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La rivoluzione teatrale di Gabriele d’Annunzio

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G. d’Annunzio parla contro il “giolittismo” nel teatro Costanzi di Roma, maggio 1915

di Giovanni Isgrò

Nel panorama della rivoluzione della scena teatrale in Europa fra Otto e Novecento Gabriele d’Annunzio occupa un ruolo di primo piano, anche se molte delle sue originali e moderne intuizioni non poterono andare oltre la fase progettuale o dovettero fermarsi, il più delle volte, fra le didascalie dei suoi drammi senza che esse potessero effettivamente trovare attuazione concreta, soprattutto per mancanza di adeguati strumenti tecnici.

Pur in assenza di scritti teorici, il contributo innovatore di d’Annunzio è già evidente negli ultimi anni dell’Ottocento, quando in Europa al di là della svolta naturalistica di Antoine, soltanto Appia rivelava la sua vocazione di padre fondatore del nuovo teatro, dedicandosi, ancora sul piano teorico, a risolvere i problemi della messinscena del teatro Wagneriano [1], in particolare per quanto riguarda l’uso della luce in scena e il suo rapporto con la musica.

Il percorso innovatore di d’Annunzio nell’ultimo quadriennio dell’Ottocento è scandito da due orientamenti fondamentali:

a) l’idea del teatro en plein air (con una estensione alla scena urbana) congiunta a quella del “teatro di festa” come recupero del teatro come rito e come energia rifondatrice dell’arte scenica da contrapporre alla routine del teatro borghese e commerciale;

b) la netta avversione alla dominante della scenografia dipinta a favore di una messinscena basata sulla praticabilità degli elementi costruiti e sull’uso “totale” del volume dello spazio scenico. In questo ambito un ruolo primario è quello attribuito alla luce in quanto animatrice dell’azione scenica.

Per quanto riguarda il punto a), un riferimento “indiretto” è costituito dal romanzo Il fuoco. In esso Venezia appare come set di se stessa, ma anche come impianto emblematico per una lettura del teatro festivo urbano. Agli occhi dell’artista l’intera città si presenta come riferimento concreto di impianto scenico corrispondente ad un disegno di spettacolarità all’aperto di vaste proporzioni, godibile con un sol colpo d’occhio nell’insieme e nel dettaglio. A questo livello scenico “reale” d’Annunzio sovrappone gli effetti luminotecnici e pirotecnici della spettacolarità festiva, precisando inequivocabilmente, in questo modo, il ruolo della città/teatro.

La dimensione totale del set urbano e l’idea del teatro/festa che ne consegue, spingono l’artista fino ad immaginare un dispositivo en plein air che non può non configurare inserito e perfettamente integrato nel tessuto monumentale della città e in particolare della città capitale, come contrapposizione massima della civiltà latina rispetto a quella “barbara” e “germanica” di Wagner; vera e propria ara della “liturgia” dell’arte scenica. Nel gigantismo della struttura marmorea consacrata al rito di massa d’Annunzio individua l’espressione vera di un teatro che possa finalmente porre fine alla mediocrità e alla banalità della pratica scenica di routine.

Su questo principio si fonda il pensiero espresso ne La Rinascenza della tragedia, l’articolo pubblicato ne «La Tribuna» (2 agosto 1897), vero e proprio polo ideologico dell’impresa dannunziana, il cui riscontro topografico è realisticamente proiettato sulle sponde del lago di Albano dove d’Annunzio intende realizzare il suo progetto per un “teatro di festa” [2].

In questa circostanza egli prende le distanze dalla tentazione di una imitazione della formula del teatro di Orange (dove aveva già assistito alle rappresentazioni del dramma antico) e dal pericolo della banalizzazione del teatro estivo, rivitalizzando la motivazione antropologica del ritorno della primavera come tempo sacro deputato all’impulso delle energie terresti. Lungi dal lasciarsi impantanare nell’equivoco del recupero archeologico, d’Annunzio, tuttavia, nel momento stesso in cui si oppone alla concezione industriale, urbana e commerciale del teatro a favore di una nuova forma di teatro rituale all’aperto immerso in un paesaggio mediterraneo, anima la sua proposta con una significazione tutta moderna, pur facendo assumere ad essa le spoglie dell’antico.

La connotazione deve essere quella di un teatro nazionale inteso come movimento e stimolo delle nuove forze creative. Al tempo stesso essa si estende alla dislocazione del luogo scenico, emblematicamente vicino alla città capitale e facilmente raggiungibile dall’urbe attraverso un servizio di comunicazione ferroviaria.

Il “teatro di festa” pensato da D’Annunzio si presenta così contemporaneamente con un doppio riferimento: l’arte e il popolo. Una posizione chiara e precisa sul piano programmatico, ancora al riparo da contesti demagogici o da ambiguità politiche che già hanno fatto e faranno la loro comparsa nella confusione di feste e revival del panorama europeo.

