Stampa Articolo

La tempesta perfetta

la-tempesta-perfettadi Vincenzo Guarrasi 

L’espressione “la tempesta perfetta” è entrata nell’uso corrente della lingua italiana grazie alla letteratura, alla saggistica e a un’opera cinematografica di grande impatto anche se di relativo successo [1], e tale espressione viene usata per descrivere un eccezionale concorso di eventi che si traduce in qualcosa di sbalorditivo e spesso catastrofico. Considerati singolarmente, ciascuno degli eventi non è particolarmente straordinario, ma quando essi si combinano insieme, i risultati possono apparire formidabili. Tali da stravolgere non solo i ritmi della vita quotidiana ma anche i parametri che governano il senso comune. Non ci sentiamo solo sballottati, ma anche disorientati e travolti dal turbinare degli eventi.

Il campo d’impiego di tale espressione non è limitato, ovviamente, ai fenomeni meteorologici, ma ha applicazione in ogni aspetto dell’esperienza umana. Nel campo della politica, ad esempio, spesso ci si riferisce a una “tempesta perfetta” quando una serie di eventi concatenati provoca un risultato inaspettato o scioccante: così è accaduto, ad esempio, in occasione delle catastrofiche agitazioni dei mercati immobiliari americani del 2008, quando a partire da un ambito piuttosto circoscritto si è attivato un tale caos da determinare una vera e propria crisi globale dagli effetti imprevedibili. Anzi, possiamo affermare che è proprio delle tempeste perfette di non limitare gli effetti a un singolo campo (ambientale, economico, politico o culturale) ma dilatarsi fino a coinvolgere ambiti diversi e durare nel tempo oltre ogni umana aspettativa. Si alimenta così un sentimento di angoscia diffuso e pervasivo, legato alla sensazione che la situazione di incertezza e di instabilità non debba mai cessare.

Sono convinto che quello che dico non può non avere una qualche risonanza in ciascuno di voi, perché proprio a partire dalla crisi globale del 2008 o dalla pandemia, ci sembra di non essere mai usciti da una situazione di emergenza. A questo hanno concorso gli insistiti e angosciosi allarmi alimentati dal riscaldamento globale e dai ripetuti fenomeni estremi che ci richiamano alla mente con ricorrenze e ritmi sempre più accelerati il colpevole ritardo con cui stiamo elaborando una risposta coerente ed efficace. Senza trascurare l’incalzante successione di eventi come la pandemia, l’avanzata delle destre con il loro corredo di sovranismi, inattuali nazionalismi e macabri rituali di chiara marca nazifascista e, infine, due guerre che, sommandosi ai tanti conflitti in atto sulla scena mondiale, ci fanno apparire più prossimo e ineluttabile il coinvolgimento in un vero e proprio conflitto mondiale [2]. Tutti questi fenomeni, concatenandosi, non possono non perturbare la mente e alimentare un diffuso senso di ansia e depressione che coinvolge un po’ tutti, ma che sui giovani ha effetti devastanti, rischiando così di compromettere ogni proiezione verso il futuro.

In questo saggio proverò a cimentarmi con alcune delle più rilevanti questioni che interrogano il nostro sofferto presente, consapevole della necessità di misurarsi con i tanti dilemmi che assillano la nostra mente e straziano il nostro cuore al di là della evidente sproporzione tra l’entità dell’impresa e i pochi mezzi che posso racimolare per affrontarli. Per tali motivi, non mi resta che fare appello alla comprensione e alla benevolenza dei lettori.

Una testimonianza da Gaza

«Alla porta del misero edificio dove convivo con 24 parenti, in una delle notti più fredde e piovose che ci sia stata finora, ha bussato un vecchio amico appena arrivato a Rafah da Khan Yunis dove in queste ore i combattimenti si stanno facendo sempre più violenti. I militari israeliani lo avevano costretto a sloggiare nella notte con moglie, quattro figli e padre anziano dalla tenda dove si riparavano in ciò che resta del campo profughi di Maghazi, già in parte distrutto dalle bombe. Non gli hanno permesso di portare con loro nulla: abiti, coperte, materassi, pentole, scorte di cibo. Si sono dovuti lasciare tutto alle spalle. Mi ha chiesto ospitalità per sé e la famiglia. Ma da noi che già dormiamo gli uni sugli altri in una stanza e mezzo non c’era posto. Ho potuto solo dargli dei teli di nylon che uso per le finestre i cui vetri sono stati spazzati via dai bombardamenti. Ha bussato a ogni porta: nessuno ha potuto dargli aiuto. Questo padre di famiglia, costretto a far dormire i suoi figli sul marciapiede lercio e bagnato di pioggia e liquami, ha pianto a lungo sulla mia spalla. Ma qui non c’è più spazio nemmeno per umanità e solidarietà» [3].

Quello che vi propongo è solo uno scorcio di una tragedia ben più grande, e neanche uno dei più raccapriccianti tra quelli che costellano questa vicenda (che comprende la fame, la sofferenza e la morte di migliaia di persone, in prevalenza bambini, donne e vecchi indifesi). Ma l’orrore che proviamo di fronte alle poche e rare immagini che riescono a penetrare la coltre della disinformazione, stesa dai mass media occidentali, è tale che persino la pietà ci è negata. Monta piuttosto la rabbia del sentirsi impotenti di fronte a quella che è destinata a essere una delle più grandi tragedie collettive di questo desolante presente e di non potere sottrarci a un vero e proprio raggiro dell’opinione pubblica mondiale. Ci viene narrata come guerra una carneficina di vittime innocenti ad opera di uno degli eserciti più equipaggiati del mondo.

Com’è potuto accadere tutto questo? Un tale trionfo della barbarie sulla civiltà non può essere il frutto del caso, non possiamo invocare il destino cinico e baro. Qualcosa di più profondo deve essere accaduto se sotto i nostri occhi si dipana una vicenda dai contorni così inquietanti. Qualcosa che ci coinvolge e ci riguarda più da vicino di quanto non siamo disposti a credere.

Le cadute di Biden

Le cadute di Biden

Il tramonto dell’Occidente

Questa storia probabilmente ha inizio con l’attentato alle Torri Gemelle. La storia umana, lo so, non inizia o finisce da qualche parte nell’universo spazio-temporale. Sarebbe più proprio parlare di tornanti della storia. Comunque, nel 2001 interviene un evento che muta gli equilibri mondiali in modo irreversibile. Si disse allora: “Colpito al cuore il mondo occidentale”. Così titolavano con toni altisonanti i quotidiani di tutto il mondo.

Mi accadde allora quello che spesso mi accade, e cioè di non comprendere perché venisse interpretato l’evento in questione come un attacco al mondo occidentale piuttosto che come crimine contro l’umanità. Il mio atteggiamento di allora evidenziava la mia scarsa sintonia con il mondo cui avrei dovuto sentire di appartenere. Ma prescindiamo dal caso personale e andiamo avanti.

La più potente nazione del mondo, gli Stati Uniti d’America, erano stati colpiti sul proprio territorio – cosa che non avveniva dai tempi di Pearl Harbor – e non in una sperduta periferia dell’Impero, ma proprio nel centro operativo e simbolico di tale dominio, la città di New York [4]. Per ristabilire l’ordine del mondo e recuperare un prestigio, ahimè, compromesso s’imponeva una risposta appropriata, determinata e immediata. E ciò puntualmente avvenne (se avvertite in quanto dico, un tono vagamente ironico o forse sarcastico, me ne scuso, la tragicità dell’evento in sé e dei conflitti che ne seguirono, con grande perdita di vite umane non consentirebbero alcun atteggiamento semiserio). Due sanguinosi conflitti furono intrapresi dagli Stati Uniti – in Afghanistan il primo, in Iraq il secondo –, con l’avallo dell’ONU, nel primo caso, senza nel secondo, e con la partecipazione di altri eserciti alleati, espressioni prevalentemente del mondo occidentale. Dò per noti i contorni di tale complessa vicenda, ma non me la sento di trascurare due aspetti a mio giudizio decisivi: la nozione di terrorismo, che da allora fu adottata per connotare gli attacchi agli Stati sovrani da parte di gruppi e organizzazioni più o meno occulte o clandestine, e le ancora più perniciose, se possibile, definizioni di Stati Canaglia e di Asse del Male [5]. Che cosa rende tali espressioni a dir poco problematiche? Mi pare evidente: se adotti tali espressioni per parlare di governi non graditi o di interi Stati ne consegue che l’avversario politico, il governo ostile o il Paese nemico non possono più essere trattati come interlocutori affidabili in processi di negoziazione o di confronto o di mediazione, ma possono essere solo affrontati e sconfitti in conflitti armati. Nessuna nazione può plausibilmente candidarsi al governo del mondo e garantirne i delicati equilibri globali con una visione geopolitica così rozza e primitiva.

Non l’attacco alle Torri Gemelle, quanto piuttosto la dissennata politica bellica adottata ha segnato, a mio parere, o forse accentuato, il declino della potenza americana come garante dell’ordine mondiale.

Non è colpa mia se quanto accade da allora nel Paese più potente del mondo assume contorni sempre più accentuatamente grotteschi e incomprensibili. La prima cosa che sorprende, anzi sconcerta è, come sappiamo, l’irresistibile ascesa di Donald Trump alla più alta carica dello Stato. Già essa era apparsa incredibile nel corso della sua prima campagna elettorale: Trump appariva come un uomo nuovo della politica americana, magnate d’industria dalle imprese molto discusse, personaggio televisivo molto popolare, guascone impenitente (“perseguitato” da tante azioni giudiziarie per stupro) [6], ma dopo Capitol Hill sembra proprio di essere precipitati in un incubo. Come è possibile che un Presidente degli Stati Uniti, sconfitto alle elezioni presidenziali, capeggi di fatto un’insurrezione armata alla sede del Parlamento americano, il Campidoglio, e possa impunemente presentarsi alle elezioni successive? Com’è possibile che egli continui a godere di un consenso incondizionato da una parte consistente dell’elettorato repubblicano, come evidenziato dalle primarie vinte a mani basse in Iowa e New Hampshire? E infine, com’è possibile che il Partito Democratico americano non abbia altra alternativa da proporre che l’ottuagenario attuale presidente, Joe Biden? [7]

Scusatemi, ma sembra di assistere al remake di Highlander. L’ultimo immortale (1986). Pensate che sia sostenibile che tra i più di trecento milioni di americani non si possano trovare alternative valide a questi improbabili candidati, impegnati in una lotta senza quartiere da più di sette anni e che del proprio avversario ciascuno affermi che si tratta di una seria minaccia per la democrazia.

