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L’antropologia, la città e le gang giovanili. Una chiave interpretativa

Baby gang

Baby gang

di Annalisa Di Nuzzo

Premessa

L’aria della città rende liberi (Max Weber)

Nel corso del Medioevo, l’affermazione contenuta in epigrafe, esemplificava aspettative e trasformazioni che in quel momento storico si delineavano in un mondo che aveva collocato la propria dimensione sociale in spazi e modi rigidamente correlati a statiche gerarchie e rapporti di servitù. La citazione di Max Weber introduceva ad un passaggio epocale nella storia dell’Occidente, che rivelava la dimensione moderna della libertà dell’individuo; d’ora in avanti, infatti, con l’affermazione progressiva della città, il padrone di uno schiavo, di un servo perdeva il diritto di pretenderlo quale soggetto del suo potere (Weber 1961).  

Molti secoli sono trascorsi da quel momento epocale, e la città ha assunto per l’Occidente una dimensione sempre più complessa: un prisma dalle mille facce, che produce nella post modernità inquietudini, rassicurazioni e percorsi di liberazione e di ascesa sociale, uniti ad angosce e spaesamenti, perdita di dignità e di moralità. La città della prima rivoluzione industriale diventa luogo dello smarrimento morale e della devianza negatrice dell’ordine tradizionale che trascinava con sé gli equilibri familiari, rendendo palesi patologie e oscure inquietudini.  I grandi autori del romanzo, tra la seconda metà dell’Ottocento e per gran parte del Novecento, dedicheranno pagine memorabili alle grandi città europee come Londra e Parigi, che diventano il teatro di queste miserie e grandezze (si pensi a Balzac, Stendhal e Dickens).

Questa interpretazione della città resterà una costante attraverso le reinterpretazioni che la letteratura popolare (e non solo) porterà avanti anche nel corso del Novecento e nell’attuale post modernità fino ai fumetti, alla cinematografia e alla fantascienza (a tal proposito, si consideri Gotham City dei film di Batman, che viene rappresentata in un recente passato, apparentemente più realistico, ma non meno inquietante, e alla città di Blade Runner (1982) di Ridley Scott). Forse la sintesi più esaustiva è quella di Lévi Strauss che annotava: «La città è cosa umana per eccellenza la forma più complessa e più raffinata della civiltà, anche se evidenzia come sia il luogo di un’individuazione estrema e di un ingarbugliarsi dei limiti sociali che porta in sé il rischio di un caos inafferrabile» (Lévi Strauss 2008: 107-8).

Da qui due temi su cui riflettere: il primo, sull’inafferrabilità della comprensione delle logiche urbane; il secondo, sulla legittimità del campo d’indagine da parte dell’antropologia culturale. Ed è da qui che muovono le riflessioni successive di questa prima parte del percorso.

41uhvmoolxl-_sx300_bo1204203200_Antropologia e città 

In molte analisi contemporanee delle diverse scienze sociali, la città appare nel ruolo di “snodo” di flussi di persone, immagini e tecnologie all’interno del mondo globale. L’impianto teorico di questi interessi dell’antropologia culturale non è certamente tra i più facili da definire: i contributi provenienti da altre discipline, proficuamente rivisitati, sono ineludibili per realizzare una etnografia urbana e per definire la stessa figura dell’antropologo della complessità. L’antropologo non studia solo l’esotico, l’altro, lo stravagante, ma affronta il mondo della contemporaneità nell’inestricabile relazione che la globalizzazione ha intessuto tra l’io e il tu, tra noi e gli altri, tra il qui e là. Dunque una antropologia che studia la complessità dei modi e degli incontri che continuamente si definiscono e ridefiniscono. Nello specifico, l’interesse dell’antropologia urbana si caratterizza per il fatto di studiare fenomeni connessi a forme di organizzazione dello spazio e delle relazioni socio-culturali tipiche della città. 

La città diventa per l’antropologia il luogo strategico per pensare la cultura in termini di organizzazione della diversità (Hannerz 1992). Affrontare lo studio della città significa sperimentare una etnografia urbana che si compone di singoli spartiti, talvolta apparentemente cacofonici, di una sinfonia che spesso è di una musica dodecafonica. In questo l’antropologia conserva il suo tratto di incursione sul campo, nello specifico tra le ricerche di micro-ambienti e situazioni socio-culturali, e quello della tentazione olistica, che tende a unificare tutti i tratti di una comunità /gruppo sociale in una visione globale. La complessità della città coniuga questa dialettica tra olismo e individualismo tra «il significato del luogo e la libertà del non-luogo, dissidio caratteristico dei mondi contemporanei» (Augé 1994:71).  Si realizza in tal modo una etnografia multilocale frutto dell’osservazione di una città policentrica, ovvero di indagini che si concentrano su esperienze quotidiane dislocate e transnazionali, capaci di studiare le forme culturali senza presupporre, logicamente o cronologicamente, né l’autorità dell’esperienza occidentale né i modelli derivati da quell’esperienza.

Un’antropologia della città che assume come punto di forza la consapevolezza della fluidità delle dinamiche e delle relazioni non per questo inconsistenti ma dettate da mutevoli dinamiche da intercettare e comprendere in una continua costruzione e decostruzione degli oggetti di ricerca a partire dal modo particolare, empirico, personale e relazionale di conoscere il “campo” secondo quanto l’antropologia interpretativa pratica da decenni. Emergono, inevitabilmente, antiche e nuove questioni metodologiche e temi di approccio teorico. Resta centrale allora un punto nell’antropologia delle società globalizzate e della relativa etnografia che ne deriva (come suggerisce Augé), ovvero la possibile mutevolezza dell’oggetto di ricerca e della sua definizione.

Individuare e osservare le pratiche culturali contemporanee implica rendere centrale il ruolo odierno della città nella ridefinizione dell’antropologia, in quella che può essere definita eterogeneità multiculturale e “multitemporale”. Questa modalità di osservazione contribuisce alla ridefinizione della città come una risorsa importante per ripensare le teorie e le modalità del contatto e della mescolanza etnica o culturale di cui le città costituiscono un teatro esemplare. L’antropologo dei mondi contemporanei privilegia, giustamente, un posizionamento dinamico del soggetto volto a cogliere le interconnessioni fra le realtà locali e la dimensione transnazionale dei processi relazionali fra le complesse entità culturali e sociali. “Glo-cale” vuole, dunque, dire prediligere “quel che succede qui”, che non è disgiunto da “quel che succede altrove”.