1Per quanto riguarda il punto b), l’attenzione rivolta da d’Annunzio al rinnovamento della messinscena è già evidente nei drammi pre-novecenteschi: La Città Morta, Gioconda, Sogno di una mattina di Primavera, Sogno di un tramonto d’Autunno, Gloria. Nelle lunghe didascalie di questi drammi d’Annunzio, superando la convenzione prospettica della scena dipinta a favore della scena costruita su elementi plastici, dà particolare importanza al ruolo della luce in rapporto allo sviluppo del dramma. Praticabilità ed ampio e diversificato uso della luce sono due costanti che D’Annunzio assume come princìpi di base per il suo teatro d’arte per il quale egli cerca una totale armonia fra le diverse componenti della messinscena: dalla scenografia alla luce, alla parola e al corpo dell’attore; vocazione protoregistica, questa, orientata a garantire unità al dramma.

Al fine di illustrare il progetto teorico della messinscena dannunziana di questi anni sarà opportuno prestare particolare attenzione a La Città Morta in quanto presenta tutto l’interesse dell’archetipo in rapporto ai contributi originali dati dall’artista nella storia della scena contemporanea. La novità di D’Annunzio in questa prima proposta di messa in scena è tutta distribuita in due distinti quadri come diversificata presentazione di un medesimo interno, aperto verso un medesimo esterno: quello relativo al I, III, IV atto e quello riguardante il II atto.

Ciò che distingue il primo quadro è la monumentalità dell’insieme, articolata su due piani praticabili, sviluppati orizzontalmente su due livelli di calpestìo. Una stanza vasta e luminosa, dalla quale, su una elevazione di cinque gradini, si alza il piano della loggia che guarda verso lo sfondato esterno raffigurante le mura ciclopiche dell’acropoli di Micene interrotte dalla Porta dei Leoni. L’idea di D’Annunzio è quella di creare attraverso gli elementi costruiti e praticabili una tensione ascendente, rispondente alla sacralità dell’evento, inteso a riproporre la magica scoperta del tesoro degli Atridi come testimonianza risignificante della civiltà classica che torna a rivelarsi.

La monumentale essenzialità voluta da d’Annunzio si contrappone evidentemente ai princìpi della tradizione scenografica ottocentesca. Al posto delle quinte pittoriche, compaiono due elementi verticali solidi: due colonne doriche quasi a incorniciare il secondo livello praticabile, quello della loggia, mentre l’uso dell’architrave sulle due colonne e di un velum nella quota aerea della vasta stanza esclude l’impiego dei soffitti e dei graticci.

La tipologia “esterna” degli elementi della messinscena di questa stanza fuori dai canoni tradizionali, rappresentata dalle strutture architettoniche (le colonne, l’ampia scalinata, la massiccia solidità dell’architrave), oltre ad essere completata in altezza dal gigantesco telo che richiama le suggestioni del velarium dell’edificio teatrale all’aperto di memoria classica, è precisata dalla presenza di calchi di statue, di bassorilievi, di iscrizioni, di frammenti scultorei. L’effetto cercato da d’Annunzio è quello di un’apertura totale verso l’infinita distesa che è al di fuori della stanza, tale da determinare dall’esterno una inondazione di luce. Per raggiungere questo scopo egli stesso interverrà con una lettera inviata a Sarah Bernhardt nel corso dei preparativi della prima messinscena dell’opera a Parigi al teatro La Renaissance. Egli chiede che rispetto alle proporzioni stabilite dagli scenotecnici realizzatori, vengano ulteriormente rialzate le colonne così come anche il velo che ricopre la grande stanza: «[...] puisque dans le premier acte il y a un effect du soleil, presque une inondation de vive lumière, il faudrait óter ce velum qui donne de l’ombre; et en faudrait aussi rendre un peu plus hautes les colonnes pour donner au spectateur une vue encore plus large sur l’Acropole» [3].

Nel secondo atto, analogamente al precedente, si passa, in successione di profondità, dalla situazione di un grande vano, lo studio di Leonardo, a un altro settore praticabile, il balcone, aperto a sua volta verso lo sfondamento visivo a perdita d’occhio della pianura di Argo e delle montagne lontane. Si tratta, ancora una volta, di una significativa ricerca di altri spazi e di altre dimensioni; una sorta di contestazione implicita dello stesso luogo scenico.

La cronaca delle prime rappresentazioni italiane del ciclo prenovecentesco del teatro dannunziano, tutta compresa fra il 1897 e il 1899, conferma lo scarto profondo fra l’idea innovatrice dell’artista e l’inadeguatezza della pratica della messinscena. Del resto, la progressiva maturazione dell’idea del teatro nazionale, nonostante il fallimento del progetto di Albano, pone sempre più d’Annunzio nella determinazione di giungere a soluzioni di grande respiro che solo nei più vasti teatri delle grandi città possono trovare attuazione.

