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La ricerca delle verità. Scampoli di un’etnografia

copertinadi Eugenio Giorgianni

Non mi è facile affrontare il tema dei negazionismi, così come ogni altro tema inerente alle dinamiche pandemiche. Non mi è facile scrivere, dedicare energie a riflettere su cosa sta succedendo, interrogarmi sul senso del mio stare al mondo in questi tempi, e soprattutto sul senso degli altri.

Il dilagare del virus SARS-CoV-2 in Italia a partire da fine febbraio scorso ha avuto l’impatto di un terremoto sulla mia esistenza quotidiana e sulle mie prospettive per il futuro, così come sulle vite di tante altre persone. La profondità del trauma mi ha fatto venire le vertigini; ho fatto di tutto per restare sull’orlo del baratro, senza sprofondare e cercando di non guardare giù.

Mi sono impegnato con tutto me stesso a resistere, a proteggere il mio corpo (di cui la mia famiglia costituisce un’estensione) dall’attacco esterno. Non solo l’attacco del virus, ma l’attacco della crisi economica, della devastazione del quotidiano, dell’impossibilità di capire. Nello sforzo di non soccombere, ho passato gli ultimi mesi a non pensare, a usare ogni momento libero per evadere dallo scenario presente. Ho cercato di allontanare paure e paranoie, mi sono difeso dalla troppa informazione, dalla disperata ricerca di un senso, dalle mille sublimazioni digitali della forzata mancanza di socialità.

Il risultato che ho ottenuto è la mia completa alienazione dai problemi e dalle emozioni degli altri, dalle ansie che mi trasmettono così come da qualunque altro impulso. Mi sono disconnesso dai miei simili, limitando le mie interazioni dirette con altri esseri umani ai rapporti di lavoro e a una ristretta, sempre più ristretta, cerchia di cari. Mi rendo conto di non aver fatto altro che isolarmi, corpo e anima, dal presente e dagli altri.

Adesso, forzare il mio stato di alienazione mi comporta uno sforzo notevole. Lasciarmi attraversare dai flussi energetici dei discorsi pandemici, entrare in dialogo con le voci più strane di questo assurdo presente, significa smontare il muro protettivo che ho eretto intorno a me stesso in questo ultimo anno e che mi ha permesso di non deprimermi troppo e di portare (più o meno) avanti i miei obiettivi personali. Inoltre, sento il cervello come intorpidito, incapace di assorbire lo shock: ho le idee confuse, ho perso moltissimi punti di orientamento nella navigazione cognitiva e culturale. Non so collocarmi con chiarezza nel dibattito su pandemia e politica: mi riesce difficile prendere le distanze, tracciare confini, distinguere il circo mediatico dal conflitto sociale, le strategie sistemiche dagli elementi anti-sistema, la resistenza dal delirio, le narrazioni tossiche dalle buone pratiche. Più ci penso e più la questione mi sembra ingarbugliata.

Eppure, l’esercizio di risintonizzarmi con il presente mi produce un piacere fisico, come il risveglio delle fibre muscolari che tornano ad allenarsi dopo mesi di inattività. E proprio da questo piacevole sforzo prende corpo il mio contributo al dibattito sul negazionismo di Dialoghi Mediterranei. Questo abbozzo di etnografia pandemica – incompiuta, in buona parte virtuale, allucinata, forzatamente autoreferenziale e affamata di contatto come quasi tutto quello che sto vivendo in questo periodo – è dedicata all’idea di negazionismo e ad alcune delle molteplici declinazioni di scontro con la realtà, e di ricerca (ed elaborazione) della verità, che animano la tumultuosa scena pubblica dell’era Covid.