61d3a6nl8ylIl lavoro che segue in queste pagine si può definire, parafrasando Augé e Bourdieu, come un lungo, proficuo, «esercizio di riflessività» (Bourdieu 1992) applicato alle categorie dell’antropologia e al soggetto stesso che le pratica. L’immaginazione etnografica che ne è il risultato diventa linguaggio che rende possibili forme di vita e interpretazioni. In questa prospettiva, l’etnografia che ne deriva cerca di restituire e di seguire il ritmo libero delle improvvisazioni e dei piani d’azione che si presentano nella vita di un individuo (Montes 2015). Vivere, in quest’ottica, significa prodursi nell’alternanza di obiettivi che programmiamo e direzioni che prendiamo senza una preliminare preparazione, sull’orientamento del momento. Una ragione di più per parlare, quindi, in questo senso, di una vera e propria antropologia della vita. In questa necessità dialogica emerge quanto di vissuto e di autentico il campo sociale restituisce. Nelle varie fasi della ricerca e della produzione etnografica l’antropologo della contemporaneità è, al tempo stesso, “osservatore”, “informatore” “indigeno”. L’approccio ineludibile alla “transnazionalità” delle culture offre strumenti utili per interpretare le dinamiche di globalizzazione a livello mondiale e consente di creare un ponte dialogico nel discorso antropologico che attenua le antinomie noi/loro, vicino/lontano, dentro/fuori.

L’antropologo che studia la città oscilla, tra un sempre incombente “crushed glass” (implosione di significati e simbolo) e una necessaria “antropologie du proche” (interpretazione di ciò che è vicino a noi, del quotidiano) riprendendo le definizioni di Daniel (Daniel 1996) ed Augé (Augé 2012).  In sostanza, due, però, sembrano essere le strade per esplorare la città e i suoi vissuti in una indagine di costruzione/decostruzione urbana: «una è lo studio della città all’opera in alcuni processi sociali che si possono esaminare dall’interno, partendo dalla grande intimità delle case, delle vite familiari, delle relazioni sociali di strada o di quartiere, per arrivare a disegnare la trama della vita sociale che è della città. L’altra è lo studio di plasmazioni rituali di carattere politico e culturale, come si creano dei momenti d’identificazione comunitaria e proporre nuovi modi per interpretarli» (Di Nuzzo 2018:34).

ll fare e vivere la città è sia nella ritualità degli spazi liminari o di mezzo, sia nell’alternanza di coinvolgimento e distanziamento. Siamo sempre più in presenza di una megalopoli policentrica in cui campeggiano e proliferano i “non luoghi” che, paradossalmente, aggregano gruppi, danno vita a rituali e pratiche sociali, che si addensano improvvisamente cosi come si dissolvono rapidamente, implementate dall’uso della comunicazione mediatica e del web. Tutto questo porta l’antropologo a riconsiderare i suoi concetti e i suoi metodi, attivando una continua antropologia riflessiva e, data l’inarrestabile proliferazione delle città a livello planetario, è ineludibile per l’antropologia culturale studiarne le vicende, le trasformazioni utilizzando i saperi urbani per “complessificare” le sue teorie sull’uomo e la società.  

9788843016259-2Breve storia degli studi

Alle radici di un’antropologia delle società complesse c’è indubbiamente la crisi della città americana agli inizi del 900, la rapida trasformazione del mondo coloniale, la scoperta di quel miliardo di uomini che l’etnologia dimenticava, di cui parlava Leroi -Gourhan. É da queste radici secondo quanto sostiene Sobrero (Sobrero, 1992), che possiamo far risalire l’antropologia delle società complesse negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia e, solo dopo qualche anno, in Italia. Nello specifico è proprio in Italia che l’antropologia della complessità tende ad essere innovativa rispetto alle consolidate categorie marxiste dello studio della cultura e della mentalità subalterna in ambiente urbano. Dagli anni ‘50 fino agli anni ‘80 del Novecento,  gli studi italiani sono caratterizzati da un certo interesse  ruralcentrico, che apriva alla deriva di processi di de-culturazione delle classi subalterne, guardando la città dal punto di vista contadino come ultimo stadio di un processo di ruralizzazione, spesso, identificato come perdita di quell’universo folklorico, caratterizzante classi non ancora entrate nella storia della modernità e, dunque, luogo di spaesamento e di perdita delle radici, soprattutto per i processi di immigrazione dal sud verso i grandi centri industriali del nord (Pasolini, Gramsci). Bisognerà attendere la seconda metà degli anni Ottanta per avvertire chiari sintomi di cambiamento; infatti, solo nel maggio 1987 Tullio Tentori organizza il primo convegno nazionale di “Antropologia delle società complesse”.

Resta da precisare, in queste sintetiche riflessioni teoriche, quanto sia difficile, nell’antropologia urbana, collocare uno studioso in questo o in quell’indirizzo, parlare di scuole o di prospettive teoriche generali; al massimo si possono individuare prospettive di metodo, tendenze, ipotesi di lavoro: «come accade in molti nuovi settori di ricerca, essi sono a-teorici costituiti da un linguaggio speciale e da una serie di problematiche ma per un supporto teorico bisogna rivolgersi altrove» (Goode 1989:79).  Per molteplici ragioni storiche ed economiche, la città per gli americani ha caratteristiche opposte a quelle europee. Gli americani si sentono più di ogni altra cosa “costruttori di città”, e tra le due guerre mondiali la differenza tra le capitali europee e le città americane si fa più profonda. Il continente europeo, anche a voler guardare alla produzione letteraria del romanzo, continua a delineare un’immagine della città come mostro malvagio e fonte di ogni disagio esistenziale.

Lo sviluppo delle città è, tuttavia, legato ad un’industrializzazione e ad un urbanesimo in cui erano e sono sedimentati elementi ambientali già da molti secoli umanizzati e in cui era presente, con le evidenti differenze, l’elemento città. In Italia il discorso si complica: Paese dalle mille città che, nella quasi totalità, conservano nell’impianto urbanistico segni di vita plurimillenaria e la radicata distinzione tra città e campagna, con la convinzione della superiorità della prima sulla seconda (Meldolesi 2012). Allora si conferma per l’antropologo la necessità di coniugare più chiavi interpretative e di raccogliere elementi utili per un uso non dogmatico delle stesse categorie interpretative operando su se stesso e sulla cultura di cui fa parte un esercizio proficuamente riflessivo. Lo sguardo antropologico sulla città consiste nella capacità di definire le interdipendenze tra collocazione spaziale di un gruppo e costruzione della sua identità in termini culturali, vale a dire in termini di percezione che il gruppo ha di se stesso all’interno di una generale visione del mondo e di prospettiva del futuro (Hannerz 1992).

Il percorso intrapreso nella mia esperienza sul campo richiama, inevitabilmente, le indicazioni interpretative della corrente geertziana e non solo: dopo le ineludibili e storiche scuole di Chicago e Manchester, è stato individuato da un lato l’approccio interazionale e dall’altro la network analysis. Resta da considerare, poi, una ulteriore prospettiva che si può definire del “the ghetto approach”, in cui l’oggetto di studio non è la città, bensì i gruppi sociali nella città. Le definizioni e i campi di interesse si complicano distinguendo tra antropologia delle città, antropologia delle società complesse e antropologia nelle città. Nel primo caso, la città è un’entità globale complessa, studiata attraverso collegamenti orizzontali e verticali relazionali, cercando di ripercorrere quella rete che continua ad essere la metafora più efficace per definire la complessità. Quella complessità che invece, nel secondo caso, è vista come ulteriore sviluppo dell’organizzazione capitalistica e post capitalistica: la città come “unità di consumo collettivo”, come spazio di consumo di una parte dei beni prodotti.