Qualcosa qui non funziona. Il tutto è estremamente allarmante. E non è certo consolante costatare che sia nel caso delle guerre in Ucraina e in Palestina, che nella crisi migratoria o ambientale, il Vecchio Continente non riesca ad affrancarsi da una così sgangherata egemonia americana. Con la Brexit, infatti, il Regno Unito ha consolidato piuttosto una propria affinità elettiva con i cugini d’oltreoceano. Mentre l’Unione Europea non riesce a imporre una visione veramente unitaria alle politiche messe in atto dalle sue parti costituenti, che preferiscono procedere in ordine sparso. Avviene così che Germania, Francia e Italia, da una parte, Ungheria e Polonia, dall’altra – per citare solo le più autorevoli o riottose – tendano ad affermare un proprio profilo internazionale autonomo e discordante senza rendersi conto di quanto sia anacronistico riproporre un protagonismo politico dei singoli Paesi europei in uno scenario globale dominato da colossi come la Cina, la Russia o l’India.

La notte della democrazia [8]

Delle perplessità sul modo in cui funziona la democrazia negli Stati Uniti d’America abbiamo già detto. Non conforta, anzi tutt’altro, la situazione che va delineandosi nell’America Meridionale. Come osserva Stéphane Bussard:

«La corruzione e la criminalità organizzata stanno devastando l’Ecuador, l’Honduras, El Salvador, il Messico e il Guatemala. Dopo la fine delle dittature militari in America Latina, instaurate spesso con l’aiuto degli Stati Uniti, era nata la speranza di una primavera sudamericana. Ma oggi l’incapacità dei leader politici di prendere atto delle tragedie che si svolgono davanti ai loro occhi, unita all’impunità quasi totale, sta logorando queste democrazie. In un contesto così preoccupante, l’insediamento di Bernardo Arévalo in Guatemala è un segnale positivo. Il nuovo presidente, deciso a difendere la “cosa pubblica” e il bene comune, non esita ad attaccare la criminalità organizzata che ha preso in ostaggio il Paese. Le sfide che ha davanti a sé sono enormi, ma fortunatamente la popolazione sembra dalla sua parte.
Nella regione servirebbero molti altri politici come lui. L’Ecuador è precipitato in una sanguinosa guerra tra bande e ha dichiarato lo stato d’emergenza, come El Salvador. L’Honduras vive una situazione simile, mentre in Messico il governo ha perso il controllo della società. Durante l’ultimo mandato del presidente Andrés Manuel López Obrador, ci sono stati più di 158mila omicidi e più di 40mila persone sono scomparse. Anche nei Paesi andini le condizioni sono allarmanti» (Bussard, 2024).

screen_shot_2015-05-26_at_11-1L’Europa è concentrata sul futuro dell’Ucraina, ma dovrebbe interessarsi anche alle battaglie democratiche dell’America Latina. La risposta al crimine organizzato e alle colpe della politica non può essere il populismo di destra dell’argentino Javier Milei né quello di sinistra del messicano Obrador e nemmeno l’emigrazione verso gli Stati Uniti. Bisogna ristabilire un contratto sociale tra il potere e il popolo, per la stabilità di questi Paesi e di tutto il continente.

Il quadro è tutt’altro che rassicurante. Segnali piuttosto contraddittori vengono pure dai BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), anche se lo slancio con cui hanno voluto coinvolgere altri Paesi, per me è da salutare con interesse. Essi rappresentano un aggregato geo-economico molto variegato e propongono al loro interno numerose contraddizioni. Tanti nodi irrisolti, sia sul piano dello sviluppo economico, che su quello delle dinamiche politiche e socioculturali. Il quadro si è notevolmente complicato e movimentato quando al 15° vertice dei BRICS tenutosi a Johannesburg nell’agosto del 2023 ben ventidue altri Paesi [9] hanno chiesto di aderire all’Organizzazione. Un così formidabile allargamento ha comportato una certa euforia tra i Paesi emergenti che sul piano economico rappresentano oggi una fetta importante dell’economia globale, ma sul piano politico rischiano di divenire un gigante dai piedi di argilla (ancor più dell’Unione Europea). Nel corso dell’attuale crisi mediorientale sono stati registrati comunque dei segnali di un più accentuato protagonismo sulla scena internazionale. Mi riferisco ai venti Paesi che hanno espresso una posizione estremamente critica nei confronti di Israele, ma soprattutto al ruolo di assoluto protagonista del Sud Africa, quando quest’ultimo ha chiamato Israele sul banco degli imputati presso il Tribunale dell’Aja con l’accusa di genocidio [10].

Sull’espansione dei regimi autoritari in Europa e nel mondo e sulla parallela sofferenza dei regimi democratici ha gettato piena luce Riccardo Iacona con la puntata di “Presa Diretta” del 19 febbraio 2024. 

A mio giudizio, oltre alla Russia e alla Cina, che certo non brillano per la trasparenza delle loro dinamiche politiche, sono da segnalare in negativo i casi dell’India e dell’Unione Europea. Per quanto riguarda la prima non possiamo non registrare con preoccupazione l’accentuato suprematismo indù impresso dal premier indiano alla sua politica: l’inaugurazione, avvenuta il 22 gennaio 2024 di un tempio indù sulle macerie della moschea che nel 1992 fu rasa al suolo da una folla di estremisti nella città settentrionale di Ayodhya, nell’Utthar Pradesh, ne è un chiaro esempio.

Nell’ambito dell’Unione Europea segnaliamo invece l’insorgenza di forze di estrema destra, che con il loro operato inquinano i processi democratici dei rispettivi Paesi: particolare allarme generano, per ovvi motivi, tali fenomeni quando si producono in Italia e Germania. Sui recenti fatti del raduno fascista ad Acca Larenzia ci si è a lungo interrogati in Italia, anche a seguito di una controversa sentenza della magistratura sul saluto romano e i rischi di ricostituzione fascista [11]. Ben più vigorosa è apparsa la risposta in Germania con le numerose manifestazioni nelle città tedesche contro l’estrema destra e in particolare il partito Alternative fur Deutschland (Afd) culminate con la mobilitazione del fine settimana tra il 19 e il 21 a Berlino e altrove:

«Gli organizzatori avevano stimato l’arrivo di circa 100.000 persone; se ne sono presentate più del doppio tanto da mandare in tilt la rete del trasporto pubblico locale. Chiuse fin da subito per sovraffollamento le maggiori stazioni della metro nella capitale, a partire della Porta di Brandeburgo. Alle 14.30 la polizia confermava così l’incontenibile boom della partecipazione popolare: “Per favore, non venite più davanti al palazzo del Reichstag! Abbiamo già raggiunto la capienza massima, restano libere solo le vie di fuga per i mezzi di soccorso”. […] Da Nord a Sud, da Est a Ovest con soluzioni anche locali. In Bassa Sassonia la catena umana è stata intorno al Parlamento del Land: 10.000 persone riunite sotto il cartello della “Germania colorata invece che marrone”. Fa notizia non solo sulla Taz l’autorevole e famosa direttrice del Teatro di Hannover, Sonja Anders: “Spero che il firewall collettivo di oggi possa essere l’inizio della protezione delle fondamenta della nostra democrazia”» [12] (Hensel, 2024).

Di segno radicalmente opposto sono stati i trattori che hanno invaso le città europee nelle ultime settimane e che hanno fortemente condizionato le politiche europee con l’assedio di Bruxelles e con un corollario di roghi, scarichi di letami e altri incresciosi episodi di protesta contro la politica agricola comune e il Green Deal. Appare molto grave che le autorità europee si siano dimostrate deboli di fronte a un atteggiamento così arrogante degli agricoltori e abbiano subito mollato su uno degli aspetti più qualificanti delle loro politiche: l’abbattimento dell’uso dei pesticidi:

«La Commissione comincia a rivedere alcune regole: sulle terre da lasciare a riposo, destinate a proteggere la biodiversità – in principio il 4% per ottenere i versamenti Pac (la nuova politica agricola comunitaria), regola sospesa nel 2022 in seguito all’aggressione dell’Ucraina e rimessa in vigore da gennaio – oggi verrà annunciato un passo indietro, prolungando la deroga fino al gennaio del prossimo anno. La Francia ha inoltre presentato un progetto, approvato da una decina di paesi, che prevede di sostituire il 4% a riposo con l’impegno a destinare il 7% del totale a coltivazioni favorevoli alla biodiversità (leguminose) o a stagni o siepi, a scelta del coltivatore»  (Merlo, 2024).

Possiamo comprendere ma non giustificare la prudenza di Bruxelles. Il movimento dei trattori ha centrato la propria azione proprio sugli aspetti più qualificanti delle politiche ambientaliste dell’Unione Europea, e le concessioni precipitose volte a impedire lo scontro con un movimento settoriale così diffuso e nutrito ha di fatto pregiudicato ogni prospettiva di azione seria per l’oggi e per il domani. I governi, a cinque mesi dal voto europeo, hanno temuto che la rivolta degli agricoltori gonfiasse i consensi all’estrema destra, che rischierebbe così di occupare un terzo dei seggi del prossimo parlamento europeo. Sarà difficile per il futuro parlamento europeo riprendere il filo del discorso, così bruscamente interrotto.

