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La vita davanti a sé. Mano nella mano con “R1”

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La follia in un disegno di Bruno Caruso

di Nino Giaramidaro

Una carezza in lega leggera, un bacio freddo col sapore di alluminio, e quella voce che ci può anche cantare la struggente Parlez-moi d’amour degli anni verdi non più con gli accenti seducenti di Lucienne Boyer ma nelle frequenze binarie più lievi consentite dai bit. L’ottantenne oramai senza più affetti, sospinto negli anni della solitudine, può chiedere al robot-badante di metterci più volt e di sorridere: sorridergli nelle transumanze in quei giorni barbarici della sua ultima età.

Risponderà “Romeo”, “Pepper” o “R1” all’umano richiamo dei vecchi, innamorati del vezzeggiativo? Discernerà il ferroso compagno le inflessioni più dolci da quelle che lo saranno meno? Oppure qualsivoglia timbro del richiamo gli giungerà atono, senza una parvenza di sentimento che nemmeno “R1nuccio” potrà suscitare?

I robot per anziani sosterranno «un ruolo crescente in una società come la nostra, sempre più longeva – sostengono i media. – Un umanoide servirà per superare le difficoltà di chi è costretto a vivere da solo per buona parte della giornata».

L’Oms stima che il 22 per cento della popolazione mondiale avrà più di 60 anni nel 2050.  E la cibernetica ha maturato una profonda consapevolezza del ruolo sociale che nelle famiglie potranno ricoprire i robo, soprattutto quelli “umanoidi”. Come Romeo, ancora in fase di sperimentazione, frutto di una collaborazione internazionale tra aziende di robotica ed enti di ricerca. Alto un metro e 40 centimetri, è stato pensato proprio per la famiglia, per dare assistenza agli anziani o a chi ha perso la propria autonomia. È capace di aprire le porte, salire le scale, afferrare gli oggetti su un tavolo. Si stima che già quest’anno possa essere acquistato da ospedali e case di riposo.

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Il robot per anziani

Il personal robot umanoide R1 è stato progettato e costruito dall’Idstituto Italiano di Tecnologia, dopo la lunga esperienza sull’iCub, il robot bambino, uno degli umanoidi più sofisticati al mondo. Avrà un prezzo relativamente basso – ci rassicurano – e potrà essere impiegato anche nelle case di riposo. È disponibile sin dai primi mesi dell’anno scorso. Sarà una risorsa imperdibile per quei figli e nipoti inseguiti dal refrain di Domenico Modugno: «Il vecchietto dove lo metto, dove lo metto non si sa». Non c’è posto nelle cubature ben ordinate, con l’irrinunciabile saloncino: gli architetti maghi degli spazi non sono mai stati turbati dal sospetto di una “camera per i vecchi”. Ecco, ora è più facile per l’anziano, l’incartapecorito, il malridotto non sufficiente a se stesso, il diverso e l’inutile intraprendere il cammino alla ricerca dell’infelicità.

La scienza soccorre nel processo di estinzione dei sentimenti logorati e arenatisi davanti alla soglia dell’indifferenza, della consegna del vecchio – che fu ardente nel suo sentire – ad un altro mondo, lontano dal tinello e dal salotto con il mobile bar. Gli eschimesi nei secoli hanno avuto il coraggio di abbandonare i loro ex cari, che più non riuscivano a pescare e cacciare, su un frammento di iceberg alla deriva. Si lasciavano “così, senza rancor” e, sebbene nessuno lo ammetta, forse ancora si lasciano, forti del permafrost che ignora qualsiasi calore.

L’India ha ereditato la semplicità nel trattamento degli anziani, soprattutto delle vedove: molte famiglie, principalmente quelle povere, li abbandonano in strada, con il futuro davanti a sé dell’elemosina, dei rifiuti, della scarsa pietà, ridotti senza casta, senza niente.

E sino all’agosto del 2006 si hanno crepitanti notizie della “sati”: il rituale suicidio delle vedove sulla pira del marito morto. Nel 1987 nel villaggio di Deorala (Rajasthan poverissimo), con la tradizione oramai fuorilegge, Roop Kanwa, a 17 anni, è bruciata sotto lo sguardo di diverse migliaia di spettatori. Dicembre del 2014: a Saharsa (Bihar) una vedova si getta sulla pira mentre figli e parenti erano un po’ distratti.