Più fedele alla tradizione etnografica dello studio di culture chiuse, la visione della città nel terzo caso, ma esiste, tuttavia, una comune consapevolezza di approccio che conduce all’antropologia interpretativa, e che accoglie in sé gran parte di questi spunti metodologici, proponendo un singolare sincretismo operativo. Le contraddizioni arricchiscono, dunque, la riflessione e la stessa operatività, nelle infinite possibilità offerte sembrerebbe perdere la specificità da cui siamo partiti. Che cosa significa per l’antropologo la città? Esiste uno spazio definitorio trasversalmente condivisibile?

Esiste, indubbiamente, una definizione fisica dello spazio, un dato urbanistico, edilizio. Un particolare sistema sociale occupa uno spazio e le città sono spesso connotate dalle funzioni che assolvono: vi sarebbero città industriali, città mercato, città universitarie ecc. Tuttavia, la nuova edilizia urbana, che tende ad annullare qualsiasi connotazione specifica in un processo di omogeneizzazione ed omologazione assoluta, e la molteplicità di funzioni che, di fatto, ogni città svolge, sembrerebbero annullare, come dato oggettivo di partenza, lo spazio urbano, se non collegandolo ad altre osservazioni (Baudrillard e Nouvel 2003). Allora gli spazi urbani diventano sempre più “luoghi di interpretazione”, non più luoghi fisici, ma percorsi mentali. Se l’antropologia ha da sempre privilegiato, come unità di studio, un elemento semplice, chiaramente distinguibile ed analizzabile, allora l’antropologia urbana sembrerebbe la contraddizione più articolata di questo assunto: la complessità dei ruoli interpretati in una società moderna o post moderna, e l’accelerazione spazio-temporale continua, non permetterebbero all’antropologo una corretta osservazione.

Altri studiosi, di altre scienze umane, sembrerebbero a molti i più idonei a queste osservazioni. Tuttavia, proprio la molteplicità di ruoli e funzioni all’interno della vita delle città, contribuisce a definire una condizione culturale densa e stratificata, piena di una cerimonialità diffusa, difficile da interpretare, sfuggente fino all’effimero sempre più di competenza interpretativa di un antropologo. La città è il luogo di produzione dei discorsi sul presente, ed assume sempre di più lo spessore sia della relazione mediata di reti virtuali, sia del codice di relazioni all’interno di un “ghetto” metropolitano. Le Nazioni Unite avvertono che le città sono esposte a disuguaglianze sociali, economiche e territoriali sempre più ampie. Disuguaglianze crescenti e esclusione possono poi declinarsi in comunità esclusive e gated communities, quartieri fatiscenti e alti tassi di disoccupazione giovanile che possono infine risultare insostenibili.

Non da ultimo, fra le conseguenze disastrose di quella che potrebbe sembrare una visione distopica, ma che è già tristemente realtà in molti quartieri nel mondo, c’è l’aumento della violenza, fino a situazioni estreme di “guerriglia urbana”. Oggi più che mai le città sono plasmate da influenze provenienti da tutto il mondo; il crescente uso dei social media da parte dei giovani, inclusi i membri delle gang, lo scambio di quella che potrebbe essere definita una cultura popolare “urbana”, e lo spostamento fisico, tanto di giovani quanto di attori criminali, sono tutti fattori che portano alla conclusione che nessuna area urbana può essere oggi completamente compresa se osservata singolarmente. 

71vcw5gg1rlL’antropologia interpretativa offre la possibilità di una continua lettura di ciò che accade come risultato di aspetti soggettivi e oggettivi che dinamicamente si rimodellano. In tal senso la ricerca sul campo continua ad avere un suo insostituibile valore; in particolare, assume ulteriore rilevanza quando si coniuga alla possibilità di operare un’osservazione di antropologia longitudinale (Dolby-Dimitriadis 2004; Willis 1977), che continua a prendere in esame attraverso il tempo gli stessi “protagonisti” della ricerca. Utilizzando le definizioni di home, area, e mental maps (Nolan 1987) si è condotti alla scoperta che l’alterità passa attraverso lo spazio urbano e l’economia dominante, ma c’è anche dell’altro, che mette in gioco la relazione stessa dell’antropologo con la propria cultura e con la perdita apparente di certezze. L’Etnografia dei margini diventa una strada per definire, escludere, includere. Da qui l’interesse di un frammento della complessità della vita urbana che coniughi un paradosso antropologico: l’interesse per il particolare, con la tentazione olistica che è sempre presente nelle indagini antropologiche e, dunque, l’analisi di uno specifico fenomeno noto come baby gang.

Gang, baby gang, gruppi di strada, culture urbane

I motivi di una ricerca sulla scorta delle riflessioni fin qui definite, aprono ad una riflessione attenta, in chiave antropologica, su come viene vissuta e interpretata oggi la città, in particolare per le giovani generazioni e per le sub culture di cui sono protagoniste, siano esse legate all’età che alle stratificazioni culturali ed etniche. Il fenomeno delle aggregazioni giovanili, definite in una semplificazione generica gang, ci porta a chiarire la nascita del fenomeno e le possibili definizioni: «La genealogia della gang è quasi coeva alla storia delle grandi città; nonostante l’attuale identificazione delle gang di strada con i semi malefici del terrorismo e del crimine organizzato, esse sono state anche alla base delle macchine politiche urbane dalla antica Roma  repubblicana fino alla Chicago proibizionista….Le gang, in altre parole sono tanto antiche come i colli romani, e tanto americane quanto lo spoil system» (Hagedorn 2008: 9). 

51p6bstmjlC’è da chiedersi, allora, se non sia la città a rendere violenti e insoddisfatti. I dati quantitativi e le notizie mediatiche sembrerebbero confermare questa ipotesi che può, però, subito apparire semplicistica, riduttiva e troppo liquidatoria. È necessaria, per orientarsi ed avere attendibili strumenti interpretativi, una breve ricostruzione della letteratura scientifica che si è occupata di gang, partendo dai lavori pioneristici della Scuola di Chicago, passando per gli studi della Scuola di Birmingham, fino ai nuovi orientamenti che si pongono a enorme distanza dalle posizioni criminologiche e di garanzia di sicurezza. Il legame con gli studi di criminologia e le politiche della sicurezza è ineludibile. Come fa notare Basile, scrivendo di bande giovanili «è impossibile ignorare il valore che da sempre hanno assunto le politiche repressive a senso unico sia negli Stati Uniti che a livello internazionale. Ad esempio, la legge del 2007 denominata “U.S. Gang Deterrence and Community Protection” ha ottenuto nel congresso americano un consenso bipartisan. Questa normativa rende reati federali molti crimini comuni in qualche modo riconducibili alle gang, applicando un minimo obbligatorio di pena di cinque anni per uno qualsiasi dei reati elencati e la pena di morte per ogni omicidio» (Basile 2014: online).