2Al di là dei grandi palcoscenici destinati esclusivamente all’opera lirica, il Costanzi e l’Argentina di Roma e il Lirico di Milano sono i teatri che possono garantire in Italia gli spazi più idonei ai progetti di messinscena di d’Annunzio. Nonostante siano ancora male attrezzati e forniti di dispositivi ormai superati e certamente non in grado di soddisfare le moderne esigenze luminotecniche e scenotecniche, essi offrono all’artista la possibilità di sperimen- tare ed attuare concretamente in qualche modo la sua “rivoluzione“. Mutuando dall’idea della teatralità en pleinair il senso della grandiosità e del gigantismo, d’Annunzio trasforma questi contenitori all’italiana in veri e propri laboratori del kolossal, sia nel senso della macchinistica che in quello dell’impiego delle masse. Lo scopo che egli si pone è appunto quello di dare vita a una volumetria esasperata, attraverso il movimento e l’impiego totale e diversificato dello spazio scenico.

Si potrebbe tracciare un lungo elenco dei criteri comuni che caratterizzano i tre grandiosi allestimenti di Francesca da Rimini, La figlia di Iorio, e La Nave: abolizione delle quinte, praticabilità, scene costruite, ricerca costante del movimento, visto anche come espressione di omogeneità e continuità sia nel senso della progressione temporale che della fluidità spaziale, diversificazione dei piani e delle zone di azione, sia sull’orizzontale e sulla profondità del piano di calpestìo del palcoscenico che sulla verticale del volume di scena sino alla quota aerea, presenza di masse in scena e fuori scena, azioni corali.

Il teatro come set proposto da d’Annunzio diventa così espressione di una concezione rappresentativa “irregolare”, in cui gli statuti della convenzione, compresi quelli del rapporto scena/pubblico e della distanza fra platea e palcoscenico, vengono ignorati. In questo senso d’Annunzio sembra andare in controtendenza rispetto agli altri padri ri-fondatori della scena europea, che cercano di avvicinare quanto più possibile l’azione al pubblico. È il caso di Max Reinhardt che per la messinscena di Edipo al circo Schuhmann di Berlino (1909) progetta una passerella che dal proscenio ravvicinato alla platea penetra nella cavea costruita alla maniera dell’architettura del teatro antico, consentendo al cieco Edipo di venire a contatto diretto con gli spettatori. Ed è il caso del Kunstler Theater di Monaco per il quale George Fuchs concepisce un palcoscenico molto largo (mt. 18) e poco profondo (mt. 8) sì da portare la scena in prossimità degli spettatori. In senso opposto d’Annunzio sembra volere assorbire la platea verso il palcoscenico.

Nel momento in cui il centro dell’azione diventa il centro assoluto, non esiste più alcuna differenza fra presenza o essenza di una platea “regolare”. Questo spiega gli “errori”, registrati già in passato, di una recitazione effettuata nel fondoscena con i problemi di ricezione acustica che ne derivano, ripresi abbondantemente nella Francesca da Rimini fino all’esasperazione massima nel caso del dialogo fra Paolo e Francesca nel II atto, interamente coperto dai rumori della battaglia.

Ne La figlia di Iorio d’Annunzio riafferma la costante dell’eliminazione delle quinte e dell’ideale assorbimento della platea verso l’orizzontale dell’area del palcoscenico più vicina agli spettatori. L’idea della spettacolarità en plein air è confermata inoltre dal tentativo di recuperare la magia e la ritualità di un popolo raccolto intorno all’evento. Ciò consente all’artista dì affrontare lo spazio scenico al di fuori della logica tradizionale, dandogli elasticità e respiro.

Il progressivo inserimento di nuove soluzioni lungo il percorso della rivoluzione del teatro al chiuso fa sì che ciascuna di queste grandi messe in scena novecentesche, per quanto abbia una sua configurazione ben definita, in realtà costituisca la tappa di un percorso orientato verso esperimenti ancora più audaci e più complessi. È così che l’artista individua nell’Argentina di Roma una sorta di luogo deputato della rinascita del teatro.

D’Annunzio, primo sostenitore dell’idea del teatro di massa e all’aperto in Italia, e fra i primi in Europa, arriverà a proporre ufficialmente l’adattamento del teatro Argentina a vero e proprio “teatro di festa”. Lo farà appunto nel 1908, in occasione delle riunioni programmatiche per le celebrazioni del “Natale di Roma” del 1911 [4]. Intanto, per la messa in scena de La Nave ha già incontrato Duilio Cambellotti, lo scenografo che non a caso più di ogni altro farà apprezzare in Italia il suo ruolo innovativo negli allestimenti all’aperto.