Non ho appelli da lanciare, né condanne da esprimere, tantomeno definizioni da proporre. L’approccio etnografico (sebbene molto limitato nel tempo e nei mezzi) al tema, l’ascolto e lo scambio di opinioni con alcune voci del dissenso alle politiche pandemiche del governo italiano, hanno ulteriormente rimescolato le mie opinioni e sensazioni, lasciandomi incapace di formulare una tesi o di tirare le somme sul fenomeno del negazionismo virale. Ciò mi permette di percorrere una strada poco battuta dal dibattito culturale odierno: posso sospendere il giudizio, e leggere le dinamiche osservate nella loro grammatica, seguendone le argomentazioni con curiosità. Questo scampolo di etnografia non è l’osservazione dei comportamenti di una specie aliena né un’indagine su “chi c’è dietro” alla produzione e diffusione dei discorsi negazionisti. È invece il testo del confronto con alcuni corpi che aderiscono a tali discorsi sulla base delle proprie esigenze, desideri e sofferenze.

lettino-km5e-1020x533ilsole24ore-webQuesto contributo vuole mettere in dialogo le sensazioni prodotte dalla pandemia, al di là dei nomi che vi si attribuiscono e delle fazioni che si scelgono, indagando il disagio (mio e degli altri) e le diverse reazioni collettive al covid. E sebbene la sensazione più persistente durante l’indagine sia il fastidio, il dialogo costituisce in ogni caso una boccata d’ossigeno in questa epoca di settarismo asfissiante. Almeno, lo è per me, che mi sono sentito vivificato dallo scambio con altri esseri umani dalle idee radicalmente diverse dalle mie, sebbene mossi da istanze molto simili. La circolazione di informazioni e pensieri ha riattivato aree del mio cervello atrofizzate dal confinamento, irrorando di sangue le regioni del pensiero critico e dell’impegno civile dopo mesi di quarantena. A parte l’uso della pratica etnografica come auto-cura, a chi legge propongo questo testo come esperimento esplorativo, sicuramente incompleto, delle correnti di profondità della (in)coscienza collettiva ai tempi del nuovo coronavirus. Sceso in immersione con mezzi insufficienti, a metà del viaggio, mando questo messaggio in bottiglia al porto sicuro della redazione di Dialoghi, incerto se riuscirò ad arrivare al fondo e ritornare in superficie.

Il corpo mi si presenta come l’unica scelta metodologica sensata per questa ricognizione; anzi, come l’unica scelta possibile. Ogni forma di ragionamento dissociata dagli altri sensi si rivela inutile rispetto al problema di come affrontare la pandemia. Il corpo, troneggiante nella sua assenza, feticizzato nella sua negazione, campo di battaglia politico, valore ultimo intorno a cui si stringe la nazione sotto attacco, è non solo oggetto, ma anche strumento del dilemma pandemico e delle opposte strategie di soluzione. Provo quindi a cogliere con il corpo altre esperienze del presente, ad avventurare le mie sinapsi nervose lungo nuove connessioni, cercando di immedesimarmi nei muscoli e nel pensiero altrui.

In fondo, i nostri corpi (il mio, quelli di chi legge, quelli dei ‘negazionisti’) sono bersaglio degli stessi agenti patogeni, sono teatro delle stesse emozioni e delle stesse costrizioni, sono comandati dagli stessi poteri biopolitici e necropolitici. Il mio personale dialogo con, e sui negazionismi parte da qui: da quella che Merleau-Ponty chiamava la percezione pre-oggettiva, il momento magico in cui i nostri corpi incontrano il reale e si sorprendono, si emozionano, conoscono il loro essere-nel-mondo prima che il pensiero astratto riduca la realtà in oggetti. Questi oggetti, nello scenario pandemico e nelle sue molteplici forme di negazione, assumono forme incredibilmente diverse pur partendo da stimoli analoghi e restando all’interno dello stesso gruppo culturale. La diversità delle forme di elaborazione della pandemia dà luogo a pratiche di esclusione e di violenza, sia simbolica che fisica, particolarmente evidenti tra chi (e verso chi) contesta, in parte o del tutto, l’esistenza o l’estensione della minaccia-covid.

Per definire i negazionismi (termine tutt’altro che neutro, su cui tornerò a breve), tanti analisti e scrittori insistono sul loro carattere antiscientifico e illogico, sulla faziosità di chi mistifica e diffonde informazioni per i propri interessi, sulla precipitosità quando non sull’ignoranza e l’ottusità di chi sposa tali discorsi. Propongo un approccio del tutto diverso, basato sul concetto di incorporazione (Csordas, 1990): la conoscenza del mondo e la socializzazione di ciò che viene conosciuto passa dal corpo; i segni che ci scambiamo affondano le loro radici nelle sensazioni che proviamo, e confrontarsi su quelle sensazioni prima che sul nome che diamo loro permette di leggere le elaborazioni culturali da un altro punto di vista, in cui la carne e i nervi, prima che le parole, sono veicoli del pensiero. Quindi, mi interessa l’esperienza fisica, i disagi e i desideri, la claustrofobia e l’eccitazione, la resistenza dei muscoli e i dolori dell’epidermide di chi rifiuta le narrazioni ufficiali e le politiche istituzionali di contenimento della pandemia in corso. Più che teorie di complotto su 5G e miliardari democratici assetati di adenocromo, il soggetto della mia domanda di ricerca è lo stare al mondo, le cause fisiche che spingono una persona a formulare, abbracciare o assecondare la negazione della pandemia.