Il permanere su certe posizioni teoriche mainstream, per motivazioni preminentemente di sicurezza, produce nelle politiche degli Stati (ispirate dal modello statunitense) ciò che André Standing (Standing 2006) chiama parasitic model: le gang sarebbero distinte e isolabili entità, aventi come principale scopo la perpetrazione di crimini che infettano l’economia, minano la sicurezza e la democrazia, tanto da essere paragonate ad un “tumore”, la cui sola rimozione guarirebbe un corpo sociale (considerato) altrimenti sano. Per eliminare questa patologia sociale sarebbe quindi necessario applicare sentenze più severe, criminalizzando associazioni “ambigue”, rendendole fuori legge e attaccando le attività economiche delle bande, prevedendo tribunali e corpi di polizia speciali. Del resto, ritornando ai primi studi pioneristici del Novecento, sembrava questo il dato di individuazione: una devianza o patologia sociale che infettava la città.

Sono i ricercatori della Scuola di Chicago negli anni ‘20 e ‘30 che, seguendo la teoria della “disorganizzazione sociale”, danno il via ad un importante rinnovamento accademico degli studi sulla città, inaugurando un nuovo campo di ricerca che sarà poi di competenza dell’antropologia urbana. Risultano meritevoli di attenzione scientifica temi “nuovi”, come la marginalità sociale, la delinquenza giovanile e la prostituzione, che diventano gli oggetti di studio dell’emergente “scuola ecologica”, impegnata ad analizzare le forme di comportamento e socializzazione nell’ambito di un nuovo ecosistema urbano. Chicago diviene un immenso “laboratorio”, attraversato da decine di ricercatori con lo scopo di raccogliere il maggior numero possibile di dati sulla composizione sociale della città, sulle forme di interazione, sulla connessione di gruppi, dei loro modelli di vita e la loro distribuzione sul territorio; anche i metodi di ricerca sono innovativi per l’epoca, basandosi su osservazione e interviste qualitative.

Nei primi anni del Novecento il fenomeno delle gang aveva assunto nelle città americane e in particolare a Chicago un rilievo enorme, tanto che Thrasher (ricercatore della scuola di Chicago) pubblica The Gang: A Study of 1,313 Gangs in Chicago, il suo primo studio nel 1927, dopo sette anni di ricerca sul campo, descrivendo minuziosamente la struttura e l’organizzazione di oltre 1300 bande di strada. Se tale numero appare oggi spropositato, bisogna contestualizzarlo alla specificità di una città, alle sue caratteristiche urbanistiche, alla sua peculiare dimensione storica e sociale, alla collocazione dei quartieri e al concetto allora assai estensivo di banda. In particolare, le descrizioni delle classi sociali che, di volta in volta, vivevano nei diversi quartieri, offrivano le dinamiche di una geografia urbana che mutava continuamente, a partire dai cambiamenti socio-economici di chi vi abitava,  ovvero man mano che talune comunità si apprestavano ad accumulare ricchezze, tentavano di “materializzare” la loro mobilità sociale trasferendosi nei quartieri ricchi, mentre per gli ultimi arrivati occupavano gli slums, quartieri-dormitorio, denotati dalle peggiori condizioni abitative e igienico-sanitarie.

9780226799308Queste continue fluttuazioni finirono col radicare ulteriormente il concetto di “disorganizzazione sociale”, intesa come incapacità dei residenti, suddivisi in gruppi eterogenei, di convivere, associarsi e cooperare; da qui la produzione di un ambiente in cui l’assenza di forti legami formali e informali era il principale ostacolo alla genesi di un sistema di valori comuni e, dunque, matrice di devianza e criminalità. Sulla scorta di questi elementi di analisi, Thrasher elabora la prima storica definizione di gang: «un gruppo interstiziale originariamente formatosi spontaneamente, e quindi integratosi attraverso il conflitto come elemento condiviso di aggregazione. Il comportamento dunque di questi gruppi è caratterizzato da alcune modalità ricorrenti: rapporti faccia a faccia, risse, movimento attraverso lo spazio come unità coesa, conflitto e progettazione di azioni specifiche. Il risultato di questo comportamento collettivo è lo sviluppo di una appartenenza che si sedimenta come “tradizione”, una struttura interna non derivata da riflessione, l’esprit de corps, la solidarietà, la coscienza di gruppo e l’attaccamento a un territorio localizzato» (Thrasher 2013:46).

Già in questa prima formulazione, si definiscono alcuni comportamenti che saranno poi costanti; vengono introdotti alcuni elementi che saranno costantemente riproposti anche nelle successive e attuali ricerche sulle gang: una strutturata organizzazione interna, l’utilizzo sistematico della violenza connotata da mascolinità egemonica, la ricerca di un controllo territoriale e culturale da difendere come segno di identità, la capacità di progettare attività di vario genere.  Ma, allo stesso tempo, c’è  da sottolineare che si fanno strada altre riflessioni ed elementi di analisi che hanno suscitato successivamente grande interesse e che sono stati recuperati solo di recente, in prospettiva anti-securitaria, quali: la solidarietà, lo spirito partecipativo e affiliativo, considerati come necessari per  colmare mancanze e dare vita a  legami sociali e affettivi che la struttura della società, evidentemente, non garantisce, e che rende oggi il fenomeno, come vedremo, non più solo legato a marginalità sociale, ma si inscrive in complesse correlazioni e singolari riti di passaggio.

Tuttavia, è importante sottolineare secondo l’ipotesi di Thrasher che i membri delle gang possono sviluppare differenti forme di organizzazione e stabilire, al riparo dal controllo sociale egemone, regole, ruoli, percorsi di vita autonomi. Diventa, così, impossibile riferirsi ad un modello tipo di organizzazione prevalente; la differenziazione è, infatti, il fulcro del suo ragionamento su cui converge anche la mia analisi. Altri elementi della sua riflessione sono ancora condivisibili rispetto alla componente delinquenziale, all’uso della violenza e alla presenza della componente di genere e di etnia. Un elemento decisamente importante che Thrasher chiarisce e che offre un altro punto di vista nella logica delle costituzioni delle gang è che “banda” non implica essere necessariamente criminale, seppure si tratti sempre di gruppi connotati da condotte “devianti”, in quanto, il maggior numero di esse, si pone semplici finalità ricreative.

Secondo Thrasher, una gang, nel suo stato embrionale, non è altro che un gruppo ludico e informale di preadolescenti dello stesso vicinato, con la volontà a sviluppare progressivamente una struttura interna e delle tradizioni comuni, spesso in aperto contrasto con l’ambiente adulto circostante. Per quanto riguarda l’età, i componenti del 35% delle gang da lui censite hanno tra gli undici e i diciassette anni. L’utilizzo delle violenze ha a che fare con la necessità di controllare il territorio, al conseguimento del rispetto e dell’onore, sanciti da specifici codici etici, mentre lo Stato e le pubbliche istituzioni sono i “naturali” antagonisti di ciascuna banda. La maggior parte delle gang descritte sono organizzate in maniera verticistica, e guidate da capi chiaramente riconoscibili. Altre gang sono, però, strutturate con una leadership molto diffusa. Infine, la componente etnica sembrerebbe legata alla definizione spaziale dei quartieri, che delimita l’appartenenza di un gruppo, e che si connota etnicamente in quanto il quartiere è abitato da una particolare etnia e, dunque, sarebbe una naturale conseguenza anziché una specifica scelta.