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Palermo, coppia di anziani

Tra i pellirosse era – e forse ancora è – lo stesso anziano che abbandonava la tribù e indirizzava il cammino della sua vita verso cimiteri e luoghi mortali dove sotterrava il suo tomahawk e si affidava a Manitou. Portando con sé tutta la saggezza conquistata nelle età precedenti. Gli anziani erano i custodi delle tradizioni dei canti delle storie dei miti, e per questo erano “sachem”, capi ascoltati e riveriti. Tutto veniva tramandato oralmente e l’anziano era una biblioteca, un museo, un magazzino di sapienza. Il suo compito era tramandare affinché la tradizione, e quindi la tribù stessa, potesse sopravvivere.

Visite, sostegno emotivo – cioè affetto: la burocrazia ha pudore nell’usare la lingua – assistenza agli anziani in Cina. Ma per legge. Multe ai trasgressori. Una nuova prescrizione punta a sollevare il problema della cura delle persone anziane. «È principalmente per sottolineare il diritto degli anziani a chiedere un sostegno emotivo. Vogliamo sottolineare questa necessità», commenta Xiao Jinming, professore all’università di Shandong, che ha redatto la legge.Anche se nella società cinese il rispetto per gli anziani è radicato, tre decen ni di riforme del mercato hanno accelerato la disgregazione della famiglia allargata surrogata da case di riposo.

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Villapriolo, case ex minatori (foto Giaramidaro)

Nelle prescritte visite i figli devono portare con sé anche il coniuge e i propri figli; e devono aiutare i genitori a navigare su Internet, fare fotografie e altre attività sociali e fisiche, e preoccuparsi delle cure sanitarie, dedicare ai loro cari ex lege piccole ma impegnative attenzioni, come cucinare per essi, organizzare festeggiamenti per il loro compleanno, essere presenti in altre cerimonie. Il progetto fotografico dell’imprenditore Roman Zaripov sta ridonando a molti nonni russi il sorriso e la gioia di vivere, sollevando al contempo il problema della diffusa solitudine che in Russia affligge gli anziani. Zaripov fotografa gli anziani, liberi di “interpretarsi” come vogliono. A Mosca e a San Pietroburgo l’assistenza sociale è molto più efficace che nel resto del Paese, e la situazione economica è più stabile rispetto alla provincia. Ma per la maggior parte dei russi il concetto di “terza età” è ancora qualcosa di nebuloso come una tempesta boreale.

«Qui non c’è posto per gli anziani: perché in Russia non amano i pensionati», titola il Moskovskij Komsomolets, scrivendo che nella classifica mondiale sul tenore di vita dei pensionati, stilata da Natixis-Global Asset, la Russia si colloca “a livello spazzatura”. Dei 43 paesi esaminati, peggio stanno solo Brasile, Grecia e India.

Un piccolo efferato carnet al margine della vita, che si può ampliare con molto altro scritto.

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Palermo, 2018 (foto Giaramidaro)

Ma una civiltà che non ha posto per gli anziani «porta con sé il virus della morte», ribadisce Papa Francesco. Però gli studiosi occidentali, non pochi cattolici, presentano con preoccupazione il 2000 come il “Secolo dell’invecchiamento”: i figli diminuiscono, i vecchi si moltiplicano senza che l’angoscioso mistero venga associato al fatto che i giovani non riescono a sposarsi e fare figli perché non hanno un soldo e nessun lavoro. La cultura del profitto comunque insiste nel far apparire i vecchi come una colpevole zavorra: non solo non producono ma costano. Bisogna scartarli nonostante il Papa insista: «È brutto vedere gli anziani scartati, è una cosa brutta, è peccato! Non si osa dirlo apertamente, ma lo si fa! C’è qualcosa di vile in questa assuefazione alla cultura dello scarto».

Vile. Ho incontrato per la prima volta questa parola sui libri delle elementari dopofascismo, dove era sottolineata l’apostrofe di Francesco Ferrucci a Fabrizio Maramaldo – vigliacco, privo di coraggio e anche abietto – che in fiorentino gli profferiva l’eterno «Vile tu dai a un morto», più romanamente «Vile tu uccidi un uomo morto». Sì, ora è detto maramaldo chi si fa forte coi deboli, vessa gli inermi o trova le proprie infami rivalse senza onore. Chi viscido ossequioso e ipocrita come Uriah Heep si sbarazza sorridendo di anziani, inabili, poveri, diversi, “esuberi” di fabbriche e di tutti gli altri inservibili per il guadagno.