Ma perché interrogarsi sui motivi che inducono la gente a negare il covid? L’obiettivo di questo approccio non è trovare una giustificazione o una spiegazione antropologica al fenomeno del negazionismo, né cercare a tutti i costi una base di confronto con chi la pensa diversamente – nonostante ritenga che quest’ultimo sia un ottimo esercizio di impegno civile. Il punto è chiedersi a cosa reagiamo e cosa ci spinge sulle posizioni in cui ci troviamo, osservare come cambia il dibattito politico, come si trasforma la cultura e la società, come si modificano le parti in campo.

Quello che mi preme è non accettare separazioni retoriche tra gruppi umani che non siano basate su vissuti e interessi sociali, insomma su esperienze fisiche, realmente divergenti. In particolar modo, mi preme non accettare cesure che impediscono a gruppi e individui che coltivano forme di pensiero e di azione critica nei confronti dell’ordine costituito di dialogare tra loro; cesure, quindi, che di fatto indeboliscono il fronte critico e trasformativo a vantaggio del conformismo e dello status quo. Sono in atto spostamenti retorici e pseudo-ideologici che producono risultati sconcertanti, ad esempio l’opinione che temi quali l’accoglienza ai migranti e i processi di trasformazione interculturale possano stare a cuore solo a borghesi privilegiati, o che gli ideali storici della sinistra come la tutela del lavoro e lo stato sociale siano appannaggio dei ricchi. Allo stesso modo, in questi giorni assistiamo allo spostamento a destra delle accuse all’operato della politica e dello scetticismo nei confronti della retorica governativa, tanto che i movimenti critici di qualsiasi natura e argomento che sorgono tra la popolazione vengono frequentemente assorbiti o affiancati da partiti di estrema destra – i negazionismi ne sono un esempio.

image-2La pandemia ha accentuato questa nuova articolazione tra destra e sinistra (parlamentari, si intende) per cui le istanze popolari e di massa – e a volte anche movimenti e rivendicazioni più marginali e radicali, come le proteste anti-lockdown di ottobre scorso a Napoli e in altre città italiane – si intrecciano sempre più spesso con il sovranismo di destra, sia nei discorsi dei politici che nella percezione della gente. La mia impressione è che molti analisti ‘progressisti’ rispondono a tale fenomeno concentrandosi sulle ‘infiltrazioni’ dei gruppi criminali e di estrema destra nelle manifestazioni più violente, negando o sminuendo l’istanza profonda di disagio sociale dietro forme comunicative e culturali diametralmente opposte rispetto ai movimenti di protesta degli ultimi decenni. Così facendo, la critica culturale continua a scollarsi dal disagio sociale, favorendo lo slittamento a destra dei portavoce delle contestazioni e del loro linguaggio. Insistere sulla irrazionalità delle istanze di protesta alla gestione della pandemia e negare loro qualunque apertura dialogica significa produrre discorsi di esclusione, riproporre contrapposizioni ideologiche poco adeguate alle mutate condizioni della società italiana. Non si tratta di riconoscere la verità strutturale dietro la diversità sovrastrutturale, ma di accettare i punti di continuità (anche quelli scomodi) tra espressioni diverse.

E così, mi accingo a rintracciare punti di continuità e fratture tra il mio sentire e un sentire diverso dal mio, codificato con simboli lontani dai miei, sebbene vicino per estrazione sociale, esperienze di vita e legami affettivi. Decido di portare avanti la mia ricerca in dialogo con A., amico di lunga data su posizioni politiche molto distanti dalle mie. Attraverso la sua voce e le sue opinioni, cerco un confronto con una persona (non un testo né una pagina web: non sopporterei il peso di una netnografia in questo momento) che incarni le istanze della protesta contro la gestione politica e contro la narrazione ufficiale della pandemia.