In altre città e contesti, come vedremo, la componente etnica non è così rilevante; il leader della gang in genere è scelto per le doti violente, ma anche per la capacità di amministrare e gestire i conflitti della strada. Non tutte le gang, malgrado la maggior parte lo fossero, erano organizzate in maniera verticistica e guidate da leader riconoscibili: diverse si caratterizzavano per la loro orizzontalità, tanto che Thrasher allude più volte a «forme primordiali di democrazia». Ciò non significa che fossero capaci di emanciparsi del tutto dal controllo sociale largamente inteso: parecchi elementi della società dominante si riflettevano all’interno delle loro vite da adulti e nei costumi delle particolari comunità in cui si trovavano. Tutto questo diventa più evidente relativamente alle tematiche di genere, poiché l’atteggiamento prevalente era decisamente maschilista.

La gang riproduce l’ideologia patriarcale che permea la società in generale, e raramente le donne possono vantare un ruolo nelle bande, se non per assolvere a compiti ben precisi di servitù o prestazioni sessuali. C’è tuttavia da sottolineare come particolarmente nel lavoro di Thrasher è già presente una connotazione di genere tanto da segnalare l’esistenza di un piccolo numero di gang formate da sole donne, dedite a rapine o a sole finalità ricreative. La presenza di una donna in una banda ‘mista’ è dovuta al suo essere “maschiaccio”, tomboy, ed è nelle zone più periferiche della città che le differenze di genere all’interno delle bande si fanno meno marcate, anche se, paradossalmente, viene messa in rilievo la misoginia. Quando una donna veniva ammessa all’interno di una gang era perché era l’amante del leader. Raramente le donne erano ricoprivano un qualche ruolo nell’organizzazione, salvo casi di un impiego utilitaristico legato comunque alla sessualità.

Questi dati confermano l’esistenza di una misoginia radicata e strisciante all’interno di quelle forme di aggregazione sociale, specchio dell’intera società. Per i più giovani, in quelle organizzazioni, ad esempio, l’argomento “donne” è un tabù. Soprattutto fra i giovanissimi vi era un consenso ad evitare la presenza di ragazze in gruppo e nel gruppo. Così, alcuni dei ragazzi che furono intervistati, proponevano argomenti di questo tenore: “sono troppo giovani” … “a loro non piace ciò che si fa qui” … “non ci sono ragazze nei paraggi” … “fanno solo spendere soldi e mettere nei casini”. Altri, più semplicemente, le bollavano come incapaci. In quelle interviste sul campo emergeva in particolare una gang di origini italiane e venivano fuori queste risposte alle domande sul rapporto con il femminile: « – ti piacciono le giovani ragazze, Tony?  No! Non mi sono mai piaciute. Non voglio scimmie intorno con ragazze. Mi danno solo problemi. Io uccido le ragazze». Ma poiché aveva parecchie sorelle, veniva chiesto a Tony se odiasse anche loro: «Perché dovrei odiare le mie sorelle? Non mi danno alcun problema, sono le mie sorelle» (Thrasher 2013:326, trad. mia). Erano, dunque, accettate solo in quanto sorelle, mentre era fermo il disprezzo per tutte quelle che potessero sfuggire al suo controllo. Ancora una volta, la conferma di un patriarcato familiare.  L’esistenza di un piccolo numero di gang formate da sole donne, è documentato in quanto dedito in particolare alla rapina, a finalità ricreative, o come appassionate di baseball.

81lxty4arblNella letteratura successiva come nel caso degli studi di Whyte (2011) vengono evidenziate altre caratteristiche: i membri del gruppo che si definisce gang hanno dei soprannomi distintivi; il prestigio del leader non si basa esclusivamente sulla forza, ma sulla capacità di tenere il gruppo unito amministrando i toni affettivi dell’amicizia, della lealtà e le routine quotidiane.  Anche Whyte è convinto che la connotazione dell’appartenenza ad una gang non sia affatto delinquenziale, al di là dell’occasionale partecipazione di qualcuno dei suoi membri ad attività “illecite”, tanto da criticare l’agire miope di certi operatori sociali, che condannano quelli che vengono definiti i corner boys a giudizi di valore, basati sulla devianza da un “normale” socialmente riconosciuto. Whyte vede, inoltre, nelle piccole bande metropolitane, a cui si associano spesso le seconde generazioni di immigrati, una reazione all’esclusione sociale, una strategia che offre l’opportunità di costruire sia un senso di appartenenza, sia un repertorio di attività organizzate, e di fornire mezzi per affrontare psicologicamente l’emarginazione (Colombo 1998). Whyte è uno dei primi studiosi a comprendere i motivi del coinvolgimento degli immigrati in quei mondi morali etichettati come “devianti”, non solo come una risposta organizzata e collettiva alle diseguaglianze ma, anche, come un modo alternativo di accedere alle risorse della società industriale.

Sembra sempre più evidente come alcuni degli elementi interpretativi della Scuola di Chicago siano ancora condivisibili e come siano, ancora oggi, al centro del dibattito sulle gang: territorialità, violenza, mascolinità egemonica, condizioni materiali di marginalità sociale dei giovani coinvolti. Il fattore metodologico importante è che il metodo di ricerca “ecologico”, si focalizza su “aggregati” più che su singole persone, ed è coadiuvato da un tentativo di etnografia urbana, anche per mezzo della raccolta di storie di vita (Williams, McShane 2002). In questo breve excursus ho fatto riferimento alla letteratura “classica” sul nesso tra bande giovanili e devianza sia partendo dalle teorie ecologiche della Scuola di Chicago, che si sviluppa attraverso la celebre teoria dell’etichettamento, ma anche prendendo in considerazione una seconda tradizione che fa riferimento alla teorizzazione durkheimiana dell’“anomia”:  in Du la division du travail social (1893) Durkeim associa il termine “anomia” alla mancanza di norme all’interno di un contesto sociale, in riferimento al fatto che, quando le regole procedurali rivolte al comportamento da seguire nei rapporti con gli altri, si svuotano di efficacia e di significato, le persone non sanno più cosa aspettarsi l’una dall’altra. In seguito, usò il lemma in riferimento alla condizione moralmente deregolata, per cui le persone hanno un limitato controllo sul proprio comportamento; da questo punto di vista, il comportamento delle gang sarebbe il segnale chiaro di una società anomica e in crisi.