Il tema di fondo, difatti, è la “sovranità” nazionale, i bersagli sono la Ue e il Green Deal, accusati di imporre troppe norme, non rispettate dai prodotti importati (Fnsea a Coordination rurale denunciano anche i prodotti di altri Paesi Ue, giudicati più lassisti). Sappiamo che l’agricoltura europea dipende dai finanziamenti Ue, 55 miliardi l’anno (9 per la Francia, primo beneficiario), ma questo non ha frenato il movimento degli agricoltori che anzi ha ritenuto di dover alzare la posta in gioco:

«LA UE ha già messo il freno al Green Deal: la Commissione ha fatto passi indietro sulla limitazione dei prodotti chimici, l’uso del glifosato è stato allungato per altri 10 anni. Il benessere animale è stato limitato al trasporto (e von der Leyen ha fatto pressione per declassare la protezione dei lupi, uno di loro mesi fa ha azzannato e ucciso il suo vecchio pony). Al Parlamento europeo, il gruppo Ppe ha svuotato la legge di restaurazione della natura, che deve essere votata in plenaria a breve, e limitato il calo dell’uso di pesticidi. La strategia Farm to Fork, che avrebbe dovuto agire su tutta la catena alimentare, dalla produzione al consumo, è in crisi. Le tensioni esplodono tra produttori, industriali e grande distribuzione» (Merlo, 2024).
Atafona in Brasile, gli effetti della crsi climatica (ph. Felice Fittipaldi)

Atafona in Brasile, Gli effetti della crisi climatica (ph. Felice Fittipaldi)

Langue il contrasto al Riscaldamento globale

Malgrado le sempre più pressanti evidenze dell’accelerazione del cambiamento climatico in ogni parte del globo, scema così anche in ambito europeo la convinzione nel perseguire politiche conseguenti. Faccio solo due esempi tratti dal medesimo numero dell’Internazionale, il n.1547 del 26 gennaio 2024: gli effetti della crisi climatica ad Atafona, in Brasile fotografati da Felipe Fittipaldi e lo scioglimento dei ghiacciai in Groenlandia.

Per quanto riguarda quest’ultimo, un recente studio statunitense ha mostrato quanto sia stato sottovalutato tale fenomeno. La calotta glaciale dell’isola si sarebbe ridotta più di quanto precedentemente stimato. La perdita della parte terminale dei ghiacciai accelera lo scioglimento di quelli restanti: «Lo studio pubblicato su Nature, ha analizzato migliaia di immagini da satellite. Tra il 1985 e il 2022 la Groenlandia ha perso oltre mille miliardi di tonnellate di ghiacci, un’area di circa cinquemila chilometri quadrati, il 20 per cento in più di quanto si pensasse» (“Ghiacciai senza tappo” in Internazionale, n. 1547: 98).

Felipe Fittipaldi propone una documentazione qualitativa, non meno scioccante di quella quantitativa di Nature. Nella piccola città balneare di Atafona, a nord di Rio de Janeiro il processo di erosione costiera avanza perché il fiume Paraibo do Sul, che fornisce acqua potabile a circa 14 milioni di brasiliani non riesce più a garantire l’equilibrio con l’oceano e contrastare la risalita dell’acqua di mare. Le conseguenze sulla popolazione locale sono a dir poco devastanti, come dimostrano le dolenti immagini di Fittipaldi (Caujolle, 2024, 64-69). A fronte di eventi di tale portata appare di estrema gravità quanto avvenuto alla COP 28 di Dubai:

«Nella COP più affollata di sempre (100 mila partecipanti, più del doppio di quella dell’anno scorso) non ci sono mai stati così tanti lobbisti dell’industria petrolifera che, secondo una rete di organizzazioni ambientaliste, sono 2.400, più di quasi tutte le delegazioni nazionali. Un segnale esplicito della resistenza di un sistema economico e produttivo che è oggi sotto attacco e vuol far sentire la propria voce. Non si tratta ora di discutere se lo stesso Al Jaber, chairman della COP28 e capo di una delle compagnie petrolifere più grande al mondo, sia o non sia un negazionista del clima, ma di prendere atto del dispiegamento di forze per difendere uno status quo che sostanzialmente significa rallentare lo sviluppo delle fonti rinnovabili di energia. Così infatti si deve leggere la spinta sul nucleare emersa con forza a Dubai, ben sapendo che nucleare e rinnovabili non si integrano facilmente in un mix energetico. L’energia nucleare prevede un sistema di produzione e distribuzione dell’energia centralizzato, proprio come gli idrocarburi, mentre le rinnovabili hanno bisogno di un sistema più flessibile, basato più su reti intelligenti e capacità di stoccaggio, un sistema molto meno adatto a creare profitti nel settore energetico. Finalmente allo scoperto: le conferenze sul clima sono un processo fondato su regole democratiche anche se rivolto soprattutto a Paesi che quelle regole democratiche non le hanno» (De Santoli, 2023).

Le parole del geologo Mario Tozzi in proposito sono a dir poco sferzanti: 

«Parlano di trionfo gli organizzatori di Cop 28, gli Emirati Arabi Uniti, i produttori di petrolio ma è storica solo la presa in giro. Quello che abbiamo visto in questi giorni è, al massimo, un ribadire dei principi generali, affermati già nelle Cop precedenti. Intanto, però, passa altro tempo e la situazione peggiora. Due cose invece ritengo positive: il varo di un “fondo salva-stati” per le isole del Pacifico che rischiano di scomparire per l’innalzamento degli oceani, e che, finalmente, per due volte, vengano nominati i combustibili fossili. Un miglioramento minuscolo, non c’è ancora un crono-programma, nessuna tabella di marcia sul controllo delle emissioni inquinanti per esempio di Cina e India. Solo parole» (Tozzi, 2022).

Non posso chiudere questo paragrafo sul riscaldamento globale senza cedere la parola a Astra Taylor, regista, giornalista e attivista canadese, che in margine a un’interessante riflessione sui popoli nativi del Canada osserva quanto segue: 

«Oggi gli animali addomesticati e mercificati, principalmente mucche e maiali, costituiscono più del 62 per cento di tutta la biomassa dei mammiferi, che deforesta vaste aree di territorio ed emette enormi quantità di carbonio, mentre tutti gli animali selvatici sono ridotti a un misero 4 per cento. La natura selvaggia che rimane è in gran parte protetta dai popoli indigeni, che costituiscono circa il 5 per cento della popolazione mondiale e proteggono l’80 per cento della biodiversità globale» (Taylor, 2024: 93).

La sproporzione tra gli animali addomesticati e quelli selvatici è impressionante e gli effetti sulla biodiversità considerevoli, il che ha conseguenze, come abbiamo constatato in occasione della pandemia da Covid, devastanti:

«Il mio interesse – conclude Astra Taylor – per i diritti della natura deriva, in parte, dalla mia convinzione che la biodiversità abbia un valore politico oltre che biologico. Ogni specie che lasciamo estinguere riduce quella che potremmo chiamare democrazia ecologica, sottolineando la necessità di prefigurare un sistema politico in grado di proteggere gli interessi di altre forme di vita. Il beneficio per gli animali e gli insetti, oltre che per il 40 per cento delle specie vegetali minacciate dal cambiamento climatico dovrebbe essere più che sufficiente per spingerci a combatterne l’estinzione. […] Quando un ecosistema è sano, la biodiversità tampona la trasmissione di agenti patogeni e la variazione genetica interrompe le vie di contagio. Ciò significa che il ridimensionamento e la frammentazione dell’habitat selvatico riduce la biodiversità e aumenta le possibilità di quello che gli scienziati chiamano spillover, o infezione interspecie, la dinamica che probabilmente ha portato alle recenti epidemie di ebola in Guinea» (Taylor, 2024: 94).

Infine, le sue considerazioni sull’inclusività del mondo naturale possono apparire spiazzanti, ma meritano una grande considerazione:

«L’immagine del mondo naturale come cerchio inclusivo anziché gerarchia esclusiva non è frutto del romanticismo, ma della corretta lettura delle informazioni scientifiche che descrivono la nostra realtà, dove siamo inseriti in un elaborato circolo di vita, non-vita e perfino semi-vita. Mio padre è un chimico farmaceutico e la sua ricerca si concentra sui virus. I virus sono sequenze microscopiche di DNA o NRA che per replicarsi dipendono dal dirottamento dell’energia delle cellule ospiti. Abitano in un limbo che sfida le categorie, una strana zona grigia tra vivente e non vivente, animato e non animato. Quello che vedo nel lavoro di mio padre non è un desiderio di conquista ma un senso di mistero. I virus non sono affatto simpatici, ma mio padre mi ha dimostrato che meritano il nostro rispetto, se non il nostro timore. Il fatto che le nostre vite dipendano da processi biologici e fisici che a malapena riusciamo a categorizzare e da dinamiche complesse certamente fuori dal nostro controllo dovrebbe suscitare una grande dose di umiltà. Questa umiltà è l’ethos che associo alle capacità buone e generative dell’insicurezza, quelle che possono aiutarci a essere curiosi, a connetterci, a evolverci e forse a sopravvivere in un mondo che sta radicalmente cambiando» (Taylor, 2024: 95).

Indubbiamente, la nostra comprensione del mondo naturale necessita di un profondo ripensamento.

armaiTamburi di guerra

Il contrasto al riscaldamento globale dovrebbe avere la priorità assoluta nell’agenda politica mondiale, ma ciò non avviene. Anzi, sembriamo più propensi ad alimentare conflitti che a disegnare progetti di cooperazione. Con due guerre in corso di portata più che regionale e con il rischio sempre più avvertito di escalation militari incontrollate, stupisce la prontezza con cui Stati Uniti d’America e Regno Unito si sono precipitate a presidiare le rotte commerciali lungo il Mar Rosso e a bombardare i guerriglieri Houti dello Yemen con proprie unità della marina militare. E Francia, Germania e Italia si sono affrettate a organizzare la Missione Aspides, per non essere da meno. Come evolverà la situazione è ancora presto per dirlo, ma tale prontezza di reazione è comunque molto indicativa di qualcosa che non poteva non accadere, se consideriamo che:

«Dopo anni di pressioni americane, i primi segni di inversione di tendenza nella spesa militare arrivano una decina di anni fa, fra il deragliamento delle primavere arabe (Siria e Libia in primis), l’apparizione del Califfato e l’intensificarsi della «guerra al terrore». Dal 2019 a oggi la spesa militare nel continente è cresciuta grossomodo del 25-30%, con un balzo in avanti dopo l’invasione dell’Ucraina e iniziative sempre più significative dell’Ue stessa. Per un soggetto politico continentale che nasce su un’ipotesi di pace costruita sulle macerie della seconda guerra mondiale, e che si è a lungo definito «potenza civile», siamo nel bel mezzo di un passaggio epocale: si aprono interrogativi sui quali occorrerebbe un dibattito aperto. Poco si parla, ad esempio, delle implicazioni della nuova ondata di allargamenti, nei Balcani e verso Moldova, Ucraina e Georgia. L’allargamento precedente venne salutato come un’espansione dell’area della pace liberale, con un’Unione che muoveva verso un vicinato definito «un anello di amici» da Romano Prodi, allora a capo della Commissione Ue. Oggi l’Europa si trova coinvolta in un contesto di crescenti rivalità geopolitiche: al suo centro la Germania, tecnicamente in recessione, con l’estrema destra in crescita e tensioni industriali; alla sua periferia, il vicinato è diventato un anello di fuoco»  (Strazzari, 2024).