Quando gli dico che voglio incontrarlo per scrivere un pezzo sul negazionismo, A. resta perplesso: “E che c’entro io?” Un po’ me lo aspettavo. A. rifiuta l’etichetta di negazionista: dice che lui e le persone che la pensano come lui non usano questo termine, e che nell’universo della gente critica verso il covid e le sue politiche ci sono idee così lontane tra loro che è del tutto inadeguato usare un’etichetta comune. Dice che la sua posizione è “la ricerca della verità,” l’esercizio del pensiero critico per interpretare il presente; e che “la parola negazionista è appropriata, ma al contrario,” ossia per indicare chi in nome del conformismo accetta ogni parola venga dalle istituzioni, finendo per negare l’evidenza.

Vincenzo Matera ritiene improprio applicare il termine ‘negazionismo’, coniato per indicare coloro che negavano la Shoa, a chi nega l’esistenza del virus. Sono d’accordo con lui. La fortuna attuale del termine, però, è da cercarsi proprio nella violenza dell’evocazione nazista, dell’inaccettabilità di rifiutare la verità scientifica e della perniciosità di individui che non riconoscono alcun valore alla tragedia di milioni di morti innocenti. La violenza del termine ci dice subito che si tratta di un concetto polarizzante, basato sul fastidio e l’orrore, sullo sdegno e sulla reciproca inaccettabilità delle posizioni altrui. Il virus polarizza ogni discorso, relega ogni altro argomento ai margini dell’attenzione, schiaccia il pensiero su un asse bidimensionale, spingendo il sentire comune a negare ogni dissenso, e il dissenso a negare il virus stesso.

Ai fini della presente riflessione, uso il termine negazionismo con ritrosia (come fa A.) in quanto la parola evoca immediatamente la negazione dell’esistenza del virus e in generale la negazione della realtà scientificamente dimostrata e logicamente affermata; le evidenze etnografiche della mia ricerca mostrano il contrario, ovvero che chi viene etichettato come negazionista non necessariamente adotta un atteggiamento antiscientifico o cospirazionista. Eppure, non riesco a trovare un termine migliore per indicare quel coagulo di posizioni, esperienze culturali e politiche, stati d’animo e opinioni che rifiutano – in toto o in parte – le narrazioni e le decisioni del contenimento pandemico. Questo coagulo eterogeneo costituisce sempre più un’unica categoria semantica, la cui coesione cresce, sia all’interno che dall’esterno. La scelta di aderire all’uso corrente, sebbene improprio, della parola ‘negazionismo’ colloca la presente riflessione all’interno del tempo in cui viviamo, con le sue ambiguità e contraddizioni. Spero che questo approccio mi porti a cogliere con più urgenza i paradossi delle categorie dicotomiche che viviamo e a cercare un’alternativa al settarismo, senza cadere nella retorica in uso.

A. non è avulso da questa retorica dell’esclusione. Ho scelto lui come interlocutore ideale della mia ricerca anche perché molti miei conoscenti non esiterebbero a definirlo negazionista sulla base dei contenuti che condivide sul suo profilo Facebook, delle opinioni che esprime, e dei toni polemici con cui presenta le sue idee sui social, specialmente dall’inizio della pandemia. Per capire almeno in parte questa aggressività polemica sui social e per ragionare sul riconfigurarsi delle figure pubbliche di giovani italiani di classe media lungo l’asse covid/negazionismo, bisogna interrogarsi sulle inquietudini e sulle frustrazioni prodotte dalla congiuntura economica degli ultimi anni.

A. incarna il sentire della lumpen-borghesia, quella fascia sociale che ha prosperato economicamente negli anni ’80 e ’90 ma che non partecipa del nuovo accumulo della ricchezza post-austerity. A. sente di non avere quello che si merita in termini socio-economici, e non può conciliare il dissidio interiore tra nostalgia dei bei tempi andati e adattamento sociale al presente senza provare frustrazione. La frustrazione di A. si configura come una specifica emozione della classe media millennial alle prese con la crisi economica, quindi come un’istanza fondamentale della nuova opinione pubblica italiana, sia elettorale che digitale.