9780415610162-itSuccessivamente, Merton (1949) mette in stretta relazione l’anomia con il concetto di devianza; secondo la sua analisi, si creano le condizioni per l’anomia quando alcune aspirazioni e alcuni obiettivi sono particolarmente esaltati in una società, tanto da mettere in second’ordine i mezzi per raggiungerla. In questo modo, la devianza appare come il risultato di una frattura nel modello organizzativo della società, e in particolare fra gli ideali di successo culturalmente dominanti e le possibilità concrete di raggiungerli a disposizione di tutti. Anche il noto lavoro di Albert Cohen, Delinquent Boys: The Culture of the Gang del 1955 viene generalmente associato all’ambito degli studi teorici sull’anomia, nonostante l’autore non faccia alcun riferimento a Durkheim o a Merton. Secondo Cohen, la delinquenza si può “imporre” su qualunque individuo se le circostanze sono tali da favorire un’intima connessione con “modelli delinquenti” (Cohen 1974). Secondo questa ipotesi, tutti i giovani vanno alla ricerca di uno status sociale elevato, pur non avendo tutti le stesse opportunità di raggiungerlo, specie i figli delle classi subalterne, privi di vantaggi materiali e simbolici.

Dalla frustrazione per lo status irraggiungibile scaturiscono vari tipi di adattamento ai valori delle classi medie: possono emergere nuove norme e criteri che legittimano certi comportamenti, che portano alla creazione di una nuova forma culturale, appunto, ad una “sottocultura delinquenziale”. Per Cohen «le tensioni prodotte dalla disgregazione sociale creano un disagio comune a molti giovani dei ceti subalterni. In queste circostanze se diventano delinquenti dipende molto dal modo in cui interagiscono coi membri della subcultura delinquenziale, e se finiscono con il considerare i componenti delle bande come “altri significativi” e se identificano la soluzione dei loro problemi con la subcultura delinquenziale» (Cimino 2006: online). Il suo lavoro viene generalmente inserito nell’ambito degli studi teorici sull’anomia e la frustrazione strutturale, ma, per quanto questa prospettiva possa essere corretta, in Delinquent Boys, non vi è in realtà alcun riferimento alle teorie di Merton e Durkheim. A fondamento della sua teoria sulle sottoculture delinquenti, Cohen ipotizza che «la delinquenza non è espressione o esplicazione di un determinato tipo di personalità: si può imporre su qualsiasi tipo di individuo se le circostanze favoriscono un’intima associazione con modelli delinquenti» (Cohen 1974: 8, trad. mia).

Una sottocultura, secondo Cohen, rappresenta un fenomeno culturale, poiché la partecipazione di ogni soggetto a questo sistema di norme sociali è influenzata dalla sua percezione delle stesse norme in altri membri; sottoculturale, inoltre, poiché le stesse norme sociali sono condivise solo da chi, in qualche modo, ritiene di poter trarne un beneficio, generando così un clima favorevole alla loro riproduzione. Ma si tratta di un beneficio non di natura economica o in qualche senso materiale: l’essenza di una sottocultura è costituita dall’edonismo immediato, in contrapposizione alla ricerca di progetti o attività a lunga scadenza che destano poco interesse, poiché richiedono cognizioni e capacità specifiche acquisibili solo con lo studio. Una componente importante di questa forma di autostima e benessere è il rifiuto all’obbedienza verso ogni autorità, escluse ovviamente le pressioni che si esercitano all’interno del gruppo stesso, dove le relazioni tendono ad imporsi con violenza, ma «con una spiccata solidarietà» (Cohen 1974). 

teoria-delle-bande-delinquenti-in-america-clowardNei decenni successivi in particolare negli anni Sessanta, Cloward e Ohlin mitigano la posizione di Cohen, affermando che può manifestarsi più di un modo attraverso il quale i giovani (tutti, quelli appartenenti ai ceti subalterni e non) possono realizzare le loro aspirazioni. L’adattamento sarebbe proteso, invece che a quegli scenari di successo coincidenti con il vertice della piramide sociale in termini di ricchezza, anche verso un orizzonte più prossimo, e avvertito come più raggiungibile, in termini di lavoro e di migliori condizioni materiali dell’esistenza. Non si avrebbe, quindi, una frattura tra fini e mezzi, quanto piuttosto tra scopi (Basile 2014). Secondo i ricercatori, non è certo che un abitante di un quartiere povero, pur se ricco di relazioni sociali, possa fare a meno, pur raggiungere il successo, di abbandonare il proprio ambiente e le proprie relazioni per tentare il salto nel mondo ignoto della classe media (Cloward, Ohlin 1968). Resta da considerare che, alla teoria delle sottoculture, si contrappone un approccio alla devianza, basato sul concetto di controllo sociale. 

Il maggiore rappresentante di questa posizione è David Matza (1964) secondo il quale «la definizione sociale della devianza discende dal conflitto fra il senso attribuito all’atto deviante dai devianti stessi e il senso dato allo stesso atto dagli altri soggetti» (Bettin Lattes, Raffini 2011: 253). Studiando i “giovani delinquenti”, Matza «vede nel deviante un individuo che partecipa al sistema dei valori legittimi e si pone il problema di spiegare perché il deviante è tale, pur conoscendo e condividendo le regole di comportamento degli altri membri della società» (Bettin Lattes, Raffini 2011: 253). Il deviante può, infatti, elaborare delle giustificazioni della propria azione, adducendo motivazioni che legittimano, dal suo punto di vista, la sospensione di una norma morale o legale, e che gli consentono di sentirsi autorizzato a trasgredire.

Secondo questa interpretazione Matza mette in discussione il concetto stesso di devianza, al di là del rapporto esistente fra crimine e autorità costituita.  Se lo Stato moderno assolve a una funzione specializzata, esclusiva e protetta di produzione delle leggi, le quali definiscono quali attività e quali persone sono criminali, lo scopo principale del contesto sociale non è semplicemente scoraggiare i trasgressori, sottoponendoli a stigma e punizione, ma anche quello di trattenere tutti gli altri da atteggiamenti devianti, tracciando una linea pubblicamente riconoscibile tra bene e male; il colpevole «va così a collocarsi dalla parte del male – legalmente e culturalmente costruito – risultandone in quanto tale demonizzato. Con lo stigma, il soggetto è reso consapevole della sua condizione di deviante e viene costretto alla scelta dell’abbandono di un certo comportamento oppure al consolidamento della sua posizione antagonista» (Basile 2014: online).

Per quanto possa essere efficace, imponente e minaccioso l’apparato statale, è valido il principio generale secondo cui è il soggetto che media il processo del proprio divenire: si diventa “deviante” quando nel soggetto diminuisce la capacità di mediare il proprio divenire.  Si instaura così quella che Matza definisce la “teoria della deriva” (Matza 1964). Questa teoria parte dal presupposto secondo il quale la delinquenza (giovanile in particolare) è connaturata da una serie di valori riassumibili in: voglia di sballo, disprezzo per il lavoro, desiderio del grande colpo, approvazione di forme di aggressività come prova di virilità. Tali valori appartengono, paradossalmente, alle attività compiute dalla società dominante nel tempo libero, ossia “valori connaturati” ai membri della società, soprattutto in giovane età, che fanno spesso utilizzo dei valori delinquenziali per andare “in cerca di emozioni”. Solo che vi si dedicano in maniera più moderata e questa è l’unica differenza con la classe delinquenziale.