La storia lo insegna: più crescono gli armamenti più la guerra si fa inevitabile. Niente è risultato più inattendibile della massima latina “si vis pacem para bellum”. È vero piuttosto il contrario, più l’industria delle armi è attiva, più tendono ad aumentare la circolazione e l’uso dei mortiferi strumenti di guerra:

«Proprio sul Manifesto da tempo evidenziamo un dato incontrovertibile: le guerre che si protraggono tendono a espandersi, ovvero a coinvolgere i vicini, noi. Il tempo della Storia unisce i puntini, fra le guerre in Afghanistan, Siria, Ucraina, e l’espandersi degli scenari di guerra mediorientali. Putin cerca un bagno rigenerante di legittimità elettorale mentre l’economia russa finora è riuscita ad adattarsi alle sanzioni e reggere lo sforzo bellico. Se proiettiamo sul futuro le dinamiche in corso sul calcolo della deterrenza, nuovi scenari di guerra non sono implausibili. Per esempio, il protagonismo americano sul fronte degli aiuti militari all’Ucraina ha contenuto Polonia e Paesi baltici. Non siamo ancora abituati a pensare la Polonia come una forza militare di prim’ordine, capace di guidare una guerra, ma le dichiarazioni del neo-presidente Tusk sulla necessità di farsi carico di tutto l’aiuto di cui l’Ucraina ha bisogno ci dicono cosa possa accadere nel caso gli Usa si sfilino, per blocco del Congresso o vittoria elettorale di Trump. Del resto Usa e Germania stanno frenando sull’adesione dell’Ucraina alla Nato, ritenendola pericolosa, opzione da riservare, domani, per negoziare un accordo che magari stabilizzi la frontiera orientale europea lungo la linea che finlandesi, baltici e gli stessi ucraini, ai margini dei territori occupati, stanno fortificando» (Strazzari, 2024).

Suggestiva appare la lettura che di queste dinamiche propone Fabio Armao nel suo recente Capitalismo di sangue. A chi conviene la guerra:

«Dopo il 1989, con il superamento del mondo diviso in blocchi, ci si aspettava il trionfo della democrazia. E invece assistiamo al trionfo di un capitalismo in pieno delirio di onnipotenza, cui fa da contraltare la ritirata dello stato democratico: graduale distruzione del welfare, abbandono delle lotte per i diritti, crescita esponenziale delle diseguaglianze.
A un secolo dalle guerre mondiali, l’attacco scatenato da Putin il 24 febbraio 2022 sembra aver riportato il mondo sull’orlo di un nuovo conflitto globale. E altre tragedie si stanno consumando intorno al nodo irrisolto tra Israele e Palestina. Poco o nulla del contesto odierno, tuttavia, ha a che vedere con il mondo del passato; e non si possono interpretare gli eventi odierni appellandosi a vecchie categorie. L’invasione dell’Ucraina, ad esempio, va considerata come una conseguenza della globalizzazione fuori controllo e si inserisce nel filone delle ‘nuove guerre’, che vedono protagonisti – insieme alle forze armate tradizionali – mercenari, terroristi, mafiosi e nelle quali la logica privatistica del mercato si fa gioco delle ideologie. Il tempo è quasi scaduto: le democrazie devono riprendere terreno sul ‘capitalismo di sangue’, consapevoli del fatto che una guerra globale renderebbe inutile il capitalismo stesso» (Armao, 2024).

Anche la guerra scoppiata in Israele, in definitiva, secondo Armao, se inquadrata all’interno di un contesto in cui la politica lascia che sia il capitalismo a dettare le regole, ci mostra un mercato molto fiorente e in grado di condizionare le scelte dei governi. Ne troviamo continue conferme nelle corrispondenze dal fronte, che evidenziano una crescita esponenziale delle vittime civili innocenti a fronte di un ruolo sempre più irrilevante delle masse nei processi politici che determinano lo scoppio dei conflitti: le guerre sono, con frequenza crescente, il frutto di scelte compiute da leader che perseguono i loro interessi privati o di clan (e che, infatti, vanno alla ricerca di ‘stati sponsor’ più che di alleati). Le guerre, ormai, trovano alimento in un mercato globale che si dimostra perfettamente in grado di gestire in piena autonomia tutte le sfere interessate, finanziaria, produttiva e commerciale.

Se si afferma un regime di guerra, le democrazie sembrano fare un passo indietro e cedono il campo agli autoritarismi, rinunciando a loro vantaggio persino a quello che dovrebbe costituire uno dei principali punti di forza, e cioè la capacità di mediazione dei conflitti:

«Fate caso a un paio di paradossi: 1) la possibilità che Israele non venga attaccata anche a nord dal Libano o dalla Siria, rischiando di trovarsi stretta in una morsa a tenaglia, rimane affidata, in fin dei conti, alla possibilità che Hezbollah non voglia favorire Hamas nella competizione per la leadership del popolo palestinese; 2) le democrazie che, per definizione, sarebbero i regimi meglio attrezzati a risolvere le controversie in maniera non violenta, preferiscono subappaltare il ruolo di mediatori a leader – come Erdogan, o l’egiziano Al-Sisi o presino l’emiro del Qatar  (principale finanziatore di Hamas; un tipo di conflitto di interessi ancora mai visto) – che eccellono nei campi dell’autoritarismo, della repressione degli oppositori e della violazione sistematica dei diritti umani» (Armao, 2024:114).

Più si allarga la spirale della guerra, più si restringono gli spazi della democrazia e si allontanano nel tempo le prospettive di un’azione convinta, conseguente e convergente di contrasto al cambiamento climatico. Ecco perché a commento di quanto accade mi viene in mente l’espressione “cospirazione”. Non certo per evocare improbabili idee di complotto o immaginare che in tutto ciò ci sia una cabina di regia occulta. Ma, semplicemente, perché tutto cospira ad alimentare quel caos degli elementi che ci ha indotto a usare l’espressione “tempesta perfetta” nel titolo. E tutto questo è contro l’umanità. Ma è al tempo stesso ad opera dell’umanità.

migranti-grecia4bTrieste: la Piazza del Mondo [13]

La mobilità umana sulla superficie del globo è una delle principali vittime del nostro accidentato presente. Assistiamo a una vera e propria aberrazione delle frontiere che tendono a trasformarsi in barriere contro cui si infrangono le inarrestabili ondate migratorie, frantumandosi e polverizzandosi nel frastagliarsi delle esistenze umane:

«Tende coperte da teli di plastica piantate tra pozze d’acqua che di notte a volte gelano. Qualche straccio di metallina che rotola. Rifiuti, vecchie sedie, bracieri negli angoli, dove a gruppi si cerca un po’ di calore davanti al fuoco. La bava di sole che entra dai finestroni orfani di finestre e dal tetto bucato non scalda. Pakistani, afghani, nepalesi, iraniani, kashmiri, bengalesi: a Trieste sono attualmente duecentoventi le persone costrette a vivere così. Sono tutti richiedenti asilo, per legge avrebbero diritto a assistenza e accoglienza, ma per loro non c’è posto né supporto. Capita spesso che siano molti di più. Trecento, quattrocento. Impossibile tenere il conto, chi può cerca alternative altrove o magari prosegue il viaggio. Periodicamente la prefettura dispone maxi trasferimenti in centri di altre province o regioni, ma a centinaia rimangono comunque senza assistenza né soluzioni. Soli.
“La situazione di abbandono di centinaia di persone – dice Gianfranco Schiavone, giurista di Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) e presidente dell’Ics – non si deve a alto numero di arrivi. Le domande di asilo presentate da chi arriva dalla rotta balcanica sono in media cinque al giorno, un numero basso, persino ridicolo. I richiedenti vengono abbandonati per mesi in modo che il numero cresca tra un trasferimento e l’altro. È la prova che l’emergenza è voluta”. E nel laboratorio dell’accoglienza è un inedito. “Le ragioni – spiega Schiavone – sono due: spingere i richiedenti asilo ad andare verso altri Paesi europei e far percepire alla popolazione distratta un’invasione che non esiste”» (Candito, 2024).

Come vediamo, chi entra in Italia dalla Slovenia, attraverso la rotta balcanica è spesso costretto a vivere in condizioni precarie e trova assistenza soltanto dalle associazioni di volontariato perché lo Stato è assente, troppo impegnato nella fallimentare strategia di cercare di ridurre al minimo il numero dei richiedenti asilo. Un obiettivo che viene per larga parte mancato e che genera piuttosto tanta sofferenza e miseria tra i risiedenti asilo e un’onta indecorosa per le opulente città che li ospitano. Ho in mente oltre a Trieste, anche Padova, città che pure eccelle storicamente per le iniziative di cooperazione interazionale. D’altronde i paradossi sono ormai la norma della convivenza umana nei contesti metropolitani [14].

Gli accordi dell’Italia con l’Albania e del Regno Unito con il Ruanda, al di là delle ben misere prospettive di realizzazione delle politiche di esternalizzazione del complesso nodo dei rimpatri dei migranti indesiderati, manifestano con grande evidenza una concezione di impianto coloniale delle relazioni internazionali. Anche su questo terreno si assiste a un arretramento di Paesi europei dalle democrazie consolidate di fronte alle proprie responsabilità a favore di Paesi a dir poco di dubbia affidabilità sotto il profilo della dialettica politica e del rispetto dei diritti umani. D’altronde, sotto questo profilo, l’Europa ci ha ormai abituati ad assistere a imprese improbabili, ma perseguite con ostinata tenacia, nel tentare accordi con leader politici africani in Tunisia, ad esempio, o in Libia [15].

«Con la ripresa dei controlli al confine, l’Italia sta cercando di mantenere una promessa che non riesce a realizzare sul fronte mediterraneo: chiudere il Paese. Dopo il fallimento della strategia migratoria del governo, emerso chiaramente a Lampedusa nel settembre 2023, Meloni ha rimescolato le carte concentrandosi sui Balcani. A novembre la presidente del consiglio è andata in visita ufficiale a Zagabria per discutere la questione dei migranti. L’ultima mossa di Roma è stata l’annuncio di un accordo con l’Albania per delocalizzare due centri d’accoglienza destinati ai richiedenti asilo. L’idea è trasferire in Albania fino a tremila persone tra quelle soccorse in mare dalle navi italiane. La polizia albanese si occuperebbe solo di garantire la sicurezza all’esterno del centro. Il progetto era stato annunciato la scorsa primavera e sembrava pronto a partire, ma la corte costituzionale albanese aveva sospeso la ratifica dell’accordo per verificare se il testo rispettava le convenzioni internazionali di cui l’Albania è firmataria. Il 29 gennaio di quest’anno i giudici hanno dato il via libera all’intesa» (Debarge, 2024: 33).

