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La tavola dei cavalieri. Il ricettario di Michele Marceca e la cultura alimentare mediterranea


L'arrivo di San Paolo a Malta (part.): il pozzetto (“buzzuni”) del gelato, Refettorio dei Gesuiti, Leonetti, 1760.
L’arrivo di San Paolo a Malta (part.): il pozzetto (“buzzuni”) del gelato, Refettorio dei Gesuiti, Leonetti, 1760.

di Luigi Lombardo

Le mode alimentari si definiscono in relazione ai gusti delle persone e alla disponibilità di merci e derrate alimentari, dalla cui composizione si traggono gli alimenti, e da qui le preparazioni culinarie. Così è per il dolce, categoria del gusto che include per estensione quei cibi che si impongono per il prevalere, quasi esclusivo, di un solo unico gusto: quello che da sempre si conosce essere “il dolce” contrapposto all’amaro, che nella scala del gusto si situa in opposizione. Amaro è sinonimo di tossico: amaru comu o tuossucu, esprime il legame tra il gusto amaro e la malattia. Non a caso le confetture, all’origine della dolceria, nascono dalla pratica di addolcire le medicine (erbe) amare. Nelle cucine storiche il dolce spesso si accompagnava al salato, come pure all’acre e in rarissimi casi all’amaro, nella ricerca di quei contrasti, su cui la gastronomia storica si è fondata per secoli, almeno fino all’affermarsi della grande cucina francese, che in nome del principio cartesiano di “chiarezza” (clarté), distinse nettamente i gusti, bandendo ogni mescolanza. Fu in questo modo (e siamo nella prima metà del ‘600) che il gusto dolce spiccò, e pasticceria fu sinonimo di dolceria.

I banchetti medievali si aprivano e, più tardi, si chiudevano con un forte consumo di frutta fresca, cotta o candita, confetti, «tragee, pinoccati, bozolati, cotognate» e con un vasto assortimento di semi di zucca o di anice canditi con zucchero. Ề proprio su queste preparazioni che vorremmo soffermarci per ricordare la loro origine araba, come possiamo dedurre da due testi di cucina, opera di cuochi di Baghdad (IX-XII sec.). Qui troviamo le ricette che sono arrivate in Europa attraverso il Mediterraneo, al seguito dei saraceni in Sicilia e dei Mori in Spagna, e che illustrano, oltre alla tecnica di come ricavare lo zucchero dalla canna e di come confezionare i canditi, vari dolci e “pinoccati”, ed in particolare una pasta di mandorle che sta alla base della nostra ricetta del marzapane e un composto di datteri, zucchero, mandorle, pistacchi ed acqua di rose in tutto simile a certe ricette moderne della cucina siciliana. Questo è dato di fatto ormai acquisito in linea di massima, anche se attende ulteriori ricerche e aggiustamenti, e forse addirittura ridimensionamenti, nel senso di precisare meglio il reale peso della cultura “dolciaria” greco romana e bizantina.

Col passare dei secoli la dolceria siciliana si è staccata dalla sua matrice araba e orientale, pur persistendo in essa un sostrato, un “retrogusto”, che incontestabilmente rimanda agli antichi sapori della corte di Baghdad. Tuttavia solo a partire dallo sfruttamento massiccio della manodopera dei neri africani trapiantati in centro e sud America nelle immense piantagioni di canna (cioè dai primi del ‘700) e dalla conseguente produzione “industriale” di zucchero, si può datare l’inizio e la ben connotata vita autonoma del dolce e della branca della cucina definita di “pasticceria”, con cui correntemente si definisce ormai l’arte appunto di manipolare sostanzialmente farina, zucchero, spezie, uova e altro (“pasticciare” però deriva da pasta, e i primi “pastizzeri” erano dei manipolatori di pasta per ricavarne quei pasticci di volta in volta chiamati torte, tortelli, scacciate, schiacciate, scacci, impanati o pastizzi tout court). Il secolo XVIII è l’epoca che vede l’arrivo massiccio non solo di zucchero, che da merce relativamente costosa, quasi una spezia o un prodotto da farmacia, divenne una vera derrata alimentare e sostituì, quasi ovunque, gli altri dolcificanti, primo fra tutti il miele, ma anche di cioccolato, cannella e spezie a relativo basso prezzo, che determinano l’affermarsi di quei consumi di massa, che sono all’origine della cucina, delle ricette e delle mode gastronomiche.