La Scuola di Birmingham sposta l’attenzione dei ricercatori sociali verso un’analisi del capitale simbolico e ribelle in seno alla gioventù; in tal modo, lo studio delle bande giovanili si emancipa dalle tematiche legate alla devianza. Si rende necessario esaminare i modi in cui si esprimono soggettività completamente nuove, attraverso la costruzione di un’immagine comune di gusti e stili (Bugli 2010). La “resistenza rituale” diventa il paradigma attorno al quale cercare di spiegare alcuni comportamenti e tendenze che emergono prepotentemente, per esempio, nella gioventù della classe operaia inglese. Per approcciarsi alle pratiche e ai linguaggi delle nuove sottoculture adolescenti, il concetto di devianza perde di significato e gli autori della scuola attingono al concetto gramsciano di egemonia, che diviene di fondamentale importanza.

51iqgxltizl-_ac_uf10001000_ql80_Le sottoculture sono considerate rituali competitivi “rappresentati” dagli adolescenti “nel teatro dell’egemonia”, atti a minare il mito del consenso; le loro origini sono legate a periodi storici in cui una crisi di consenso diventa tangibile e visibile. Come in un palcoscenico teatrale, il conflitto si manifesta a livello immaginario, sebbene rifletta vere contraddizioni (Hall e Jefferson 1993, Macciocchi 1974). Diverse “bande spettacolari” che popolano molte delle grandi città inglesi vengono allora “esplorate”. Sono gli anni degli skinhead, ad esempio, che se affermavano senza dubbio i valori che appartenevano alla classe operaia tradizionale (Hebdige 1990), costruivano contemporaneamente un linguaggio simbolico “spettacolare” che rompeva con la cultura tradizionale dei loro genitori e dava corpo ad un’entità subculturale in risposta ai problemi sociali.

Il punk, d’altra parte, era «una sintesi innaturale che conteneva i riflessi distorti di tutte le più importanti sottoculture del dopoguerra» (Hebdige 1990:13). Il suo capitale simbolico, che pretendeva di essere una forma di indipendenza e insubordinazione, era un’esplosione di creste e anfibi, giacche di pelle e jeans strappati, cinture ornamentali, spille e adesivi, ornamenti che suscitavano clamore, curiosità e fascino. Lo studio di Stanley Cohen (1972) su alcune bande, come skinhead e mods dell’East End di Londra, rinviene nei comportamenti degli attori sociali un’opposizione simbolica a quei cambiamenti storici e strutturali che investivano in quegli anni i giovani lavoratori londinesi delle classi subalterne. Anche in questo caso, lo studio del fenomeno della banda è strettamente legato alle trasformazioni economiche e sociali che lo circondano. La forza lavoro operaia in quei primi anni Settanta, dequalificata e frustrata economicamente rispetto al passato, vive un profondo declino. Per reagire a tale frustrazione strutturale, i giovani non si scagliano contro la cultura dominante, per invertire (o riappropriarsi di) valori dominanti, al fine di raggiungere mete ritenute inaccessibili; i giovani scelgono, al contrario, di dissociarsi e di dirottare le proprie aspirazioni al di fuori del lavoro, nell’ambito dello svago e del tempo libero (Cohen 1972).

Anche la Scuola di Birmingham ha il merito di avvicinare il tema delle bande giovanili ad una cornice interpretativa meno rigida rispetto a quella basata sul ‘tradizionale’ concetto di devianza degli autori statunitensi: «Indicare il nucleo aggregativo principale dei gruppi nella creazione di sottoculture (non necessariamente delinquenziali), nell’elaborazione collettiva di un gusto e di uno stile nell’ambito di un’estetica resistente, piuttosto che nella criminalità o nel capovolgimento di un insieme di valori della cultura dominante, permette di studiare il fenomeno delle bande a partire da una concezione più libertaria e meno stereotipante delle stesse» (Basile 2014). La prospettiva della Scuola offre la possibilità di collocare l’esperienza di gruppi e bande giovanili urbane già nei termini di una dialettica opposizione-resistenza; inoltre, per la prima volta, è la musica ad essere descritta come il più importante elemento culturale di appartenenza giovanile. È proprio grazie alla musica che si tagliano definitivamente i ponti con la cultura dominante, l’austera e rigida società inglese del tempo.

51xqtvpeywlSeppure, dunque, da punti di vista diversi questo breve excursus storico pone l’accento in massima parte sul punto di partenza ineludibile della marginalità giovanile, che in alcuni contesti si esprime anche nella formazione di bande adolescenti urbane, altrimenti dette gang. Ma la complessità del presente introduce altri elementi di riflessione Non è un caso che un interessante e recente progetto, dichiaratamente comparativo, sia nato proprio attorno al fenomeno delle bande giovanili: mi riferisco al lavoro curato da Jennifer M. Hazen e Dennis Rodgers (2014), dal titolo Global Gangs. Street Violence across the World. Gli autori evidenziano come la stessa polisemicità del termine gang, nonché l’ampia gamma di forme sociali a cui è associata e, dunque, la natura mutevole delle gang in quanto organizzazioni sociali, richiedano urgentemente di ripensare il fenomeno in termini relativi e comparativi. Una prospettiva comparativa permette di approcciare lo studio delle bande evitando tipologie rigide, “ghetti disciplinari” e valutazioni statiche, che pregiudicano la capacità di analizzare la processualità del fenomeno in sé. La mia attività di ricerca in contesto italiano vuole, pertanto, comparare diverse aggregazioni giovanili in aree differenti del Paese, e utilizzare diversi strumenti di analisi quali interviste, comunicazione mediatica, inchieste giornalistiche e dati statistici, per definire le complesse caratteristiche del fenomeno.

I paradossi attuali, i diversi contesti: Europa, Italia

Oggi, gran parte della criminologia contemporanea americana ed europea ha abbandonato ogni tipo di lettura sociale o culturale basata esclusivamente sulla devianza giovanile. Eppure, un nuovo “dogma” attraverso cui interpretare il perturbante, materializzatosi nel fenomeno delle bande giovanili, è senza dubbio quello della “sicurezza” delle periferie urbane. Gli studi di Klein, tra i fondatori del gruppo di ricerca europeo Eurogang 6, pongono massima attenzione a tre elementi: valutare come osservatori esterni vedono le bande; descrivere l’auto-percezione dei membri di un gruppo; riferimenti espliciti a implicazioni patologiche nel leggere il versante criminale e trasgressivo delle bande analizzate. Klein (2001) afferma che il “paradosso europeo” sta nel fatto che in Europa l’esistenza di bande giovanili non è pienamente riconosciuta, a differenza degli Stati Uniti, dove la loro presenza è un fatto acquisito. Questa carenza sarebbe dovuta a una presunta differenza quantitativa e qualitativa tra il manifestarsi del fenomeno nei due continenti. 