Il successo del Movimento 5 Stelle, in parte legato a questo tipo di sensibilità, ha galvanizzato queste istanze, includendole di diritto nel dibattito politico. Gli elementi antisistema e di democrazia diretta dal basso presenti nella retorica ufficiale del movimento fondato da Beppe Grillo – specie prima dell’ascesa al potere parlamentare – sono entrati prepotentemente nel linguaggio della nuova opinione pubblica italiana, costituendo una grande cassa di risonanza al fastidio di A. e di tanti altri – e strizzando l’occhio anche a varie ipotesi antiscientifiche e complottiste, dalle scie chimiche ai no vax, ai microchip sottocutanei.

Le nuove voci e i nuovi discorsi del dibattito politico italiano non sono però stati accolti all’unanimità dalla classe media, alimentando un fastidio uguale e contrario. Vari tra i miei conoscenti che si indignano, leggendo post in cui A. critica aspramente le linee del governo italiano sulla gestione della pandemia, incarnano a loro volta un altro tipo di frustrazione: il fastidio dei professionisti, borghesi da generazioni, costretti anche loro a ridurre ferocemente le aspettative socioeconomiche con le quali erano cresciuti. Per molte di queste persone, la cultura con la c minuscola (quella valutata in titoli universitari) è l’unico campo sul quale poter continuare a percepirsi come élite; da qui il loro fastidio per la presenza di nuovi linguaggi che occupano lo spazio dei discorsi anche ufficiali senza essere immediatamente sanzionati (anche da chi li formula) come ignoranti, rozzi e inadeguati pur non vantando alcun blasone culturale ‘alto’. È l’allargamento – l’imbarbarimento, o se vogliamo, la democratizzazione – dell’opinione pubblica e della politica che tocca il nervo scoperto di parte della classe media.

La reciproca insofferenza di queste due anime della società italiana assume toni sempre più violenti, dal panorama della politica parlamentare agli scambi sui social. Una politica del fastidio, come reazione al fastidio provato, e come aggressione mirata a produrre fastidio, a tutti i livelli. Un esercizio della politica sensoriale, emozionale, nella quale l’epidermide è l’organo decisionale. Questi fastidi e queste frustrazioni – probabilmente, sia quelli di A. che quelli della sua controparte – sono anche i miei. Non li rivendico, ma li percepisco. Le mie coordinate culturali mi spingono a rifiutarli, a sublimarli, a decostruirli, mentre altri investono energie, stabiliscono alleanze, delineano pubbliche relazioni a partire da queste percezioni. Lo si avverte nelle parole dei politici, e in modo ancora più forte nei dibattiti online – difficile stabilire quale dei due piani del discorso influenzi maggiormente l’altro.

In questo contesto, la pandemia si abbatte sui sogni infranti della giovane classe media come un’enorme mannaia: le prospettive lavorative si strozzano ulteriormente, le aspettative si abbassano ancora. Il corpo viene costretto all’inattività e bersagliato con decisioni dall’alto: tutte le valvole di sfogo sportive e ludico-sociali vengono chiuse, le azioni fisiche vengono pesantemente inibite, anche quelle intime. Si introduce forzatamente un accessorio come la mascherina, che va a interferire in modo ancora più visibile con lo spazio privato. E tutto questo perché? Per una malattia per la quale A. è convinto di non correre alcun rischio.

Il divieto di ogni contatto umano non necessario (non considerato necessario dalle logiche di produzione capitalista, dato che alcuni settori produttivi hanno continuato nonostante i rischi e altri, come l’home delivery, si sono enormemente espansi, distribuendo beni e servizi senza alcuna restrizione), ha convogliato sul web tutte le attività sociali di buona parte degli abitanti del nord globale. Ciò ha sancito la predominanza dello spazio digitale nella produzione e nell’esercizio dell’opinione pubblica, portando a compimento un processo in atto da alcuni anni che ha già prodotto cambiamenti macroscopici nel funzionamento delle democrazie occidentali (Berardi, 2018). L’informazione è online, l’intrattenimento è online, la cultura viene prodotta e consumata online. La rete è anche il luogo della ricerca solitaria, dell’autoselezione dell’informazione, delle tendenze. È più facile incontrare chi la pensa come te online che per strada – non ultimo, grazie agli algoritmi dei social – ed è anche più facile trovare conferma a quello che pensi.