Il nodo migratorio rischia di strozzare l’Europa e rappresenta uno dei principali fattori di arretramento del complesso delle politiche messe in atto. L’attivismo messo in campo dall’attuale governo italiano trova, infatti, pieno riscontro nelle più alte cariche di Bruxelles, più propense a curare le prospettive di una eventuale rielezione che a elaborare risposte sostenibili a una delle più delicate e complesse delle questioni contemporanee. Anche in Europa costatiamo che i decisori politici e le comunità sono prese come in una morsa, in cui una tenaglia stringe dall’alto (le istituzioni, per l’appunto) e l’altra morde dal basso. Purtroppo da una parte e dall’altra dell’Oceano Atlantico si vanno affermando politiche restrittive della mobilità umana, che non dovrebbero neanche essere prese in considerazione nell’ambito dei consessi democratici. Incalzato dalle pressanti azioni dei rappresentanti trumpiani del Partito Repubblicano, perfino il Partito Democratico e il suo Presidente, Joe Biden, si trovano costretti a cedere oltre misura. Anche negli Stati Uniti la morsa è in azione: se da una parte abbiamo assistito all’impeachment di un ministro dell’attuale amministrazione, il primo negli  ultimi centocinquant’anni di storia americana proprio a causa di politiche immigratorie giudicate inefficaci [16]; dall’altra è il Texas a sfidare un’ordinanza  della Corte Suprema sull’immigrazione[17] mentre gruppi di cittadini affluiscono armati sulla frontiera da diverse città americane per riappropriarsi di un bene inalienabile, la loro frontiera.

9788807034084_0_536_0_75Apeirogon: restiamo umani [18]

Il tempo della catastrofe opera come un setaccio sull’agire umano. Separa ciò che è destinato alla permanenza da ciò che è effimero e incoerente. Mentre rimbombano fulmini e saette nel cielo, il fragore delle armi e le tempeste dell’odio sulla terra, è difficile discernere tra chi blatera senza costrutto e chi non si unisce al coro e con la sua semplice voce, flebile ma ostinata, si ostina a pronunciare parole di pace. Occorre raccogliere questi grani antichi intinti nella saggezza dei popoli e serbarli per poterli ripiantare a tempo debito nel fertile terreno delle coscienze [19].

In Apeirogon, le voci che è decisivo ascoltare sono quelle di un palestinese, Bassam Aramim, e di un israeliano, Rami Elhanan, mentre lo spigolatore che paziente si china a raccoglierle e a propagarle è l’autore, Calum McCann. Non ci resta che disporci all’ascolto:

«Questa è la storia di due padri, uno israeliano e uno palestinese. Hanno visto le loro figlie uccise bambine dalla violenza che strazia quelle terre e invece dell’odio hanno scelto le parole. Insieme raccontano. “Sono Rami Elhanan, il padre di Smadar”. “Sono Bassam Aramim, il padre di Abir”. Da anni, nelle scuole, nei teatri, nelle librerie, per un attimo riconsegnano alla vita quelle ragazzine che mai diventeranno donne. Raccontano, con fatica, con dolore, perché la pace fiorirà solo nel dialogo, nella tolleranza, nella riconciliazione. “Non finirà finché non ci parliamo”» (Gross, 2021).

L’ultimo lavoro dello scrittore irlandese Colum McCann ci restituisce, infatti, una pagina di storia tragica, adottando però una chiave del tutto peculiare: una specie di romanzo esploso fatto di schegge e stralci. 1001 secondo la lezione delle Mille e una notte (Abdolah, 2023). Tanti sono i paragrafi, alcuni di un solo rigo, che si succedono in ordine crescente dall’1 al 500, in ordine inverso da 500 a 1. Il 1001 è incastonato come fosse la chiave di volta al centro del volume e recita così: 

«C’era una volta, non tanto tempo fa, e non tanto lontano da qui, Rami Elhanan, un israeliano, un ebreo, un artista grafico, marito di Nurit, padre di Elik e Guy e Yigal, padre anche della compianta Smadar, che in sella alla sua motocicletta viaggiò dalla periferia di Gerusalemme al monastero di Cremisan, nella città a maggioranza cristiana di Beit Jala, vicino a Betlemme, sulle colline della Giudea, per incontrare Bassam Aramin, un palestinese, un musulmano, un ex carcerato, un attivista, nato nei pressi di Hebron, marito di Salwa, padre di Araab e Areen e Muhammad e Ahmed e Hiba, padre anche della compianta Abir, di dieci anni, colpita a morte  dalla pallottola di una guardia di frontiera israeliana senza nome a Gerusalemme Est, quasi dieci anni dopo che la figlia di Rami, Smadar , a due settimane dal suo quattordicesimo compleanno, fu uccisa da tre attentatori suicidi palestinesi [Anche io, Colum McCann, sono pervenuto] dopo aver fatto un lungo viaggio da Belfast e da Kyushu, da Prigi e dal North Carolina, da Santiago e da Brooklyn, da Copenaghen e da Terezin, in un giorno qualsiasi di fine ottobre, brumoso, venato di freddo, per ascoltare le storie di Bassam e Rami, e trovare nel cuore delle loro storie un’altra storia, un cantico dei cantici, riscoprendo sé stessi – io, voi – nella cappella rivestita di pietra, dove siamo stati seduti per ore, impazienti, disperati, incoraggiati, confusi, cinici, complici, silenziosi, mentre i nostri ricordi implodevano, le nostre sinapsi rimbalzavano, nell’addensarsi dell’oscurità, rievocando, durante l’ascolto, tutte quelle storie che devono ancora essere raccontate» (McCann,  2021: 263-64).

9788821113871Questo brano svela, per così dire, l’arcano: ci troviamo al punto di intersezione tra il mondo islamico e il mondo ebraico – il riferimento al Cantico dei Cantici lo manifesta –, tra la vita (e la morte) umana e la letteratura, tra la narrazione e l’ascolto e raccomanda l’estrema cura che dobbiamo adottare per trattare un materiale così incandescente. Non ci si può accostare a esso senza disporci all’attitudine dell’ascolto di ciò che accade e di ciò che turbina nella nostra mente e nel cuore. Nei pressi di una città come Gerusalemme sarebbe ridicolo evocare immagini da conflitto delle civiltà. Ci troviamo nella città dove ogni uomo è nato dice Jean-Pierre Sonnet:

«Per essere nato in essa, dei muri mi racchiudono e mi dividono, delle lingue in me si contraddicono, un no man’s land è calpestato, un santo dei santi è profanato. Più in basso, sommessamente, una fonte mormora il mormorio dell’essere, la semplice voce dell’Uno» (Sonnet, 2023: 15).

Siamo nella Città Santa di tre religioni monoteistiche. Non si scherza. La storia umana vi tocca con cadenze imprevedibili il suo diapason. Per questo, malgrado che siamo storditi dal clamore delle armi, sopraffatti dall’orrore per la carneficina che è in corso a Gaza, sentiamo il bisogno di recuperare ogni brandello di speranza attraverso un’opera letteraria che affonda le sue radici nei meandri della vita umana: 

«Smadar è figlia di questo mondo – l’élite di Israele. È una nuotatrice, una ballerina. Da grande vuole fare il medico. “Smadar. Dal Cantico dei Cantici, Il grappolo della vigna. Il fiore che si schiude”. […]
Abir è figlia di questo mondo – da mezzo secolo sotto scacco. Le piacciono gli orsi, sogna di vedere il mare. Da grande vuole fare l’ingegnere. “Abir. Dall’arabo antico. Il profumo del fiore» (Gross, 2021).

Il grappolo della vigna, il fiore che si schiude, il profumo dei fiori. Queste fanciulle come poesie viventi hanno inondato la vita dei loro cari e hanno lasciato una traccia indelebile che non reclama violenza, né vendetta o ritorsione. Esse invocano pace e fratellanza e a tale missione si sono dedicati i loro padri e le madri e sorelle e fratelli, in un abbraccio che non si estingue. Per questo sono tasselli chiave quelli che vi ripropongo. Il primo è un passaggio di testimone da una generazione all’altra, dai padri ai fratelli più giovani:

«190. Mi chiamo Yigal Elhanan. Avevo cinque anni quando nel 1997 ho perso mia sorella Smadar.
189. Mi chiamo Araab Aramin. Avevo quattordici anni quando spararono dietro la testa a mia sorella Abir. 188. Settecento persone ascoltarono parlare i due ragazzi. Mentre Rami e Bassam li guardavano da un lato del palcoscenico. Bassam era in piedi con le mani allacciate dietro la schiena. Rami con le dita strette al bordo del sipario. In seguito disse che quello che stavano ascoltando era di una potenza nucleare [20].
[…] 185. Araab aveva ventitré anni, Yigal ventiquattro» (McCann 2021: 414-416).

Non meno incisiva è la risposta ferma e decisa che Nurit [21], la madre di Abir, oppone a un personaggio che per la sua crudeltà e spietatezza abbiamo imparato a detestare: 

«226. La mattina successiva all’attentato telefonò Netanyahu. Il trillo di quella telefonata parve in qualche modo più acuto e lancinante di altri. Nurit tirò su il ricevitore. Conosceva Netanyahu fin dai tempi della scuola. Erano stati amici al college.
Un giornalista che si trovava in casa ascoltò per caso la conversazione. No, disse Nurit, non era il benvenuto nella sua casa. Non adesso, non durante shiva [22], no, per favore non farti proprio vedere. Mise giù il telefono, poi rovesciò il ricevitore sganciandolo dalla forcella. Il giorno dopo, quella telefonata era diventata notizia. Fu nuovamente intervistata nel corso della settimana. La colpa di quell’assassinio non era degli attentatori, disse. Gli attentatori erano vittime loro stessi. La colpa era di Israele. Il sangue era sulle sue mani. Era sulle mani di Netanyahu. Ed era anche sulle sue stesse mani, disse. Lei non ne era immune. Tutti erano complici. Oppressione. Tirannia. Megalomania» (McCann 2021: 395-6).