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Mario Scalisi

Così, nel neonato secolo, i sette vizi capitali sembrano insufficienti, bisognerebbe aggiungerne almeno un altro: l’indifferenza. Quel non sentire che più si ingigantisce con il moltiplicarsi delle invenzioni a favore della malvagità individuale e sociale. La solitudine per i deboli che avrebbero bisogno del sostegno dell’affetto: «Ripetimi parole tenere/ il mio cuore non è stanco di ascoltarle» anche se «in fondo io non credo» siano vere, cantava Lucienne Boyer. Invece, dopo secoli di segregazione in ospedali e manicomi – con parola gentile, quasi da dolciume, detti anche frenocomi – ora primeggiano lindi e millantati resort dove spesso in mezzo alla sporcizia si picchiano e torturano gli inermi come nei vecchi e tetri manicomi.Della breve e infelice vita di Mariano Scalisi, nato nel 1892 a Tunisi e morto il 13 marzo 1922 alla Vignicella, reparto della Real Casa dei matti di Palermo, poi Ospedale psichiatrico Pietro Pisani, si apprende nella mostra “La condizione umana” – per i 40 anni della legge Basaglia  – aperta sino al 30 marzo nel palazzo Ajutamicristo di via Garibaldi, a Palermo.

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Trapani anni Sessanta (foto Giaramidaro)

Era figlio di Gioacchino, scappato da Trapani e povero senza neppure la canna anche nella sua nuova patria. Una caduta dalle scale lo rese storpio e ingobbito a cinque anni. Condizione che gli guadagnò l’isolamento dai coetanei, derisione e perfino la defezione dell’affetto della madre, dedita agli altri numerosi figli. Non riuscì mai a rubare la fortuna. Diventò poeta, “maudit” per auto definizione, confermata dalla tubercolosi. E scrisse la poesia “Lapidazione”: «Le maledizioni degli uomini/ assecondano quelle del destino… Nell’abbandono, nella carestia/ disprezzato come un lebbroso/ ho infiorato la mia vita in rovina/ di un ideale disperato… O fratelli che mi avete maledetto!». Collaborò, come raffinatissimo critico letterario, con i periodici di Tunisi «Soleil» e «La Tunisie Illustrée», da cui lanciò le sue originali tesi a favore di una letteratura nordafricana, ed era conosciuto come poeta e letterato che propugnava l’unità della cultura maghrebina. Ma rimaneva in una insostenibile solitudine, suddito di una dura carestia di affetti. Quando la depressione lo ghermì, un’alchimia burocratica anziché in un ospedale di Tunisi lo consegnò alla reclusione nel Manicomio palermitano con sentenza del tribunale. Il 9 novembre 1921 il “sopracitato Scalisi” era pericoloso a sé e agli altri: “psicosi neurastenica” diagnosticata dalla logica dell’emarginazione. L’essere border-line, o semplicemente disobbedienti, equivaleva a un destino di sedazione e riduzione a numeri di matricola. Il numero 8883 si spense – sì, come una candela che finisce – per “marasmo”, cioè consunzione, alle tre di notte del 13 marzo 1922. A Tunisi ne dette notizia La Tunisie Illustrée.

Diversi libri e numerosi giornali e riviste hanno narrato di questa sua esistenza senza luci. Anche la rivista “Trapani” in un lungo articolo del professore Gaspare D’Aguanno nel numero di febbraio 1959.

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Palermo (foto Giaramidaro)

Un apologo, questa vita sperperata, sulle successive efferatezze nel mondo degli esclusi, degli espulsi dal vivere sociale. Dei lasciati soli. Oppure in compagnia di robot, umanoidi e non, sin da bambini. È impresa presuntuosa stare dietro a tutte le notizie che ci dicono di ulteriori espulsioni dell’uomo dal contesto “attivo” della società per diventare ex persone senza più casta. Alla Wins (Word International school of Torino) in questi giorni «i robot si integrano perfettamente nel programma didattico e affiancano i professori: insegnano fisica, matematica e geometria nel progetto e.DO™ LEARNING LAB». Lo faranno nell’intero percorso scolastico, sin dai primi anni di studio. Le macchine sono fabbricate dalla Comau, azienda torinese di robot per l’industria.

Forse se un R1 primordiale avesse incrociato i suoi incresciosi giorni, Marius Scalesi non sarebbe diventato maudit. È vero, il robot non ha sentimenti, ma nemmeno indugia nelle malvagità che gli umani dedicano a un padre zavorra, una nonna insostenibile, un amico abiurato, un conoscente diventato sconosciuto. La neutralità passionale dell’umanoide potrebbe essere un porto salvo per gli ultimi naviganti nella solitudine senza rotta. «Oh la voglia di amare/ mi scoppia nel cuore/ soli si muore», versi di un’altra canzone d’amore non pervenuto.

Un bambino fra il verde polimerico di un parco, sorvegliato da una tata di ferro, un vecchietto tenuto da una mano bionica forse saranno l’insegna del nostro futuro. E probabilmente l’ultima forza di un amore inespresso e angariato potrà riscaldare quel metallo e plastica usciti dalle asettiche e futuristiche officine.

Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate in occasione del terremoto del 1968 nel Belice.
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