazione della legge avevano già compiuto 21 anni. Questo diritto di eredità è spesso la ragione per cui i parenti biologici tedeschi si rifiutarono di incontrare i “bambini di guerra”. Da un lato i parenti temevano che reclamassero diritti di successione e dall’altro, invece, i figli desiderano solo essere riconosciuti come tali e riappropriarsi delle proprie origini e della loro identità negata. 

c_picaper_enfants_maudits-1Ritrovare il proprio padre. Le associazioni generose 

Molti anni dopo la fine della Seconda Guerra mondiale “les enfants de la honte” hanno deciso di rivelare le loro identità, hanno iniziato a raccontare le loro storie e a cercare quel genitore tedesco che spesso non avevano mai conosciuto.

È il caso del signor Delorme Hoffmann che nel 2005, in seguito alla pubblicazione su “Le Figaro” del libro di Jean-Paul Picaper, Enfants maudits [36], ha fondato in Francia l’associazione Coeur Sans Frontières. L’associazione, che conta circa 200 membri, riunisce tutti quei bambini figli di madri francesi e di soldati tedeschi, offrendo un aiuto concreto a ritrovare le proprie origini e a ottenere da parte dell’Assemblea nazionale o del Bundestag, la doppia nazionalità. Punto di riferimento per queste ricerche è la Deutsche Dienststelle di Berlino, un archivio istituito nel ’39 con tutte le schede dei militari tedeschi coinvolti a vario titolo nella Seconda Guerra mondiale. Ogni anno il servizio gestisce circa 500 richieste da “bambini di guerra” che sono alla ricerca della loro origine tedesca.

La segretaria dell’associazione Coeur Sans Frontières, Chantal Le Quentrec, è a sua volta un’enfant de la honte. «Senza radici, è come vivere a metà – ha detto a Eva Morletto – Ho potuto raccontare finalmente la mia storia, ma ormai la mia vita l’ho vissuta, ho potuto farlo troppo tardi. Ma se per noi è troppo tardi, siamo qui per aiutare gli altri, quelli che nascono ora, siamo qui per non farli sentire soli, perché non debbano subire quello che noi abbiamo subito. Un’infanzia senza amore è un abisso di solitudine dal quale ci vogliono anni per tornare a galla» [37]. 

51zh82xogel-_ac_uf10001000_ql80_Conclusioni 

Oggetto di rimozione dalla memoria collettiva dell’Europa del Dopoguerra furono le storie d’amore fra militari tedeschi e le donne dei Paesi occupati. La retorica dominante al termine del conflitto fu infatti quella che prescriveva alle donne il rientro nei ruoli familiari e nei compiti procreativi e materni. Molte delle vicende di cui sono protagoniste le donne processate per collaborazionismo rinviano a vicende legate a relazioni sentimentali e sessuali, che si intrecciano intimamente alle vicende belliche. Durante la Liberazione, le donne furono punite perché non si conformarono al modello dominante di pretesa di fedeltà alla Nazione, ai propri mariti e fidanzati. I rapporti sessuali con il nemico non furono solo giudicati come tradimenti ma dimostrarono un concedersi una libertà e sessualità autonoma e indipendente impossibile da lasciare impunita. Per aver tradito la Nazione le donne vennero rasate in pubblico perché la loro colpa fosse immediatamente visibile, denudate, percosse, insultate e derise, mentre il triste spettacolo veniva vissuto dalla popolazione come si trattasse di una festa.

Tra le varie motivazioni che durante la guerra spinsero le donne tra le braccia, e nei letti, dei nemici, si è cercato di rimuovere e cancellare quella più semplice e banale: l’amore. Alcune relazioni tra soldati tedeschi e donne locali furono relazioni d’amore. Incaute, ingenue, superficiali, sbagliate, immature, pericolose, drammatiche, lunghe o fugaci, queste storie d’amore sono state dimenticate dalla Storia e dalla storiografia, così come si è cercato di dimenticare i “figli della vergogna” nati da questi rapporti. Per questi bambini l’infanzia fu spesso drammatica, con forti ripercussioni psicologiche che si sono protratte nell’età adulta. Alcuni vennero abbandonati in orfanotrofi e istituti, altri vissero in famiglie che continuarono a vedere in loro il marchio infamante della vergogna e dell’illegittimità. Alcune madri si trovarono a crescere i bambini da sole tra mille difficoltà, tra la diffidenza e la derisione per essere state “amanti del nemico” e “traditrici della patria”.