Il sangue sulle mani: anche Nurit, israeliana, sente di non esserne immune, di essere complice della strage che si va compiendo sotto i nostri occhi. Anche noi, gli occidentali intendo, sentiremo nei confronti di Gaza e dei palestinesi tutti, questa orrenda sensazione del sangue sulle mani. Di essere complici finché questo strazio non avrà fine. E anche oltre.

Per questa ragione ho scelto di dare la parola a uno scrittore irlandese come McCann e al suo Apeirogon:

«Funziona come una sorta di opera mondo: è diviso in mille e uno canti in omaggio a “Le mille e una notte”, che secondo Borges era il grande poema senza fine dell’umanità, e narra la vicenda da più punti di vista possibili, come suggerisce il titolo (l’apeirogon è un poligono con un numero infinito di lati […]» (in Pellas, 2021)
«Gli chiedo quale sia la sua ora preferita in quella città, New York in cui abita con la famiglia, dove la luce cambia continuamente. “Direi la mattina presto, quando il chiarore inizia a farsi spazio nel cielo. E anche il crepuscolo, l’ora magica in cui le luci collidono le une con le altre”. Che bel modo di dirlo: si torna al linguaggio che porta avanti le cose. “In irlandese c’è una parola stupenda per quel momento dopo il tramonto in cui l’oscurità a poco a poco si espande: gloaming”. Lo scrive su un foglio di carta, cancella, lo scrive meglio. “È l’ora in cui escono gli spiriti. E ha assolutamente a che fare con il mio mestiere: ovvero la luce, il buio, e il caos che c’è in mezzo”. Questa sugli spiriti è una risposta che potrebbe dare solo un irlandese. “Credo di sì. È una cosa che ci influenza molto [23]. Quei momenti di confine sono anche le ore in cui mi sento più vivo e più lucido» (Pellas, 2021).

Solo un irlandese poteva associare al crepuscolo l’ora in cui risorgono gli spiriti e tornano a popolare il mondo. Solo un autore del calibro di Colum McCann poteva distillare da una vicenda così tragica e opprimente un balsamo atto a lenire le ferite. Forse così potremo recuperare le forze e non soccombere alle spinte che generano il caos della tempesta perfetta e ritrovare in noi stessi e negli altri l’anelito a superare le barriere dell’egoismo e delle diseguaglianze e ritrovare le piste di un cammino di solidarietà e di pace.

Per intanto, registriamo la ripresa delle azioni congiunte di pace promosse da militanti israeliani e palestinesi [24]. Siamo consapevoli di quanto sia difficile il loro attivismo in condizioni così seriamente perturbato da quanto accade in tutti i territori occupati:

«La strada che collega la città di Betlemme alle porte di Gerico è un percorso ad ostacoli, tra colonie che divelgono le valli, posti di blocco e filo spinato. D’altronde la frammentazione dell’unità territoriale è uno degli strumenti favoriti dell’occupazione: è veloce ed economica. Qui, israeliani e palestinesi si sono dati appuntamento per la prima manifestazione congiunta nella Cisgiordania occupata dall’inizio della guerra a Gaza. «Chiediamo la fine dell’occupazione militare e una soluzione politica immediata per tutti gli abitanti che vivono dal fiume Giordano al mare», dichiara Jamil Quassas, 53 anni, attivista palestinese del campo profughi di Dheisheh e tra gli organizzatori della manifestazione. «Le persone hanno paura di prendere parte in qualsiasi azione politica. Ieri sera l’esercito israeliano ha fatto irruzione a casa di Karim (nome di fantasia, ndr) a Ramallah interrogandolo per ore, volevano sapere dove si sarebbe svolta la manifestazione, dopodiché gli hanno vietato di presentarsi qui oggi». Lo stesso è accaduto ad uno degli organizzatori israeliani, «ma sono i palestinesi a subire le ripercussioni più violente, soprattutto quando si tratta di azioni politiche – specifica Jamil – per noi potrebbe significare mesi di prigione». La manifestazione è stata promossa da storiche sigle israeliane e palestinesi che lavorano insieme per la fine dell’occupazione militare e del regime di apartheid. Ad aprire le fila sono Combatants for Peace, l’organizzazione di ex combattenti israeliani e palestinesi, e Mesravot, l’associazione dei giovanissimi israeliani obiettori di coscienza che rifiutano di prestare servizio nell’esercito»[25] (Meghnagi, 2024).

15522Non è vero che è tutto perduto: se anche in un contesto di guerra spietata e carneficina, come quella che squassa Gaza e gli altri territori occupati, non si spengono le voci di pace e israeliani e palestinesi riescono, sfidando la repressione delle forze dell’ordine, a darsi appuntamento e muovere i propri passi insieme, vuol dire che la pianta della convivenza ha radici forti in questa terra che potremo, per questo, continuare a chiamare santa.

Lo strappo e il rammendo

Anche se la trama e l’ordito della nostra relazione col mondo si vanno sfilacciando sempre più per effetto del turbinio dei processi politici, economici e culturali, attivati da quella che abbiamo chiamato ‘tempesta perfetta’, se poniamo attenzione, si scoprono i germogli di una nuova umanità, più consapevole, più solidale, più accorta nel preservare il proprio ambiente di vita. Si impone, però, una lunga, paziente e delicata opera di rammendo delle reti umane di pace e cooperazione.

Da dove iniziare? L’opera di McCann, Apeirogon, suggerisce percorsi importanti da intraprendere per ripristinare forme di convivenza sostenibili tra gli esseri umani e tra questi e il loro ambiente: la prima punta a preservare le relazioni di prossimità (familiari, amicali, di piccole comunità) soprattutto in contesti urbani e territoriali sconvolti dalle guerre, dall’emergenza di autoritarismi, sovranismi e suprematismi, da laceranti esperienze migratorie, da una troppo blanda resistenza opposta agli irruenti fenomeni di cambiamento climatici in atto; la seconda tende a rinvigorire le pratiche di ascolto e a valorizzare la pluralità delle prospettive del nostro sguardo sul mondo, suggerite dal riferimento a un poligono che si approssima al cerchio, in cui è inscritto per la vertiginosa numerosità dei suoi vertici; e la terza, infine, rilancia la ricerca di una nuova armonia tra la preziosa biodiversità, minacciata dal sistema economico dominante, e le variegate forme dell’agire umano sul mondo.