argomentare-1-e1570138229404Il web è il fondamentale spazio politico del dissenso pandemico e costituisce un amplificatore per i discorsi negazionisti, al punto che i numeri nelle piazze dicono poco rispetto alle dimensioni effettive del fenomeno, che si sviluppa eminentemente online. A. mi racconta di essere stato contattato attraverso i social dai referenti di vari gruppi formali e informali impegnati sul fronte della protesta contro le politiche pandemiche, attirati da un post o da un commento pubblicato sul suo profilo. In varie occasioni, l’obiettivo di questi contatti era semplicemente quello di incontrarsi, al bar o in pizzeria, e creare un momento di scambio e di dialogo tra persone che condividono il senso di oppressione e il dissenso nei confronti delle politiche e dei discorsi ufficiali relativi al covid.

La digitalizzazione dell’opinione pubblica non produce solo spazi di incontro. La politica del fastidio si esalta nello spazio digitale: si reagisce senza filtri al fastidio che ci provocano gli altri, si compongono i propri messaggi per dare fastidio, si consumano contenuti fastidiosi per reagirvi, per differenziarsi, per alimentare morbosamente il proprio sdegno. Diventa fondamentale sapere che c’è qualcuno dalla parte sbagliata. È importante sentirsi più responsabili e più ligi di tanti altri, eppure la presenza di questi altri, così importante per la nostra definizione di bravi cittadini, diventa contemporaneamente un enorme bersaglio polemico: andrebbero bruciati, arrestati, dovrebbero ammalarsi loro, sono delle bestie. Dall’altro lato, si usa esattamente la stessa moneta: chi non capisce l’inganno del covid è una pecora, uno stupito o un complice, un parassita, uno schiavo a cui l’informazione di regime ha fatto il lavaggio del cervello.

Questo investimento emotivo e comunicativo sul fastidio ha un costo. A. introduce il tema quasi subito nella nostra conversazione, mettendo in luce un elemento centrale delle dinamiche del dibattito sul covid, ovvero il costante senso di alienazione:

«Prima di tutto c’è un malcontento interiore che deriva dal fatto che, per quelli come me, c’è una sensazione di schizofrenia. Io mi sento pazzo. Perché credi di avere una visione lucida delle cose, che per te è talmente lucida che chi la vede diversamente da te… mi fa stare male. […] La mia posizione è la ricerca della verità, punto. Cioè, non posso limitarmi a quello che mi viene detto. Nel momento in cui dovessi limitarmi a quello che mi viene detto, per me è l’annullamento, la morte cerebrale. Cioè, se io non mi creo un punto di vista… punto, tutto qua. Ma mi sto ammalando! La mia ricerca personale, in tutto ciò, è sentirmi meno pazzo possibile».

Mi sorprende che il disagio sia il primo argomento che A. mette sul tavolo. Mi aspettavo che iniziasse con una perorazione delle sue idee, o con una critica delle politiche in corso, o con una polemica sul sentire comune. Non avevo capito per niente che una fondamentale dimensione antropologica del conflitto delle idee sul covid è proprio il senso di alienazione, come la precisa autoanalisi del mio amico mi illustra. Un altro elemento di sorpresa è che questa alienazione, questa incomunicabilità del presente, viene vissuta a partire dall’esercizio del pensiero critico e dell’argomentazione razionale. A. approfondisce la meccanica dell’espressione del fastidio e del conflitto sui social, di cui fa esperienza quotidiana:

«In tutte le diatribe e le liti che ho preso io su Repubblica, sul Corriere, su Palermo Today, sul Fatto Quotidiano, ho sempre riportato i dati. […] Io posto sempre cose che sono o di un esperto clinico, o dell’Istituto Superiore della Sanità, o di un giornale anche filogovernativo, o di una testata giornalistica prestigiosa, capisci? Cioè, io cerco sempre di basarmi su nozioni e informazioni inattaccabili dal punto di vista dell’attendibilità. La risposta non è argomentata rispetto a quello che ho scritto. Sono invece: ma sei virologo? Ma qual è il tuo titolo di studi? Hai lavorato in corsia? E poi aprono il mio profilo: ma tu sei artista autodidatta! E quello ti fa la risata: ahaha! Il negazionista! Quindi, non c’è più un confronto sul tema».