Nonostante il tentativo di cancellare questa pagina oscura della Liberazione dalle memorie nazionali, i racconti dei testimoni che sono stati bambini di guerra hanno iniziato a emergere e a rivendicare la loro identità, liberandosi dalla vergogna e da colpe che non hanno mai avuto. Un fenomeno complesso e diversificato che si è diffuso in tutta l’Europa durante la Seconda Guerra mondiale, con radici marcatamente misogine che ci spingono, anche alla luce dei nuovi cambiamenti sociali che stiamo vivendo, a riflettere sulla condizione della donna e sulle discriminazioni che, soprattutto nei momenti di forte crisi, colpiscono il genere femminile.

Dialoghi Mediterranei, n 63, settembre 2023 
Note
[1] Charles S. Maier, Un eccesso di memoria? Riflessioni sulla storia, malinconia e la negazione, “Parolechiave”, 1995: 29-44.
[2] F. Battistelli, Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento, in M. Flores (a cura di), Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento, Franco Angeli, Milano 2020: 17-42; L. Sugamele, “La donna corpo-territorio nell’orizzonte performativo della guerra”, Scienza e Pace, III, 1, 2017: 63-80.
[3] F. Virgili, La France “virile”. Des Femmes tondues à la libération, Editions Payot Paris, 2004: 27-28.
[4] O. Wieviorka, Guerre civile à la française? Le cas des années sombres (1940-1945) in “Vingtième Siècle.Revue d’histoire” 85, 2005: 16.
[5] Una prima analisi del fenomeno in Italia è stata condotta da F. Gori, Ausiliarie, spie amanti. Donne tra guerra totale, guerra civile e giustizia di transizione in Italia: 1943-1945, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Pisa, anno accademico 2012/2013; altri riferimenti si trovano in M. Ponzani, Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico” 1940-1945, Torino, Einaudi 2012: 154-155; M. Dondi, La lunga Liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 2004: 125-130, D. Gagliani, E. Guerra, L. Mariani, F. Tarozzi (a cura di), Donne guerra e politica, Bologna, Clueb, 2000: 36-37; L. Casali, Cumer. Il Bollettino militare del Comando unico militare Emilia Romagna. Giugno 1944- aprile 1945, Bologna, Patron, 1997.
[6] V. Zallot, Sulle teste nel Medioevo. Storie e immagini di capelli, Bologna, Il Mulino, 2021.
[7] Tacito, Germania, Mondadori, Milano 2019, cap. XIX.
[8] «Ed andatosene al letto, credendosi la moglie pigliare, prese la fante, e quanto egli potè menare le mani ed i piedi, tante pugna e tanti calci le diede, che tutto il viso l’ammaccò, ed ultimamente le tagliò i capelli, sempre dicendole la maggior villania che mai a cattiva femina si dicesse», G. Boccaccio, Decameron, Milano, Rizzoli,  2013, Giornata settima, Novella VIII.
[9] P. Parisi, Capelli giuridicamente significativi. Una mappa concettuale, in “Ircocervo”.
[10] I. Deák, Europa a processo. Collaborazionismo, resistenza e giustizia fra guerra e dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2019.
[11] Cfr. M. Dondi, La lunga liberazione, op. cit: 91; M. Borghi, A. Reberschegg, Fascisti alla sbarra. L’attività della Corte d’Assise straordinaria di Venezia (1945/1947), Istituto Veneziano per la storia della Resistenza e della Società contemporanea, Venezia, 1999: 47.
[12] Per il caso danese cfr. A. Warring, Intimate and sexual relations, in A. Warring, (a cura di), Surviving Hitler and Mussolini, Berg, Oxford 2006: 27-42.
[13] G. Leray, P. Frétigné, La tondue 1944-1947, edizioni Vendémiaire.
[14] F. Virgili, La France “virile”, op. cit.
[15] E. Pyle, Here is your war, New York, Henry Holt, 1943:112.
[16] F. Virgili, La France “virile”, op.cit.: 37.
[17] L. Hugueney, Crimes et délits contre la chose publique, in «Revue de Science criminelle», 1947: 225.
[18] L. Capdevila, La “Collaboration sentimentale”. Antipatriotisme ou sexualité hors-normes? (Lorient, Mai 1945), in «Cahier de l’IHTP», 31, 1995: 67-82.
[19] F. Rouquet, F. Virgili, Les Françaises, les Français et l’Épuration, Gallimard, Paris 2018: 119.