3Ciò che fondamentalmente dovette accomunare l’autore e lo scenografo, fu l’idea di affrontare il teatro pensandolo al di fuori dagli schemi abituali: dall’uso degli spazi all’impiego di vere maestranze artigianali e di materiali non convenzionalmente impie- gati per la scena. La tecnica adoperata da Cambellotti si coniugò, nel caso de La Nave, con il proposito dannunziano di fondare l’effetto scenico sullo spirito, per certi aspetti primordiale, della rifondazione di un popolo e della sua città; un accostamento di elementi non finiti ai quali, contrariamente al gusto decorativo di soluzioni precedenti, si contrappose il grezzo spessore delle palafitte, dei ponti, dei pesanti attrezzi dell’arsenale, l’imponenza delle architetture non ancora ultimate.

Il palcoscenico, a sua volta, fu utilizzato al massimo possibile della profondità dello spazio per consentire l’azzardo del varo della nave: uno spostamento sulla verticale dal centro del palco verso la fuga del mare aperto, assolutamente irregolare rispetto all’abituale tecnica in orizzontale dei movimenti dei dispositivi, per risolvere il quale la convenzione della scenotecnica venne rimpiazzata dalla perizia artigiana del fiumarolo Cupellini. Dal momento che il palcoscenico è l’unico spazio nel quale il processo di liberazione totale e di coinvolgimento reale e collettivo deve aver luogo, lo spettatore può avere come unica chance quella di spostarsi e di entrare idealmente in qualche modo nello spazio dell’azione scenica, trascinato emotivamente o/e fisicamente.

Ribadendo inequivocabilmente il principio della scena come centro del mondo, l’impiego delle masse, degli stessi cantori, dei danzatori, complementare peraltro a quello degli artigiani veri, è espressione simbolica del teatro come evento totale, al quale esponenti delle più diverse categorie sociali sono chiamati a far parte. Si tratta di un invito collettivo all’arte, ancora fuori dal teatro, in base al quale frequentatori delle discipline della musica e dello spettacolo vengono direttamente impegnati nella costruzione dell’evento prima e al di fuori di ogni possibile codificazione. Così è per gli allievi della «Régia Scuola di Recitazione », come per le voci bianche delle cappelle romane, mentre per raggiungere il numero di trecento persone in scena vengono coinvolti anche dilettanti, studenti, giovani attori disoccupati, vecchi comici ormai fuori dai ranghi.

Anche se questo lungo salto verso la fuga non consentirà di raggiungere in pieno l’obiettivo, certamente rimane il segno di uno sforzo laboratoriale inusuale, nel quale entrano in gioco tecniche e materiali, uomini comuni e artisti spesso al di fuori dell’istituzione, il più delle volte in una logica “irregolare”, che guarda spesso a contributi “esterni” al teatro, gli unici in grado di consentire, in una dimensione così strutturata quale quella italiana, fenomeni quanto meno di “deformazione” verso un linguaggio di qualità.

Il biennio successivo alla messinscena de La Nave (1908-1910) costituisce, nel tempo della rappresentazione di Fedra, un altro passaggio importante  della molteplice ricerca innovativa di d’Annunzio prima del suo trasferimento a Parigi. Una sperimentazione, quella del Vate, che scorre coevamente all’accelerazione degli innovatori europei della scena in nome del rifiuto di qualsiasi forma di realismo e descrittivismo. Si  va, come è noto, dai maggiori teorici del ritmo e del movimento, Craig e Appia, allo stesso Stanislavskij che  apre proprio nel 1907-8 una pur breve parentesi simbolista, affidando sia i décors di Egorove Oulianov, mentre proprio in questi anni Mejerchol’d, dopo l’esperienza laboratoriale del 1905 al Teatro-Studio, si avvia verso una nuova stagione che lo porterà al costruttivismo. Fuchs a sua volta nel 1908, in occasione della realizzazione del Künstler-Theater di Monaco, perfeziona le sue teorie esposte quattro anni prima in Die Schaubühneder Zukunft (Berlin-Leipzig,1904) a proposito della scena a rilievo. Concordando con la posizione dell’architetto Littman, dà indicazioni precise agli animatori di questo edificio della rifondazione teatrale attraverso la messinscena del Faust, e consente ad Erler di mettere in atto per la prima volta, fra le altre espressioni della sua riforma scenica, i famosi muri scorrevoli dipinti. L’anno successivo dà alle stampe un altro suo fondamentale testo, Die revolution des theater; ed è proprio nel 1909 che arrivano a Parigi i Balletti Russi. In questo sviluppo contemporaneo di idee, Jacques Rouché avvia la collaborazione con talenti della nuova pittura, ponendosi sulla linea di Diaghilev, Stanislavskij, e (sia pure per poco) dello stesso Mejerchol’d, contrapponendosi ad Appia e Craig (e da lì a tre anni anche a Copeau) la cui prudenza verso l’apertura agli artisti della pittura è dettata dal bisogno di proteggere il fragile linguaggio registico.