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] La tempesta perfetta (The Perfect Storm) è un film del 2000 diretto da Wolfgang Petersen.
[2] Il primo a parlare di “guerra mondiale a pezzi” è stato, come sappiamo, papa Francesco.
[3] Testimonianza raccolta da Anna Lombardi e pubblicata su la Repubblica del 28 gennaio 2024:.3.
[4] In effetti, non dimentichiamolo, perché sul piano simbolico è estremamente importante, oltre alle Torri Gemelle, era stato colpito anche il Pentagono, cioè la sede del potere politico e militare.
[5] In inglese Rogue State e Axis of Evil. La prima espressione pare sia stata coniata da Ronald Reagan a proposito della Libia di Gheddafi e poi fatta propria da George W. Bush, che volle renderla più estensiva con l’adozione nel 2002 della nozione di Axis of Evil riferita all’Iraq, all’Iran e alla Corea del Nord.
[6] Per il pubblico italiano una specie di incrocio tra Silvio Berlusconi e Beppe Grillo.
[7] Val la pena di ricordare che Joe Biden è un politico di lungo corso: senatore dal 1973 (più di cinquant’anni fa) e alla Casa Bianca dal 2009, prima come Vicepresidente, poi come Presidente (naturalmente con l’intervallo del quadriennio della Presidenza Trump).
[8] Omaggio ad Andrea Purgatori.
[9] Si tratta di Algeria, Arabia Saudita, Argentina, Bangladesh, Bahrein, Bielorussia, Bolivia, Cuba e tanti altri.
[10] Sul significato della sentenza dell’Aja Paola Caridi ha scritto una delle sue pagine fulminanti (2024). Mi limito a sottolineare la coincidenza temporale con le accuse dello stato di Israele nei confronti dell’UNRWA, che ha avuto come conseguenza il ritiro dei contributi ad esso destinati da parte di numerosi stati occidentali, tra cui gli Stati Uniti e l’Italia. La popolazione di Gaza, coinvolta in una gravissima crisi umanitaria, si è vista privata di punto in bianco di un prezioso strumento di sostegno alle famiglie (Valdambrini, 2024).
[11] Secondo la Cassazione, il saluto romano è reato solo se implica l’apologia del Fascismo e il rischio concreto di ricostituzione del partito fascista. Si è lasciato così ai singoli magistrati l’onere di giudicare caso per caso e di soppesare complessi fattori contestuali, cosa estremamente problematica in sede giudiziaria.
[12] Altri 30.000 si sono riuniti a Friburgo che rappresenta il perfetto campione della città media-tedesca. Qui, nel cuore della Foresta Nera, sono scese in campo contro i neofascisti più di 300 organizzazioni tra cui, proprio come a Berlino, la locale squadra della Bundesliga. La chiamata è venuta dai sindacati quanto dai pulpiti delle chiese e la manifestazione è partita dalla piazza della Vecchia Sinagoga. Stessa organizzazione ad Augusta, in Baviera: oltre 25.000 ieri hanno paralizzato la città al punto che l’area del Municipio è stata transennata e la polizia è stata costretta a liberare in tutta fretta le vie laterali per permettere l’enorme afflusso” (Hensel, 2024).
[13] Un pensiero grato va a Loredana Fornasir e Andrea Franchi, che insieme a tanti altri volontari hanno trasformato Trieste in un luogo dell’accoglienza, malgrado l’indifferenza e l’ostilità delle istituzioni pubbliche nazionali. Anche Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, ha dedicato dal 13 al 15 febbraio 2024 tre puntate di Caro Marziano, la sua fortunata trasmissione televisiva, al tema della Rotta Balcanica.
[14] «Negli uffici del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) Gianfranco Schiavone non riesce a trattenere la rabbia davanti alle cifre: “Ci sono 420 richiedenti asilo che attendono un alloggio. Da un anno e mezzo vivono abbandonati in strada”, afferma ripetendo i dati pubblicati su “Vite abbandonate”, il rapporto sulla situazione dei migranti in arrivo dalla rotta balcanica. […]. Secondo le stime dell’Ics una percentuale compresa tra il 65 e il 75 per cento dei migranti che arrivano a Trieste riparte, mentre il resto presenta richiesta d’asilo. Secondo le regole in vigore in Italia, i richiedenti devono essere ospitati nei centri di prima accoglienza in attesa che le commissioni territoriali esaminino la loro pratica. L’Ics gestisce due di questi centri a poche centinaia di metri dalla frontiera slovena. I migranti dovrebbero restarci per qualche giorno, per poi essere trasferiti in altre regioni dove si trovano centri destinati a permanenze più lunghe. Tuttavia, non essendoci una ridistribuzione rapida, i centri di prima accoglienza sono sempre pieni e i nuovi arrivati sono costretti a stare in strada. Possono contare solo sugli alloggi d’emergenza, che però sono già occupati dai senzatetto. Nella stessa Trieste i circa 1.200 posti letto a lungo termine destinati ai richiedenti asilo sono tutti occupati. “Non stiamo parlando di quattrocento persone arrivate in una giornata che mettono in difficoltà il sistema di accoglienza”, sottolinea con rammarico Schiavone, “ma di piccoli gruppi abbandonati volontariamente in strada. Giorno dopo giorno il loro numero aumenta e queste condizioni di vita spingono i migranti ad andarsene. Il primo obiettivo del governo italiano è ridurre al minimo il numero di richiedenti asilo presi in carico dallo stato. Il secondo, più politico, è di creare tensione nell’opinione pubblica, di offrire l’immagine di centinaia di migranti in strada per far pensare che siano troppi e che l’Italia sia stata abbandonata dall’Europa» (Debarge, 2024: 33)
[15] Anche nel recente Summit Italia-Africa tenutosi a Roma a fine gennaio abbiamo assistito a una passerella di leader africani, tra cui spiccava la presenza di alcuni impresentabili come…
[16] La procedura promossa dalla Camera a maggioranza repubblicana nei confronti del Segretario per la Sicurezza nazionale, Alejandro Mayorkas.
[17] Il massimo tribunale americano aveva dato ragione al governo federale in una disputa sul controllo di un pezzo di confine col Messico, affermando la supremazia delle leggi nazionali su quelle statali.
[18] Omaggio a Vittorio Arrigoni, che ere solito chiudere con questa frase i suoi pezzi per Il Manifesto.
[19] Tale gesto dell’andare in cerca, racimolare e conservare è ciò che Annibale Raineri chiama – se ho ben inteso – agire profetico nel tempo della catastrofe nel suo Ancora. Cambiare il mondo nel tramonto della politica (2022).
[20] Si può rintracciare una sintesi di tale evento in rete, inserendo i nomi dei protagonisti, Yigal Elhanan e Araab Alamin.
[21] Nurit Peled-Elhanan è una filologa, traduttrice e attivista israeliana, docente di lingua e educazione all’Università di Gerusalemme. Tra le sue opere ricordiamo La Palestina nei testi scolastici di Israele (2021).
[22] Cerimonia funebre.
[23] In un’altra intervista rilasciata da Colum McCann a Riccardo Michelucci de Il Manifesto alla domanda se nascere e crescere in Irlanda ha influenzato il suo punto di vista nei confronti del conflitto israelo- palestinese, risponde così:
“Sicuramente. Anzi direi che crescere in Irlanda ha condizionato la mia visuale sul mondo. Da ragazzino andavo spesso in Irlanda del Nord con mia madre. Dovevamo spostarci attraverso i checkpoint e sapevamo bene qual era il significato della parola ‘occupazione’. Ho imparato anche molte cose riguardo la lingua, le menzogne e le mezze verità. Anche studiare il processo di pace anglo-irlandese è stato molto importante.” (Michelucci, 2024)
E di fronte all’osservazione che non capita spesso che uno scrittore incontri i suoi personaggi nella realtà, con naturalezza constata: «Rami e Bassam mi hanno spalancato il cuore dal primo momento in cui li ho incontrati. Mi hanno letteralmente lasciato senza fiato. Non esagero se dico che le loro storie mi hanno cambiato la vita. Ho ritenuto importante modellarle in un romanzo piuttosto che in un saggio perché volevo andare al di là dei fatti e delle cifre per cercare di coglierne l’aspetto umano» (Michelucci, 2024).
[24] Segnaliamo altresì che nello stesso giorno in cui si è svolta la manifestazione, altri due fatti incresciosi sono intercorsi: Il ministro dell’Energia israeliano ha annunciato la firma di una convenzione con cui Eni e altre società internazionali e israeliane hanno ottenuto la licenza per sfruttare il giacimento di gas offshore di fronte Gaza (Negri, 2024); La piccola Hind Rajab, scomparsa da 12 giorni, è stata ritrovata morta insieme ai due paramedici mandati a salvarla. Come giudicare alla luce del secondo evento richiamato in questa nota il cinismo dell’Azienda Nazionale Idrocarburi intenta a dividersi le spoglie della Palestina, con il silenzio complice dell’attuale governo italiano, mentre il micidiale attacco delle truppe israeliane a Gaza è ancora in corso (Giorgio, 2024).
[25] Nel messaggio che accompagna l’invito a partecipare alla manifestazione si legge «vogliamo il tutto per tutto: ostaggi israeliani in cambio di prigionieri politici palestinesi, la fine della guerra a Gaza e dell’occupazione, una soluzione politica, giustizia e libertà per israeliani e palestinesi». «Abbiamo usato il passaparola e scelto di non pubblicizzarla sui nostri canali ufficiali per garantire per quanto possibile la sicurezza di tutti» dice Yeheli Cialic, 24 anni, attivista israeliano e coordinatore di Mesravot. Dal 7 ottobre infatti la persecuzione politica contro i palestinesi, così come nei confronti di alcuni ebrei israeliani che si oppongono alle politiche di Tel Aviv ha raggiunto picchi drammatici. Adalah, il centro legale palestinese per i diritti umani con base a Haifa, ha presentato diverse petizioni alla Corte Suprema, per contrastare il clima di repressione e i divieti imposti della polizia, ma «appare evidente che la violenza dipende dall’identità politica delle persone e dagli slogan, infatti i manifestanti che stanno bloccando gli aiuti umanitari al confine di Gaza rimangono impunti, è una vergogna», aggiunge Yeheli. Nonostante il clima di repressione, la manifestazione ha visto la partecipazione di oltre 500 persone, tra cui anche alcuni dei famigliari delle vittime di parte palestinese e israeliana» (Meghnagi, 2024).
Riferimenti bibliografici
Abdolah, K., Le Mille e Una notte, Milano, Iperborea, 2023.
Armao, F., Capitalismo di sangue. A chi conviene la guerra, Roma-Bari, La Terza, 2024.
Arrigoni, V., Gaza. Restiamo umani, Genova, Manifestolibri, 2011.
Banerjee, B., Saaliq, S., Pathi, K., “Modi celebra il trionfo del suprematismo indù” in Internazionale, n. 1547, del 26 gennaio 2024: 28-29.
Bussard, S., “Democrazie deboli in Sud America” in Internazionale, n. 1548, del 2 febbraio 2024: 28.
Candito, A., “Ultima fermata Trieste” in Longfom de La Repubblica del 28 gennaio 2024.
Caridi, P., “La pietra miliare de l’Aja” in Centro per la Riforma dello Stato del 2 febbraio 2024.
Caujolle, C., La marcia delle acque” in Internazionale, n. 1547, del 26 gennaio 2024: 64-69.
Debarge, C., “Il governo non aiuta i migranti arrivati a Trieste, in Internazionale, n. 1548, del 2 febbraio 2024: 32-33.
De Santoli, L., “La COP 28 non pone limiti ai combustibili fossili e rallenta le rinnovabili” in Il Manifesto del 7 dicembre 2023.
Esposito, F. “Un accordo al ribasso, denuncia lo scienziato Mario Tozzi” in ZetaLuiss del 13 dicembre 2023.
“Ghiacciai senza tappo” in Internazionale, n. 1547, del 26 gennaio 2024: 98.
Giorgio, M., “Rafah, 600.000 bambini nella tendopoli. E l’Egitto alza il muro” in Il Manifesto dell’11 febbraio 2024.
Gross, D., “Apeirogon. Il dolore di due padri” in Doppiozero, 13 aprile 2021.
Hensel, J., “Un piccolo miracolo della democrazia” in Internazionale, n. 1547, del 26 gennaio 2024: 18-19.
McCann, Apeirogon, Milano, Feltrinelli, 2023.
Meghnagi, M., “Per ostaggi e cessate il fuoco ‘Lottare insieme è possibile’ ” in Il Manifesto dell’11 febbraio 2024.
Merlo, “La rabbia dei trattori spaventa Bruxelles, che allenta le regole” in Il Manifesto del 1 febbraio 2024.
Michelucci, R., “Lo scrittore McCann: racconto due padri, israeliano e palestinese, uniti dal dolore” in Il Manifesto del 1 giugno 2021.
Negri, A., “Sull’ENI a Gaza il silenzio complice del governo Meloni” in Il Manifesto dell’11 febbraio 2024.
Peled-Elhanan, N., La Palestina nei testi scolastici di Israele, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2021.
Pellas, F., “La scrittura del caos: intervista a Colum McCann” in Il Foglio del 23 ottobre 2021.
Raineri, A., Ancora. Cambiare il mondo nel tramonto della politica, Palermo, Navarra Editore, 2022.
Sonnet, La città dove ogni uomo è nato, Bologna, Marietti1820, 2023.
Strazzari, F., “L’inevitabile guerra che ci aspetta” in Il manifesto del 2 febbraio 2024.
Taylor, A., “Lode dell’incertezza” in Internazionale, n. 1547, del 26 gennaio 2024: 90-95.
The New Arab, “Israele contro l’Agenzia per i rifugiati palestinesi, in Internazionale, n. 1548, del 2 febbraio 2024:22-23.
Valdambrini, A., “Lazzarini dell’Unrwa a Bruxelles risponde sulle accuse e chiede fondi” in Il Manifesto del 13 febbraio 2024. 