In sintesi dunque due sono i protagonisti di questa nascente branca della cucina fra la fine del ‘600 e il secolo XVIII: il cioccolato e lo zucchero, il primo è una novità assoluta, un prodotto della “scoperta” delle Americhe, il secondo si conosceva, ma era alimento raro, tanto che si vendeva nelle spezierie assieme a medicamenti vari. Due alimenti che il Mediterraneo storico non conosceva, come non conosceva il pomodoro, il peperoncino e tanti altri prodotti che oggi formano la base della dieta paradossalmente detta mediterranea. Ề solo grazie allo sfruttamento delle colonie americane, come detto, che se ne ha una produzione massiccia e di largo consumo. Il cioccolato nel ‘700 è già affermato: come vediamo ad esempio a Siracusa, al punto da determinare la richiesta di aiutanti nelle botteghe di caffetteria, mentre crescono in modo vertiginoso gli acquisti di cioccolato da parte soprattutto della classe patrizia e dei monasteri.

I monasteri sono centrali nella produzione di dolci e nella conservazione e propagazione di antiche ricette. Le monache di casa di Palazzolo Acreide, ad esempio, avevano nel 1622 l’esclusiva nella produzione di alcuni dolcetti, divenuti col tempo popolari, quali «caseate e sfoglie di manteca», per provvedere col guadagno al «loro honesto vivere». I segreti della dolceria sono stati per secoli di pertinenza di monache di clausura o di bizzocche di casa. Ma errato è credere che solo col 1860 si ha la “liberalizzazione” dei vecchi ricettari e dunque dei segreti delle monache: altri canali di trasmissione esistono della cultura alimentare. Uno di questo è la nascita delle popolari caffetterie (a Siracusa, a Catania, a Trapani, a Palermo, come ovunque). Le aprivano esperti dolcieri, che erano stati al servizio di cuochi e pasticcieri nelle case patrizie. In esse si consumavano gli splendidi sorbetti, invenzione tutta siciliana.

Il popolare mondo delle caffetterie si afferma nel ‘700, sulla spinta della ormai diffusa bevanda nera (il caffè), ad assecondare ed in certo qual modo determinare una produzione dolciaria varia e ricca che arrivava a tutte le classi sociali. Ecco nascere così quel mondo di caffetterie, che erano anche “ciculatterie” (grazie all’altrettanto massiccio arrivo di cioccolato), dove si offrivano dolci preparati nei laboratori dai confettieri, eredi dei cubaitari (come si definivano i dolcieri fino al tardo ‘600 e gli specialisti di confetture di frutta), che si affiancavano alle cosaruciari, donne che preparavano dolci in casa per la vendita, o alle monache dei conventi (di clausura e non). Il secolo XVIII, e precisamente il 1748, è l’epoca in cui viene compilato il “Ricettario di Malta”, un manoscritto conservato nella National Library di Malta. L’autore è Michele Marceca, di cui si sa poco. Si suppone da parte di studiosi maltesi che fosse un dolciere, un confettiere maltese. Tuttavia sulla scorta di una serie di occorrenze “onomastiche” lo collocherei in Sicilia, in provincia di Ragusa, più precisamente a Vittoria, città facente culturalmente parte della Contea di Modica.

Non a caso oggi Modica è per ciò che riguarda il cioccolato una sorta di isola gastronomica, un vero crocevia di esperienze dolciarie mediterranee. Qui si conservano specialità dalle origini antichissime come la cetrata (petrafennula), l’aranciata e la cubaita, o persiste una lavorazione del cioccolato certamente originale e che si lega strettamente alla ricchezza delle manipolazioni del dolciere Marceca.