415g4mfr3klI ricercatori di Eurogang intendono, dunque, sviluppare un piano di ricerca atto a fornire un formalismo metodologico e linguistico utile per confrontare i dati raccolti in diverse città e culture europee. Si tratta di creare una ‘cassetta degli attrezzi’ per interpretare situazioni eterogenee, riportandole ad un minimo comune denominatore. Tale progetto non può che approdare a una riformulazione della definizione generale di banda: «qualsiasi durevole gruppo di giovani votato alla strada (street oriented), il cui coinvolgimento in attività illegali fa parte dell’identità di gruppo» (Klein 2001:418).  Dunque una definizione che mette in evidenza la necessità di garantire sicurezza nei confronti di fenomeni di destabilizzazione sociale, una formula che poi prosegue elencando alcuni elementi fissi: la durata nel tempo, cioè un certo numero di mesi sufficiente a creare un’idea di stabilità per il gruppo; la territorialità, nel senso che il gruppo deve passare parte del suo tempo al di fuori dei luoghi tipici in cui sono sottoposti al controllo degli adulti; l’età, che deve essere nella maggior parte dei componenti di poco superiore alla ventina; lo svolgimento, infine, di attività illegali come carattere distintivo dell’identità di gruppo. Per i ricercatori di Eurogang, la valenza patologica delle bande sta proprio nella loro capacità di agire sui propri membri, incrementando comportamenti criminali. Inoltre, la violenza (esercitata tanto per difendere la “rispettabilità” del gruppo che per preservare il possesso simbolico e la presenza fisica in un dato territorio urbano) permane quale segno di distintivo, sebbene non sia l’unica forma di devianza che si sviluppa all’interno delle gang (Klein 2001).

In rapporto all’Italia e all’Europa, negli ultimi quindici anni molti studi hanno messo in evidenza le trasformazioni e le differenze con il mondo americano e sudamericano. Nell’ultimo quindicennio, contestando aspramente la prospettiva criminologica dominante che colloca le “bande giovanili” in un’ottica di patologia sociale, si è sviluppato un movimento di ricerca che propone il ritorno ad un orientamento teorico, basato sulla “resistenza”, e che si ispira a letterature generalmente non contemplate dalla criminologia tradizionale. È in quest’ottica che Brotherton e Barrios (2004) propongono drasticamente di sostituire i termini “gang” o “banda giovanile” con l’espressione “organizzazione di strada”: «un gruppo formato in gran parte da giovani e adulti, provenienti da classi marginalizzate, che ha come obiettivo di fornire ai propri membri un’identità di resistenza, un’opportunità di rafforzarsi ed emanciparsi (empowered) sia individualmente che collettivamente, una capacità di discutere e sfidare la cultura dominante, un rifugio dalle tensioni e sofferenze della vita quotidiana del ghetto, ed infine una enclave spirituale in cui possono essere generati e praticati rituali considerati sacri» (Brotherton, Barrios 2004: 23).

Luca Queirolo Palmas sostiene che, seguendo tale prospettiva, «le street organizations non possono essere analizzate in termini di disfunzionalità né di riproduzione sociale; al contrario le loro pratiche contribuiscono a generare specifiche situazioni di resistenza/trasformazione dell’ordine sociale e culturale dominante» (Queirolo Palmas 2006:158). In Europa sono emerse in questi anni ricerche simili a quelle condotte da Brotherton e Barrios su organizzazioni di strada in cui è presente seppure in maniera numericamente minoritaria la componente etnica, come i Latin Kings e i Ñetas, organizzazioni che si erano “riprodotte” sul nostro continente in relazione al fenomeno migratorio. Tra le più importanti esperienze, cariche di progettualità calata nel sociale, ritroviamo proprio quella del gruppo di studiosi genovese con in testa Queirolo Palmas. Questi ricercatori, per loro stessa ammissione, si sono avvicinati al fenomeno delle bande di strada incuriositi dal clamore mediatico che accompagnava l’emergere delle gang dei latinos, in Spagna a Madrid e Barcellona, così come in Italia, a Genova e Milano.

9788846475930_0_536_0_75Il carattere europeo di queste bande, fenomeno trans-nazionale, ma fino ad un certo punto, lo chiarisce bene Queirolo Palmas: «Ciò che appare interessante è il carattere aperto alla reinterpretazione dell’appartenenza alle organizzazioni di strada nella misura in cui queste divengono esperienze globali, mosse dai movimenti migratori e dai diversi approdi che questi sperimentano nei contesti di ricezione. Capire che cosa risiede dietro queste esperienze dipende da un lato dalle caratteristiche di chi gestisce il marchio a livello locale, dall’altro dal ruolo delle istituzioni pubbliche e dei media, dalla discriminazione esistente o percepita, dai canali di partecipazione e di rivendicazione possibili per la popolazione di origine immigrata» (ivi: 159).

Tuttavia, è da sottolineare, in particolare per l’Italia, che, nella maggioranza dei casi, le bande giovanili non sono connotate etnicamente ed è da questo dato che bisogna partire nello specifico di queste riflessioni. Molte le differenze, dunque, dei contesti territoriali dei fenomeni ma molti gli elementi di omogeneità. Il rapporto europeo Street Violence (European Forum for Urban Security, 2013, EU Street Violence, “Bande giovanili e violenza nello spazio pubblico”), di qualche anno fa, resta importante per definire i territori delle città europee interessate, le differenze e le omogeneità del fenomeno. Vissuti, paure, incertezze, desideri, rabbia sono gli elementi che sembrano attraversare tutte le riflessioni teoriche, e gli studi testé elencati in particolare anche in Italia. Culture urbane e società del rischio finiscono con l’essere complementari e molto spesso inscindibilmente legate. 

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
[*] Il testo è parte del volume dell’Autrice, La città e le sue culture. Adolescenza, violenza, gruppi di strada, in corso di stampa per i tipi della Edizione Alteritas.
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Annalisa Di Nuzzo, docente di Antropologia culturale, insegna Geografia delle lingue e delle migrazioni al Suor Orsola Benincasa; già professore a contratto di Antropologia culturale presso DISUFF Università di Salerno, e membro del Laboratorio antropologico per la comunicazione interculturale della stessa università fino al 2020- Ha conseguito il PhD in Antropologia culturale, processi migratori e diritti umani.  È membro dell’Osservatorio Memoria storica, Intercultura, Diritti Umani e Sviluppo Sostenibile “MInDS” Univ. di Cassino, socia del Centro di Ricerca Interuniversitario I_LAND (Identity, Language and Diversity) nonché del Centro Interuniversitario di Studi e ricerche sulla storia delle paste alimentari in Italia (CISPAI). I suoi campi d’indagine sono l’antropologia delle migrazioni e del turismo, antropologia e letteratura, antropologia e genere, antropologia urbana. È autrice di numerose monografie, tra le ultime pubblicazioni si segnalano: Il mare, la torre, le alici: il caso Cetara. Una comunità mediterranea tra ricostruzione della memoria, percorsi migratori e turismo sostenibile, Roma Studium 2014; Fuori da casa. Migrazioni di minori non accompagnati, Carocci, Roma, 2013; Conversioni all’Islam all’ombra del Vesuvio, CISU, Roma, 2020; Minori Migranti. Nuove identità transculturali, Carocci, Roma, 2020.

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