Un elemento comune di varie critiche da sinistra al negazionismo è che i discorsi che circolano sono del tutto irrazionali, che si tratta di gente che non ragiona e che rifiuta le evidenze scientifiche, che ragionare con loro è impossibile e tempo perso. Il discorso di A. mostra come queste argomentazioni non ci aiutano a cogliere il fenomeno e a dialogarvi – e in realtà, neanche a condannarlo. A. mostra una fiducia positivista nella scienza e nell’attendibilità dei dati scientifici; ciò di cui diffida è la manipolazione di questi dati da parte della politica e dei media ufficiali. La sua reazione a questa sfiducia è attingere le informazioni direttamente alla fonte che le produce attraverso internet, ed elaborarne una sua lettura. A. è uno scettico che non riesce a trovare spazi di ragionamento condiviso né online né offline. Il valore della scienza, l’uso consapevole dell’informazione, non è dunque il discrimine tra negazionisti e responsabili, tra scettici e covidioti. E a sentire A., non lo sono neanche l’aggressività, l’insulto e le altre pratiche di hating digitale.

Wu Ming 1, analizzando l’espansione di QAnon nella società americana, si riferisce alla teoria del cervello trino di MacLean per dimostrare come il bombardamento mediatico dell’ultimo decennio, portato al parossismo nei mesi di confinamento, ci porti a forme di pensiero sempre più veloce e sempre meno razionale, in cui le decisioni vengono prese in pochi istanti, sotto gli stimoli della paura e dell’aggressività, come per i primi sapiens in lotta per la sopravvivenza nel loro ambiente. I messaggi che leggiamo sul nostro schermo avrebbero in qualche modo un effetto paragonabile al frusciare delle erbe alte nella savana per i nostri antenati: prima scaglio la mia arma, poi rifletto. Le diatribe digitali di A. confermano la validità di questo modello di lettura del presente, estendendolo ben oltre il negazionismo, a caratteristica dominante delle nuove forme di scambio di opinioni online. Voglio approfondire questo punto con lui:

- «Secondo te, qual’ è la cosa che suscita scandalo nella gente che ti ascolta e ti legge, quelli contrari?»
- «Io credo che ci sia una grande fetta della società, e non è uno scherzo, affetta da grande disagio mentale, come le ipocondrie, e che non sa di averlo. Quando hai paura, soprattutto se sei una persona ipocondriaca, a un certo punto tu, per paura, non sei lucido. […] Io non posso decifrarla la paura prima di averla; quindi quando ti coglie, agisci d’istinto. Per difenderti. Quindi che cosa fai? Cerchi protezione. Quindi, tu a un certo punto affidi la tua paura, la tua percezione del momento – anzi la tua non-percezione – nelle mani di chi ti rassicura. È un meccanismo di autodifesa dell’uomo: io mi devo tutelare, ho paura, non sono lucido, non so cosa pensare, c’è qualcuno che in questo momento vuole tutelarmi. Non mi interessa quello che pensa: so che l’intento suo è quello di tutelarmi. Quando tu vai a spaventare, terrorizzare la gente, la gente, senza lucidità, si va a rifugiare… Lo sai cosa fa paura adesso? È il tabù della morte. La morte viene vista come una cosa brutta, punto. Non viene inclusa nel pacchetto. Quando succede, devi fare di tutto per allontanarla. Se tu hai creato una società basata sulla longevità, sul creare una aspettativa di vita sempre più alta, a discapito della qualità della vita, a un certo punto a te non te ne frega più niente di come vivi; ti importa sopravvivere».

Un argomento classico della critica ai negazionisti e in generale agli ‘irresponsabili’ del covid è quello del rifiuto della morte, della negazione del rischio, della rimozione del pericolo dovuta alla insopportabile paura di morire. L’argomento di A. è molto interessante perché propone una forma di negazione uguale e contraria: l’allucinazione della salute, la rimozione della morte dal ciclo naturale anche a costo dell’ipocondria, dell’ossessione, della cessione di ogni altra libertà che non sia il diritto di vivere. La costante eccitazione della paura di morire da parte dei media è per A. responsabile dell’attaccamento morboso di tante persone alle istituzioni e alle prescrizioni governative nei tempi di pandemia, e alimenta l’inquietante desiderio di molti italiani del ritorno ai poteri forti (Bonanno, 2020).