4A fronte di questo fitto panorama sperimentale del teatro europeo, d’Annunzio, stimolato a sua volta dalle ricerche dell’amico Achille Ricciardi sul teatro del colore portate a termine già nel 1906, immagina di azzerare le sue visioni sceniche precedenti a favore di un’idea di messinscena essenziale, basata sulla parola poetica dell’attore su uno sfondo di altissime tende dalle profonde suggestioni cromatiche associate a ritmi grafici dal valore musicale. Più che un progetto definito è una ispirazione artistica che supera in avanti l’esperimento teatrale della stessa Fedra [5], ultima opera messa in scena prima del trasferimento a Parigi. D’Annunzio stesso in una intervista rilasciata al «Corriere della Sera» del 9 aprile1909 dichiara:

«Ho pensata un’opera di passioni libere e forti di pura fiamma, che si svolga davanti ad altissime tende d’un colore profondo. Per ottenere questo colore molto mi gioverà una signora olandese amica mia che ha trovato il modo di dare alle stoffe i bei colori dei vecchi velluti rossi o verdi di Venezia, di Genova o di Lucca. Distenderò una vastità enorme intorno agli interpreti. Essi si muoveranno davanti ad uno scenario di un color solo, alto quattordici o quindici metri. Nella parte superiore di esso correrà un fregio che ripeterà a intervalli eguali, obbedendo alla legge musicale delle pause, lo stesso motivo decorativo. Questi segni armoniosi indurranno, ripetendosi nel pubblico, una suggestione pari a quella dell’orchestra.Tornerà insomma alle scene spoglie e semplici, come usavano del resto, ai tempi di Shakespeare, aggiungendo ad esse questo elemento nuovo, questa specie di ritmo grafico che avrà per gli spiriti un valore musicale. Il pubblico non sarà più distratto dai piccoli particolari della scena e il poeta potrà esprimere la passione dei suoi personaggi in forme nude elementari e ardenti».

L’idea esposta da D’Annunzio è chiarita sotto il  profilo tecnico da Ricciardi: «il poeta alludeva all’arte giavanese del batik perfezionata da Agata Wegerif Gravestein; creazione di stoffe cangianti secondo la luce, percorrenti una meravigliosa gamma di tinte, dagli arancione più cupi ai gialli matti, dai paonazzi ai rossi accesi» [6].

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D’Annunzio segreto, recente spettacolo teatrale di E. Sylos Labini

Le suggestioni delle nuove idee sceniche dannunziane non sfuggono a Jacques Rouché, fra i più accesi promotori del rinnovamento del teatro in Francia, che proprio nell’aprile del 1909, dopo avere chiesto i diritti di pubblicazione e rap- presentazione de La Nave e di Fedra invita d’Annunzio ad un incontro. L’interesse di Rouché per il poeta, quando questi non ha lasciato ancora l’Italia, è successivo al rapporto diretto del pe- scarese con Craig che, dopo il suo trasferimento a Firenze nel 1907, è entrato nella sua più interessante stagione progettuale. Proprio dalla frequentazione con il fermento laboratoriale animato da Craig che porta in cinque mesi alla definizione degli screens, D’Annunzio in assenza e in attesa di riincontrare Fortuny, trae spunto da questi elementi scenici rettangolari per individuare originali risoluzioni al suo teatro di poesia, stimolando a sua volta nell’artista inglese curiosità e interesse per le sue intuizioni sul cromatismo. La testimonianza di Ricciardi riguardo a questo scambio di riflessioni e suggerimenti artistici è precisa: «Quantunque la sua forma sia soprattutto architettonica e riguardi le proporzioni tra persone e decorazioni sceniche pure egli si è dedicato alla ricerca del cromatismo. E con Gabriele D’Annunzio fece a Firenze delle interessanti esperienze per creare un’atmosfera luminosa ed evitare le violenze e la crudezza di luce e di ombra proprie dei riflettori» [7].