 

Il cognome Marceca è tuttavia abbondantemente attestato a Trapani: nel 1757 un Paolo Marceca era console della Artis cerdonum, cioè l’associazione dei conciatori di pelle. La presenza di abili gelatai e sorbettieri, oltre che di maestri dolcieri, è registrata in questa città, per certi versi simile a Siracusa e alla Valletta (città di mare, sedi della piazze militari). A Trapani nella seconda metà del ‘700 sono attestate le caffetterie: nel 1786 ad es. viene compilato l’inventario della caffetteria di Gaspare Nasta sita nella Strada della loggia: vi erano diverse forme di ghiaccio, “quattro di cassati di lanna, due feddi di milone di lanna, due spezzaghiaccio, un lambicco con suo cappello, tre caffettiere e due ciccolatere, un attorratore di caffè, tre crivelli per colare sorbetta, centoquarantotto bicchieri di sorbetta e sedici di rosoli, libre 80 di cioccolatte cioè 50 fina e 30 ordinaria”. In questa città s’era formata una vera scuola di mastri dolcieri e gelatai al punto che un cittadino trapanese, trasferitosi a Napoli, tale Ignazio Tarantino, può insegnare a Nicola Dajta (forse un dolciere alla corte del nobile Girolamo Filangeri di Cutò) “a manipolare, comporre tutte quelle sorte di sorbetti, dolci e tutt’altro [...] con dovere oltremodo detto di Tarantino consegnar successivamente a detto di Dajta la ricetta ossia la forma scritta … per sua intelligenza e memoria in futuro [...]”. Nel documento di grande interesse è la “nota di dolci di tutta sorte”, dove è possibile riscontrare delle ricette assai simili a quelle del nostro Marceca. Come si vede i dolcieri viaggiavano con i loro segreti ( o secreti), come fece probabilmente il dolciere siculo maltese Marceca.

In attesa di dati biografici e archivistici più certi, non siamo comunque lontani dal vero quando affermiamo che il Marceca potrebbe essere un esperto dolciere siciliano, passato a Malta dove volle mettere a frutto il proprio sapere e la perizia tecnica in fatto di liccumiei, cosi licchi. D’altronde i legami fra la Sicilia, Malta e altri Paesi mediterranei, erano strettissimi da antica data. I Normanni unirono ancor più l’isola alla Sicilia. Il commercio fra Siracusa e Malta, o fra Trapani e Malta, era continuo e intenso: giornalmente decine di tartane, sagitte, speronare, feluche e vascelli vari percorrevano la rotta da e per Malta imbarcando e sbarcando merci le più varie. Da Siracusa partiva soprattutto vino, cereali, carbone, neve, da Malta cotone, alcune particolari stoffe e animali da soma soprattutto asini. Intenso lo scambio commerciale per la presenza nelle due isole di Ebrei, fra loro spesso imparentati, e questo almeno fin dal XV secolo. Uomini e donne siracusani si stabilirono a Malta a seguito soprattutto dell’arrivo dei Cavalieri di S. Giovanni sull’isola nel sec. XVI. E fu proprio la presenza dei Cavalieri a determinare, fra le altre cose, la pratica di una cucina di alto livello con l’impiego di cuochi e pasticcieri provenienti da Catania, Siracusa o Trapani.

Uno di questi poteva essere, come detto, appunto il Marceca, autore del Manoscritto di Malta che ha per titolo Libro de’ secreti per fare cose dolci di varjj modi, compilato nel 1748, probabilmente pronto per la stampa. Appunto segreti: quelli dei dolcieri rivelati a tutti (o quasi), comunque trasmessi a qualcuno, anche se non dati alle stampe. Malta non era nuova a questa produzione letteraria “gastronomica”: ricordiamo che nel 1658 Gian Francesco Buonamico, medico maltese, scrisse (ma non pubblicò) un Trattato della cioccolata, a testimonianza dell’uso del cioccolato nell’isola ad opera dei Cavalieri e degli ordini religiosi (i Gesuiti soprattutto). Anche di questa opera si conserva il manoscritto a Malta e si spera che il suo scopritore provveda alla pubblicazione.

Tornando al nostro manoscritto, esso precede di alcuni anni il trattato dello spagnolo De la Mata su “Arte de reposteria”. Non so quali relazioni vi fossero fra i due autori e le loro opere: certo che delle assonanze sono rintracciabili. Ne lancio una: entrambi forniscono le ricette di “pupi di zucchero”: il Marceca lo fa al n° 113 col titolo Modo di fare statuette, il De La Mata a p. 153 col titolo Modo de hacer las figuras de azucar. Più complessa la modalità di esecuzione dello spagnolo, più semplice quella del Marceca, in linea con la preparazione classica dei pupi a cena siciliani. Naturalmente tutt’altro che quello folklorico è l’uso che i due dolcieri fanno delle statuette. Come è noto esse decoravano i trionfi di tavola nei banchetti di corte.