[20] F. Virgili, La France “virile”, op. cit. p. 204.
[21] H. Diamond, Women and the Second World War 1939-1948. Choices and Constraints, Routledge, 199: 33.
[22] M. Ponzani, op. cit: 291.
[23] M. Ponzani, op. cit.
[24] Sentenza del Tribunale di Bergamo del 24 febbraio 1949 contro P., «Il foro italiano», vol. LXXII, parte I-73: 1106-1108.
[25] Ivi, p. 1109.
[26] M. Ponzani, Figli del nemico. Le relazioni d’amore in tempo di guerra 1943-1948, Bari, Laterza, 2015.
[27] De afrekening met de “moffenmeiden”, VPRO – Het spoor terug, 14 jan 1988.
[28] G. Gribaudi, Guerra, catastrofi e memorie del territorio, III VOL 13 Regioni II 15/12/14: 251-273.
[29] M. Diederichs, Wie geschoren wordt moet stil zitten, Aspekt, BV, 2015.
[30] M. Diederichs, Herinneringen van een moffenkind, Aspekt, BV, 2020.
[31] G. Swillen, De koekoeskind. Door de vijand verwekt 1940-1945, Meulenhoff, Manteau 2009.
[32] L.Walløe, Ørnulv Ødegård, in K. Helle (ed.), Norsk biografisk leksikon, Oslo: Kunnskapsforlaget. Retrieved 20 February 2011.
[33] M. Diederichs, op. cit., 2015.
[34] M. Ponzani, op. cit., 2015.
[35] E. Morletto, I “bambini maledetti” di Francia, “Famiglia Cristiana” 31/01/2013.
[36] J. P. Picaper, Enfants maudits, Edition des Syrtes, 2004.
[37] E. Morletto, op. cit. 
Riferimenti bibliografici 
Battistelli, F. Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento, in Flores M. (a cura di), Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento, Franco Angeli, Milano 2020. 
Bergère, M. Le stéréotype du collabo à la Libération, in Grandiere M. et Molin M., Le stéréotype, outil de régulations sociales, PUR, Rennes 2003; (2004) Une société en épuration. DOI: 10.4000/books.pur.27668. 
G. Boccaccio, Decameron, Rizzoli, Milano 2013 
Borghi, M., Reberschegg, A.  Fascisti alla sbarra. L’attività della Corte d’Assise straordinaria di Venezia (1945/1947), Istituto Veneziano per la storia della Resistenza e della Società contemporanea, Venezia, 1999. 
Brossat, A. Les tondues: un carnaval moche, Paris, Manya 1992. 
Capdevila, L. La “Collaboration sentimentale”. Antipatriotisme ou sexualité hors-normes? (Lorient, Mai 1945), in «Cahier de l’IHTP», 31, 1995; (1999) Les Bretons au lendemain de l’Occupation. DOI: 10.4000/books.pur.8895 
Casali, L. Cumer. Il Bollettino militare del Comando unico militare Emilia Romagna. Giugno 1944- aprile 1945, Bologna, Patron, 1997. 
De Luna, B. Le donne del nemico. I processi per collaborazionismo nel dopoguerra: Francia e Italia a confronto 1944-1951. Dottorato di ricerca in Storie, culture e politiche del globale, ciclo 33 Alma Mater Stodiorum-Università di Bologna in cotutela con Université de Paris1-Pantheon Sorbonne, 2011. 
Deák, I. Europa a processo. Collaborazionismo, resistenza e giustizia fra guerra e dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2019. 
Debruyne, E. «Les femmes à boche» en Belgique et en France occupée (1914-1918), in «Revue du Nord», 404, 2014; «Femmes à Boches» Occupation du corps féminin, dans la France et la Belgique de la Grande Guerre, Les belle lettres, Paris, 2018.
Diamond, H. Women and the Second World War 1939-1948. Choices and Constraints, Routledge, 1999. 
Diederichs, M. Wie geschoren wordt moet stil zitten, Aspekt, BV, 2015; Herinneringen van een moffenkind, Aspekt, BV, 2020. 
Dondi, M.  La lunga Liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 2004. 
Eck, H. Les Françaises sous Vichy, in “Histoire des femmes”, t. 5, sous la direction de Françoise Thébaud, Paris, Plon, 1992. 
Feci S., Schettini L. (a cura di), La Violenza contre le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secoli xv-xxi) Roma, Viella, 2017. 
Frétigné, P. e Leray, G. La Tondue, 1944-1947, Vendémiaire, 2018 
Gagliani, D., Guerra, E., Mariani, L., Tarozzi, F. (a cura di), Donne guerra e politica, Bologna, Clueb, 2000. 
Gori, F. Ausiliarie, spie amanti. Donne tra guerra totale, guerra civile e giustizia di transizione in Italia: 1943-1945, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Pisa, anno accademico 2012/2013. 