Una conferma in diretta degli incontri fra Craig e d’Annunzio ci viene da una dichiarazione di Ildebrando Pizzetti, il quale racconta che D’Annunzio stesso lo aveva informato, in un colloquio avuto nel 1907, che l’artista inglese gli aveva personalmente portato alla Capponcina una copia della sua opera Theart of the Theatre, pubblicata due anni prima [8]. Da lì in avanti, tuttavia, d’Annunzio non volle dare seguito al rapporto di collaborazione con Craig. Ciò probabilmente perché per il Vate lo spazio scenico doveva essere in rapporto con lo spazio metrico della poesia; il che lo portava a temere le sintonie con la maggiore competenza tecnica (e non soltanto tecnica) di Craig. Anche in questo caso, dunque, D’Annunzio, come sarebbe successo con Reinhardt e Mejerchol’d, dopo essersi avvicinato ai problemi della regia grazie al rapporto diretto con uno dei suoi maggiori fondatori, non conquistò la dimensione autonoma della creazione dello spazio scenico in quanto “condizionato” proprio dalla sua formazione di poeta.

Più in generale, nonostante la disponibilità a confrontarsi con alcuni padri della scena internazionale del nuovo secolo, D’Annunzio non intende vincolarsi a una scelta fra le due linee innovative del momento. Egli non si allinea con coloro che fanno appello alla nuova pittura, né con coloro che si affidano alla tridimensionalità per garantire una effettiva unità espressiva al dramma. Questa medesima condizione di esprit libre egli manterrà anche dopo il trasferimento a Parigi, nonostante Jacques Rouché cercasse di coinvolgerlo nella sua avventura innovatrice promuovendo incontri, che risulteranno il più delle volte scontri, con i pittori protagonisti del nuovo teatro [9] intanto che l’amico Montesquiou si procurava di metterlo in contatto con il fermento drammaturgico parigino [10].

In realtà d’Annunzio dopo il contatto craigiano e le suggestioni del teatro del colore, una volta giunto a Parigi e ripresi i contatti diretti con l’amico Fortuny, sente la necessità di affidarsi con più entusiasmo che nel recente passato, al valore scenico della luce e alle possibilità espressive offerte dalla luminotecnica. È così che il luogo deputato ad accogliere la sperimentazione artistica del Vate diventa il teatro privato della contessa di Béarn, dove pochi anni prima lo stesso Appia aveva avuto modo di vedere realizzate per la prima volta le sue idee sul rapporto musica-luce per la messinscena del dramma wagneriano.

Il trasferimento a Parigi nel 1910 sembrò proiettare finalmente D’Annunzio verso prospettive progettuali e operative totalmente sradicate dall’idea tradizionale del teatro. Il primo segnale eclatante di questa effervescente condizione, fu il nuovo progetto per un Théâtre de Fêtes. Un’invenzione per certi aspetti avvenieristica, sicuramente incoraggiata dai progressi luminotecnici dell’amico Fortuny (perfezionamento della cupola e dei dispositivi di riflessione/proiezione), sperimentati nel teatro della contessa di Béarn [11].

Dal Museo d'Annunzio

Dal Museo d’Annunzio, Il Vittoriale degli Italiani, Gardone Riviera

Il “Théâtre de Fêtes” proposto da D’Annunzio si presenta come sintesi tra i fondamenti del teatro antico e le ultime possibilità offerte dalle nuove tecnologie: dispositivo al coperto tale da garantire la gamma più estesa degli effetti lumino- tecnici, e predisposto per le esigenze di acustica delle più diverse tipologie di spettacolo, ma anche con le prerogative di impianto en plein air per un teatro di massa si tratta di una struttura al tempo stesso agile e funzionale, facilmente smontabile in poche ore, tale da consentire qualsiasi forma di décentralisation; grandiosa macchina delle meraviglie capace di 4500 posti distribuiti ad anfiteatro, sorretta da un’armatura in ferro a forma semisferica, dotata all’interno di arredo a verde come se si fosse all’aria aperta. Un’illusione di teatro en plein air precisata da una straordinaria estensione di proiezioni di cielo a nuvole fisse e mobili, che dalla cupola del palcoscenico, senza soluzione di continuità, invade l’intera superficie della copertura dell’impianto, sulla testa e alle spalle degli spettatori, sì da avvolgerli in un’unica atmosfera di luci e suoni, amplificati grazie ad un sistema di regolazione di quota del velario, tale da riproporre, dove necessario, situazioni di interni di architetture, ma anche effetti di immersioni sottomarine, per le quali D’Annunzio prevede la composizione di “miti oceanici”. Un impianto di spettacolazione, insomma, tale da restituire in forma d’arte quel “meraviglioso” cinematografico che tanto catturava l’artista. Per l’inaugurazione del “Théâtre de Fêtes”, prevista al Campo di Marte per il 21 luglio 1911, d’Annunzio pensa di allestire una grande féerie poetica con danze, cori, cortei e canti, con un’orchestra di 120 professori e oltre 700 persone in scena: un cast artistico di primissimo piano con Isadora Duncan e la sua scuola di danza, e l’orchestra «Murère» diretta da Savillard.