Appendice

Carceri e luoghi di detenzione in Europa
Adriano Sofri “Non chiedetevi perché Ousmane si è ucciso, ma perché gli altri sono ancora vivi” su Il Foglio dell’8 febbraio 2024
«Ho letto tutto quello che trovavo sul ventunenne Ousmane Sylla, tanto. Ho letto Annalisa Camilli,, su Internazionale. Ieri, su il Manifesto, a firma di Giansandro Merli, un ennesimo articolo sul suo soggiorno italiano, che è inevitabile descrivere come un calvario dalle stazioni via via più precipitose, fino al messaggio ultimo. Una vittoria esemplare dei nemici delle migrazioni: arrivato fin qua, nel modo in cui si arriva dalla Guinea o dal resto del mondo, desiderava più di ogni altra cosa di tornare a casa sua, a casa di sua madre. Anche questo era impossibile, ho letto, perché aveva ricevuto un decreto di espulsione, ma il rimpatrio in Guinea non è autorizzato da un accordo. Se non lui, la sua spoglia poteva sperare di tornare a sua madre, l’ha scritto su un muro prima dell’alba e si è impiccato.
Ho pensato e scritto innumerevoli volte che coloro che sono addestrati e pagati per occuparsi di questi disastri dell’umanità, e tutti gli altri che se ne occupano gratuitamente perché sono restati umani, non dovrebbero interrogarsi tanto sulle ragioni che hanno spinto Ousmane Sylla a uccidersi; dovrebbero chiedersi soprattutto come mai tante altre e altri come lui non si uccidano. E’ questo a stupire. La mia raccomandazione è ignorata, o tutt’al più messa in conto a un gusto per il paradosso. Imbecilli. Autori e complici di un sistema paradossale teso ad annichilire il senso della vita e a rendere desiderabile la morte. Si chiede loro di spiegare i troppi suicidi in carcere: spieghino come mai tanti altri non si suicidino.
E tuttavia, inetti come sono a riconoscere il proprio paradosso, alla fine, quasi senza volere, senza sapere, lasciano trasparire la verità. “Sulla morte di Ousmane è stata aperta un’istruttoria per istigazione al suicidio”. Un dovere d’ufficio, un mero passaggio burocratico. Basterebbe che ripensassero al senso delle parole. Queste carceri istigano al suicidio, e occorre una tempra di acciaio o un’anestesia totale per sottrarvisi. Il Centro per il Rimpatrio dei migranti (Cpr) è un luogo concepito per istigare al suicidio. Non ha nemmeno il vecchio alibi carcerario di punire qualcosa, qualche reato, qualche trasgressione. Punisce la colpa di esserci, e di essere arrivati fin là. Poi ti dà, grazie alla strage di Cutro, ben diciotto mesi per portare a compimento la finalità d’istituto. Si apra un’inchiesta sui prigionieri del Cpr che, pazzi, non si sono ancora ammazzati, e che, valli a capire, all’alba, quando hanno trovato Ousmane e hanno letto il suo saluto sul muro, mettono a fuoco la parte di mondo cui sono riusciti ad arrivare da tanto lontano».
Dopo un anno siamo ancora qui”:
Il diario di Ilaria Sulis, pubblicato in esclusiva da La Repubblica
«È una tiepida mattina di inizio febbraio: l’aria quasi primaverile e il cielo terso. In giornate come questa scendere a passeggiare all’aria può essere esercizio molto salutare. Mentre si cammina in su in giù la testa a volte inizia viaggiare, lontano, fuori dalle gabbie, si rischia di prendere il volo e di provare sensazioni che sanno di libertà. Inebriata da quest’ossigeno, mentre il mio animo fluttua sospeso a mezz’aria, mi concentro cercando di ricordare e trattenere sensazioni per me ormai lontane: il profumo dell’erba, il tocco lieve di una carezza. Tornata nella cella, prendo in mano un pacco di scartoffie. Sono appunti, ricordi sparsi, lettere che non ho mai potuto spedire risalente a circa un anno fa, ossia i giorni in cui è iniziata la mia discesa in questo mondo infero. Dopo un anno provo a leggere, scrivere, scomporre e ricucire questi materiali.
11 febbraio 2023. Teve Utca. Quando il furgone si ferma nel parcheggio della Questura, la sera inizia ad avvolgere i palazzi. “Antifa? Duce! Mussolini!” – questa è l’accoglienza che ricevo nell’atrio e sono anche le ultime parole che riesco a comprendere prima di essere travolta dalla Babele ugro-finnica. Nell’ufficio nessuno sembra preoccuparsi del fatto che sono ancora ammanettata stretta dietro la schiena, ma in compenso continuano a ripetere una sola parola: “Anya? Anya?” e mi fissano come se si aspettassero da me una risposta. Chi potrebbe immaginare che in ungherese “anya” significa “mamma” e che il nome della madre in Ungheria è un elemento fondamentale per identificare le persone al pari della data di nascita?
Poi i ricordi si fanno concitati. Tre giorni di fermo e spostamenti ripetuti: Cegléd e poi di nuovo Budapest. Il tribunale e mi mandano in galera. Davvero, ga-le-ra.
14 febbraio 2023. Nagy Ignac utca. La città, i palazzi, il fiume, il cielo…tra poco tutto questo sparirà e si materializzerà davanti ai nostri occhi un altro mondo infero e dimenticato. Il fragore della carraia che si apre lentamente
“Per me si va nella città dolente” e noi entriamo a piedi. Sostiamo a lungo nell’androne: le guardie della scorta devono depositare le armi e le interpreti i telefonini. Mi invade un vuoto prepotente e il tempo inizia a dilatarsi. I colori tetri e stinti, la penombra, l’aria viziata, latrati dei carcerieri, i rituali di ingresso: tutto questo spettacolo rimarrà impresso con tinte sinistre dentro di me. Guardo gli occhi, il volto di chi si trova a varcare l’infausta soglia al mio fianco: sono lo specchio della mia inquietudine, del mio smarrimento, delle mie paure.
Si compie il rituale di depositare gli oggetti personali e i polsi sono finalmente liberi dal freddo delle manette. Attraverso un cortile dove si trova un folto gruppo di prigionieri uomini, in fila mentre aspettano di salire su un autobus: i loro sguardi sono persi e vuoti e i loro corpi sembrano ondeggiare come fragili foglie al vento. Ogni passo, che mi spinge più in profondità in questo tartaro, è un passo che non vorrei compiere mai. L’infermeria è in una penombra quasi spettrale. Mi danno un materasso arrotolato e legato con un lenzuolo (scoprirò in seguito che questa è la forma che il materasso dovrà assumere durante i numerosi cambiamenti di cella). Sostiamo ancora a lungo in un corridoio, mentre per ciascuno si compiono gli ultimi rituali negli uffici. L’urlo assordante di una sirena segna il cambio di turno. Gli uffici chiudono e per interminabili minuti sostiamo ancora immobili, sull’attenti, in corridoio. Anche qui, come già la mattina in tribunale, si aggirano guardie con i volti coperti dal passamontagna. In seguito scoprirò che qui esiste un corpo speciale della Penitenziaria, che indossa un’uniforme paramilitare e un passamontagna nero.
Infine rimango da sola in quel corridoio e aspetto di essere collocata in una cella. Invece mi portano in un cortile e mi mettono di nuovo le manette. Un furgone fa manovra e dicono che devono trasferirmi in un altro carcere a una decina di minuti da lì. È buio pesto, sono sfinita e confusa e mi sembra tutto assurdo. Sembri quel che sembri, non ho molte alternative e mi tocca stare su quel dannato furgone.
Metà febbraio 2023. Gyorskocsi utca. Col buio non si vede quasi nulla da quel dannato furgone, ma dopo un breve tragitto in città ci fermiamo e si sente il rumore di una carraia che si apre. Tiro un sospiro di sollievo: sono arrivata. Qualche mese più tardi scoprirò che la prigione in cui mi trovo è lo stesso edificio del tribunale e che da lì mi hanno portata in un’altra prigione oltre il fiume solo per compiere i rituali d’ingresso, per poi riportarmi indietro. Perdo il conto dei piani di scale, mentre salgo trascino stancamente il materasso arrotolato: non mi è chiaro a quale girone infernale sono stata destinata. Infine si apre davanti a me la porta di una cella.
Per giorni non capisco assolutamente niente di ciò che mi succede intorno. Sono talmente sfinita che mi addormento in continuazione e quando cerco di metter qualcosa sotto i denti vomito tutto all’istante. Sogno tanto e sono sogni davvero coinvolgenti: mi sono sempre libera e in giro per monti, mari e città. Ogni volta al risveglio, nella branda, mi guardo intorno e mi ritrovo mestamente a fare i conti con la realtà: purtroppo era solo un sogno! Capita anche che, al risveglio da uno dei miei meravigliosi sogni, ci sia alla porta una donna che tiene in mano un martello con un lungo manico. Rimango interdetta quando mi sovviene un racconto ascoltato molti anni fa da un amico: nelle carceri si conserva l’antica usanza di battere le sbarre una volta al giorno per verificare che siano intatte. Ci metto un po’ a capire che devo uscire dalla cella per lasciare che si compia il rituale delle sbarre. Le regole e gli usi carcerari sono tutto fuorché naturali e intuitivi. Ne capisco meno di niente e non mi preoccupo più di tanto: è già abbastanza complicato riuscire a sopravvivere.
Quando aprono la porta della cella perché devo andare da qualche parte, io esco e con estrema naturalezza inizio a gironzolare per il corridoio. Ci metto parecchi giorni a capire e interiorizzare che devo fermarmi di fianco alla porta della cella rivolta verso il muro e farmi perquisire. Il tempo scorre in modo molto strano: le giornate non passano più, ma i giorni si susseguono veloci. Non ho mai idea di che ore siano e anche i giorni sono tutti uguali, per cui si rischia di confondersi. Non avendo una matita, nei primissimi giorni faccio un piccolo strappo su foglio di carta tutte le mattine. Mi guardo in quello che probabilmente dovrebbe avere una funzione di specchio, ma, più che riflettere le immagini, in realtà le deforma, e mi dico: “Coraggio, Ila! Sempre a testa alta e con il sorriso. E quando uscirai di qui sarai più forte di prima”.
Nei mesi seguenti mi impegnerò a fondo a onorare questa promessa e a crescere giorno dopo giorno, preparandomi per il momento in cui finalmente tornerò “a riveder le stelle”».

______________________________________________________________

Vincenzo Guarrasi è professore emerito di Geografia presso il Dipartimento Culture e società dell’Università di Palermo. I suoi principali interessi sono stati: la condizione marginale; le migrazioni internazionali; le città cosmopolite. Ha pubblicato numerosi saggi e monografie su vari temi connessi alle dimensioni della geografia urbana e culturale.

______________________________________________________________

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Attualità, Cultura. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>