Gribaudi, G. Guerra, catastrofi e memorie del territorio, III VOL 13 Regioni II 15/12/14 
Heineman, E. D. (dir.), Sexual Violence in Conflict Zones. From the Ancient World to the Era of Human Rights, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2011, Published in Clio. Femmes, Genre, Histoire, 39 | 2014. 
Hugueney, L. Crimes et délits contre la chose publique, in «Revue de Science criminelle», 1947. 
Laborie, P. L’opinion française sous Vichy, Paris, Seuil, 1990. 
Leray, G., Frétigné, P. La tondue 1944-1947, edizioni Vendémiaire 2011. 
Jackson, J. La caduta della Francia. L’invasione nazista del 1940, 21 Editore, 2019 
Maier, C. S. Un eccesso di memoria? Riflessioni sulla storia, malinconia e la negazione, “Parolechiave”, n. 9, 1995: 29-44. 
Morletto, E. I “bambini maledetti di Francia”, “Famiglia Cristiana” 31/01/2013. 
Parisi, P.  Capelli giuridicamente significativi. Una mappa concettuale, in “Ircocervo”. 
Picaper, J. P. Enfants maudits, Edition des Syrtes, 2004. 
Ponzani, M. Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico” 1940-1945, Torino, Einaudi 2012;
Ponzani, Figli del nemico. Le relazioni d’amore in tempo di guerra 1943-1948, Bari, Laterza, 2015. 
Pyle, E. Here is your war, New York, Henry Holt, 1943. 
Oosterom, R. Moffenmeiden: Over soldatenliefjes, knippers en omstanders: een geschiedenis in verhalen, Meulenhoff Boekerij B.V. 2019.
 Rouquet, F. Epuration, résistance et représentations: quelques éléments pour une analyse sexuée, in C. Bougeard, La résistance et les français: enjeux stratégique et environnement social, PUR, Rennes, 1995. 
Rouquet, F., Virgili, F. Les Françaises, les Français et l’Épuration, Paris, Gallimard 2018. 
Rosaspina, E. L’ultimo segreto della donna rasata di Chartres, “Corriere della Sera”, 24 agosto 2014. 
Sugamele, L. La donna corpo-territorio nell’orizzonte performativo della guerra, “Scienza e Pace”, III, 1, 2017. 
Swillen, G. De koekoeskind. Door de vijand verwekt 1940-1945, Meulenhoff, Manteau 2009. 
Tacito, Germania, Mondadori, Milano 2019, cap. XIX. 
Virgili, F. La France “virile”. Des Femmes tondues à la libération, Editions Payot Paris, 2004. 
Voisin, V. (2018) Traitors, Collaborators and Deserters in Contemporary European Politics of Memory. DOI: 10.1007/978-3-319-66496-5_10. 
Walløe, L. Ørnulv Ødegård, in K. Helle (ed.), Norsk biografisk leksikon, Oslo: Kunnskapsforlaget. Retrieved 20 February 2011.
Warring, A. Intimate and sexual relations, in Warring, A. (a cura di), Surviving Hitler and Mussolini, Berg, Oxford 2006 
Wieviorka, O. Guerre civile à la française? Le cas des années sombres (1940-1945) in “Vingtième Siècle.Revue d’histoire” 85, 2005. 
Zallot, V. Sulle teste nel Medioevo. Storie e immagini di capelli, Bologna, Il Mulino, 2021. 
Film
La Tondue de Chartres, documentario di Patrick Cabouat, Couleurs Productions, 52 min, 2017. 

 _____________________________________________________________

Sonia Salsi, ricercatrice indipendente, è nata e cresciuta presso il villaggio minerario di Lindeman in Belgio. Laureata nel 2010 in Scienze antropologiche presso l’Università di Bologna con una tesi sulla storia dell’immigrazione italiana in Belgio verso i bacini minerari del Limburgo. Nel 2014 consegue la laurea magistrale in Progettazione e gestione dell’intervento educativo nel disagio sociale con una tesi sulle donne rifugiate e richiedenti politici a Bologna. A dicembre 2015 ottiene un Master Interculturale di primo livello nel campo della salute, del welfare, del lavoro e dell’integrazione presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Da diversi anni si occupa di biografie, racconti e narrativa di donne italiane che vissero le migrazioni nei contesti multiculturali in adiacenti le zone carbonifere tra il Belgio, l’Olanda e la Francia.

______________________________________________________________

 

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>