L’atto costitutivo di una «Societé civile d’études pour l’application du dispositif théàtral Fortuny dit Théâtre de Fêtes» formata da D’Annunzio, Fortuny ed Hesse, è il documento formale per l’attuazione dell’impresa fin qui descritta e che tuttavia non sarà realizzata per un’improvvisa, quanto inaspettata, rinuncia di Fortuny [12].

Da questo momento in avanti, e per tutto il soggiorno a Parigi, i tre allestimenti dannunziani (Le Martyre de Saint Sébastien, La Pisanelle, Le Chevrefeuille) sono esemplari prove di uno sperimentalismo che non rinuncia agli azzardi e alle prove estreme, nonostante il perdurare di una consuetudine attorale fortemente intrisa di protagonismo e accademismo. Il connubio con alcuni artisti dei “Balletti russi” caratterizza in buona parte, come è noto, l’esperimento dannunziano. In mancanza di Fortuny, sarà Bakst a cercare di interpretare l’idea scenica del Vate. Eccellente, anzi magico, nell’uso del colore, Bakst spesso non riuscirà a rinunciare tuttavia al suo inconfondibile stile per seguire le visioni di D’Annunzio, così tecnologicamente proiettate verso una modernità sostanzialmente diversa dal sia pure straordinario impatto scenografico dei Balletti Russi.

Altrettanto singolare, su un altro piano, fu l’azzardo della prova attorale di Ida Rubinstein, geniale danzatrice/mimo, ma assolutamente priva di esperienza recitativa, anzi caratterizzata da uno strano timbro metallico, da un accento straniero, da una voce che stentava ad arrivare agli spettatori. Dirà in proposito l’artista: «Quando parla con quella voce un po’ chantonnante, a cui sono ignote tutte le sapienti malizie, tutte le gradazioni di effetti, tutte le sfumature tecniche dei “professionali” della scena di prosa, pare a me ed ai miei ingenui vicini che così veramente debba parlare un santo» [13]. Dopo la contestata messinscena del Martyre, d’Annunzio, com’è noto, per la Pisanelle chiama ancora alla nuova impresa artistica Ida Rubinstein e Leon Bakst. Questa volta il Vate si rende conto che deve rinunciare alle sue visioni luminotecniche e alle sue aspirazioni tecnologiche a favore dell’espressività pittorica dello scenografo russo. La direzione dell’opera, invece, per suggerimento della stessa Rubinstein, viene affidata a Mejerchol’d, che ha già acquisito il ruolo di protagonista della rivoluzione teatrale in Russia.

Al di là della pur comprensibile reazione dell’autore che si vede letteralmente stravolta la propria idea scenica, rimane il fatto che le pur originali invenzioni registiche di Mejerchol’d, tanto lontane dalla pulsione poetica dannunziana e tanto vicine alle suggestione feerica della scena bakstiana, restavano in qualche modo, e pur sempre, inquadrabili nella “logica” dell’azione da palcoscenico; mentre d’Annunzio continuava a “ragionare” con una temporalità assolutamente autonoma, quanto dissonante, rispetto a quella del regista riconosciuto come “rivoluzionario”. Così infatti Mejerchol’d sfoga il suo disappunto da artista “strutturato”, scrivendo alla moglie (28 maggio 1913): «D’Annunzio sente poco il teatro, la sua forma. E in generale è privo di tatto. Ostacola il corso normale delle prove» [14]. Evidentemente la vocazione dannunziana a sperimentare, pur volta quasi sempre a creare degli eventi eccezionali, e per questo non iscrivibili negli statuti di una pratica regolare, era testimonianza di una tensione effettivamente rivoluzionaria, non riconoscibile dalla rivoluzione accettata dal pubblico di teatro.

7Il cerchio si chiude durante le repliche della successiva messinscena parigina, quella de Le Chevrefeuille. Con questo dramma d’Annunzio aveva cercato di disintossicarsi dall’eccesso di “russificazione” e di riconquistare la sua dimensione di autore di un teatro d’arte, riuscendo a trasformare lo scenografo prospettico di tradizione, Amable, in interprete della sua visione simbolista. L’amarezza (se non il disgusto) per il comportamento di attori come Le Bargy e Bady, abituati a mettere in secondo piano qualsiasi forma d’arte, di fronte alla loro intoccabile individualità mattatoriale causerà da parte del Vate l’abbandono definitivo della scena, proprio in corso d’opera. E così che nel momento in cui riconosce l’impossibilità a dare campo al suo teatro d’arte, d’Annunzio, recupera la dimensione della spettacolarità sul piano esistenziale nel corso della sua stagione “eroica”. In questo modo, mentre da un lato all’interno della cultura italiana prenderà sempre più consistenza il suo ruolo archetipico di innovatore della scena, dall’altro cercherà fuori dal teatro, nell’atmosfera diversa della guerra e dell’azione a Fiume, motivazioni ma anche condizioni effettuali per una nuova estensione del teatrale, che tuttavia lo porteranno su posizioni nazionalistiche retrive. In verità la solitudine innovatrice e l’anticonformismo dell’artista nel clima delle azioni politico-militari a cavallo degli anni Venti danno campo agli aspetti più superficiali e formalistici della nuova ricerca “scenica” di d’Annunzio. La polarità teatro/azione militare diventa così causa scatenante della involuzione della teatralità nel teatralismo, che accompagnerà d’Annunzio anche negli anni a venire.

Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
Note
[1] A. Appia, La mise en scène du drame wagnérien1892-1894, Paris, Léon Challey, 1895; La musique et la ]mise en scène 1894-1896, Berne, 1896.
[2] Per approfondimenti sul progetto dannunziano del teatro di festa rimando al mio saggio D’Annunzio e la mise en scène, Palermo, Palumbo 1993
[3] Dalla lettera di d’Annunzio a S. Bernhardt del 13 novembre 1897 pubblicata da G. Tosi Les rélations de G. d’Annunzio dans le monde de théâtre in France in «Quaderni dannunziani», VI-VII, ottobre 1957: 11.
[4] Su questo argomento rimando al mio D’Annunzio e la mise en scène, Palermo, Palumbo, 1993.
[5] Sull’esperimento scenico di Fedra rimando al mi oD’Annunzio e la mise en scène, cit: 133 sgg.
[6] A. Ricciardi, Il teatro del colore, Milano, Facchi, 1919: 24
[7] Ibidem.
[8] La notizia è riportata da G. Tosi, Auxsourcesdu «Martyre de S. Sébastien», in «Berenice», a. XII, 28-29, dic. 1989-luglio 1990: 300.
[9] Nella «belle maisoné clairé e par les étoiles d’Albert Besnard […] où J. Rouchés ai tréunir des hótes demarque […] Besnard, Descailléres, Henride Régner, André Gideet André Suarés nous avons trois récits dont la confrontation est piquante» (da una dichiarazione di D’Annunzio riportata in data 15 aprile 1910 in «Le Journal de Gide Pléiade», 2957 e ripresa da G. Tosi, Les rélations de G. d’Annunzio dans le monde du théâtre en France, in «Quaderni dannunziani», VI-VII, ottobre 1957: 7).
[10] Guy Tosinel sopra citato articolo, mette in evidenza come, nonostante i ripetuti incontri con i drammaturghi Bataille, Lavedan, Hervieu, Porto-Riche, Donney, Bernstein e la familiarità con Rostand, D’Annunzio non abbia affrontato con loro discussioni volte alla formulazione di un programma di lavoro comune. Così come non sembra abbia fatto grandi sforzi per incontrare nuovamente Antoine o per riallacciare rapporti con Logné-Poe, che pure nel 1905 aveva accolto nel suo Théâtre dell’Oeuvre, La Gioconda e La figlia di lorio. Fra gli animatori di quel momento, non dedica nemmeno attenzione al fermento innovatore di Jacques Copeau che da lì a poco vestirà il ruolo di padre fondatore e di pedagogo del teatro del Novecento.
[11] Sugli esperimenti luminotecnici attuati nel teatro della contessa di Béarn rimando ai miei saggi: Innovazioni sceniche nella Parigi del primo Novecento, Bari, Di Pagina, 2012 e Fortuny e il teatro, Palermo, Novecento, 1986.
[12] Cfr. in proposito i miei citati saggi: Innovazioni sceniche nella Parigi del primo Novecento e Fortuny e il teatro.
[13] Questa dichiarazione di d’Annunzio, tratta dall’articolo Il “Martyre de Saint Sébastien” al teatro dello Châtelet, in «Il Marzocco» del 28 maggio 1911, è riportata nel mio saggio D’annunzio e la mise en scène, cit.: 173.
[14] La lettera di Mejerchol’d alla moglie (traduzione di C. de Michelis) è riportata nel mio saggio D’annunzio e la mise en scène, cit.: 188.
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Giovanni Isgrò, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo  presso l’Università di Palermo, è autore e regista di teatralizzazioni urbane. Ha vinto il Premio Nazionale di Saggistica Dannunziana (1994) e il premio Pirandello per la saggistica teatrale (1997). I suoi ambiti di ricerca per i quali ha pubblicato numerosi saggi sono: Storia del Teatro e dello Spettacolo in Sicilia, lo spettacolo Barocco, la cultura materiale del teatro, la Drammatica Sacra in Europa, Il teatro e lo spettacolo in Italia nella prima metà del Novecento, il Teatro Gesuitico in Europa, nel centro e sud America e in Giappone. L’avventura scenica dei gesuiti in Giappone è il titolo dell’ultima sua pubblicazione.

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