Il manoscritto di Marceca riporta un numero molto elevato di ricette per gelati e acque “aggiazzate”, al punto da potersi considerare il primo e più ricco trattato di gelateria europea. Dieci anni dopo, a Barcellona, Juan Altamiras pubblicherà il Nuevo arte de cocina, ricca trattazione culinaria che, però, contiene solo le ricette di quattro granite (limone, cannella, mandorla, mandorla e cannella) e di un solo gelato (latte alla cannella). Il primo trattato francese sui gelati è L’Art de bien faire les glaces d’office di Emy, stampato a Parigi nel 1768. Che, nel resto d’Europa, ancora nel 1770 la gelateria non producesse raffinate elaborazioni, stando al Voyage di Brydone, lo prova lo stupefatto comportamento degli inglesi di fronte alle imitazioni di frutta loro servite in Sicilia. Non c’è da sorprendersene se si conosce che, ancora nel 1760, Hannah Glasse nel suo Compleat Confectioner, per confezionare il gelato ricorre a tecniche grossolane, facendo mescolare dei succhi di frutta a della panna liquida (cream), aggiungendo ghiaccio e una manciata di sale.

Il ricettario del Marceca insegna a preparare: torroni, biscotteria, caramelle e pasticche, confetti e dolci al cucchiaio, torte, sciroppi, canditi, gelatine e conserve, composte, liquori, gelati e sorbetti; mentre non mancano i consigli utili sul “Modo di fare acqua di zagare, Modo di fare acqua per lavarsi le dame, Per chiarificare il vinacio, sul Modo di fare la cera per siggillare”.

La verità è che il prezioso manoscritto del Marceca è testimone di una koinè culturale, che ha a suo fondamento sia la cultura greco-romana, che la raffinatissima tradizione culinaria orientale: una cultura alimentare che viaggiava per il Mediterraneo, portata da siciliani, spagnoli e francesi, in giro per il mondo, ricca di contaminazioni e al contempo capace di forza egemonica e propulsiva. In questi fenomeni di migrazione la produzione dolciaria ha esercitato un ruolo centrale.

Ha ragione una delle maggiori esperte di culinaria che vanti la Sicilia, Giuliana Condorelli, quando scrive: «Il dolce è il primo gusto che l’essere umano percepisce. E’ l’imprinting che porterà per tutta la vita con alti e bassi. Il dolce è consolatorio, favorisce la produzione di endorfine, è facilmente digeribile e predispone al riposo notturno. Cosa ruci, dolcezza, honey, sweetheart, mon petit choux, sono tutti appellativi per la persona amata. Nell’immaginario il dolce è sempre édulo, si dice dolce come il miele e amaro come il veleno: il Creatore nella sua perfezione ha reso amaro tutto ciò che è tossico o velenoso per scoraggiarne l’uso».

Dialoghi Mediterranei, n.3, agosto 2013

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4 risposte a La tavola dei cavalieri. Il ricettario di Michele Marceca e la cultura alimentare mediterranea

  1. Davide scrive:

    Salve, complimenti per il testo, vorrei sapere dove ai trova il dipinto riportato nella foto del particolare, ho cercato come nella didascalia ma non lo riesco a rintracciare. Grazie per le informazioni

    • Luigi Lombardo scrive:

      Si trova a Floriana, La Valletta, Malta. Un tempo decorava le pareti del Refettorio dei Gesuiti. Oggi si possono visitare chiedendo alla Curia di Malta il permesso. A disposizione per ulteriori chiarimenti
      Luigi Lombardo

  2. Gillian Riley scrive:

    Voglio comprare la publicazione dove si trova il testo del ricettario di Michele Marceca, che mi interessa moltissimo. Sono studiosa della storia della cucina italiana, autore del ‘The Oxford Companion to Italian Food’.

    Non trovo niente su Amazon etc e sono sperduta e disperata. Lei puo aiutarmi?

    • luigi lombardo scrive:

      Gent.ma Signora, ho preso visione della sua richiesta. Il libro non è in commercio, ma si può avere (gratis) scrivendo al Corfilac che ha sponsorizzato lo stesso. Se mi contatta al mio indirizzo mail sarò più preciso.
      Sono interessato alla sua ricerca, per cui lo scambio librario sarebbe una bellissima soluzione.
      Luigi Lombardo
      salvo.lombardo@alice.it

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