Le due forme di ossessione – quella della prevenzione della morte, e quella del rifiuto del rischio – sono l’una l’inversione simbolica dell’altra. Osservate una accanto all’altra, ci restituiscono l’immagine di quello che siamo: una specie impaurita, alle prese con un pericolo ancora indecifrabile, nei confronti del quale le consuete strategie di sopravvivenza non funzionano, anzi sembrano renderlo più temibile. Questo pericolo attualmente viene incarnato nel nuovo coronavirus, anche se il problema è ben più ampio e riguarda le trasformazioni ecologiche dell’Antropocene, rispetto a cui l’antidoto alla COVID-19 non è dirimente. Ad ogni modo, oltre a stimolare la solidarietà, la pandemia sta acuendo molte delle frizioni e delle spaccature che segnano la nostra società e che appaiono sempre più difficili da ricucire.

lettering-2594659_1280-900x445Qui entriamo nel vivo dello scontro delle opinioni. A. non è un negazionista stricto sensu: per lui il virus esiste, quale che sia la sua origine. Ciononostante, la dialettica della pandemia l’ha portato a sedersi a un tavolo e conversare con sostenitori del complotto e negazionisti radicali, e dall’altro lato a scontrarsi aspramente con persone con cui prima della pandemia avrebbe potuto tranquillamente scambiare quattro chiacchiere. Lo spartiacque tra le posizioni non è costituito dal virus in sé – e qui l’assunzione acritica del termine ‘negazionista’ diventa fuorviante – ma dalla politica del virus; in particolare, la barriera che divide l’opinione pubblica è la liceità o meno delle misure di prevenzione della pandemia, del lockdown, del coprifuoco, dell’obbligo di usare la mascherina, della chiusura dei locali e dei negozi, del blocco della produzione, del divieto di assembramento in casa e in pubblico.

Indubbiamente esiste la pressione di chi già subiva i colpi delle politiche di austerità e della depressione economica successiva alla crisi finanziaria del 2007-2008, che adesso si ritrova in ulteriore difficoltà. I dati statistici mostrano come il contrasto alla pandemia abbia acuito le disparità sociali, colpendo in particolar modo i redditi bassi, i lavoratori precari e informali, le donne, i giovani. Queste fasce della popolazione, incluse le categorie che hanno subito un contraccolpo particolarmente violento a causa del confinamento, sono spesso presenti nelle occasioni pubbliche di espressione del dissenso alle politiche del governo, dalle manifestazioni di piazza alle interviste in televisione. Questo tipo di contraddittorio politico e sociale non è per niente nuovo, segue le articolazioni della società e i vari interessi in conflitto, entra in polemica con le istituzioni per rivendicare una diversa distribuzione delle risorse o per sindacare alcune scelte specifiche della politica. Le parti sociali continuano a interagire fra loro, rinnovando o cambiando alleanze e scontri, forse in modo più concitato a causa del dramma della pandemia, usando con più intensità di prima i social media, ma sostanzialmente rivendicando reddito e servizi secondo le consuete logiche liberali della famiglia, della pensione, delle categorie professionali, delle tasse.

Il fatto è che il virus ha colpito, e abbastanza forte, il patto sociale e i discorsi intorno a esso, rendendo esplicite anche alcune contraddizioni e alcuni conflitti fino ad ora latenti. Uno di questi è il conflitto tra vecchi e giovani: sono principalmente gli anziani a rischiare la vita per il nuovo coronavirus; i costi della lotta alla pandemia, però, vengono pagati principalmente dalle categorie meno tutelate, tra cui i giovani precari e i piccoli imprenditori. A. cita Sgarbi in merito: «Fino ai 50 anni di età non mi sono preoccupato di malattie che non minacciavano la mia vita: non possiamo obbligare i giovani a tutelarsi da una cosa che non li uccide. Dobbiamo tutelare le persone che stanno a rischio». Non si può uccidere un Paese per una malattia che miete vittime principalmente sopra gli 80 anni di età. Nelle parole di A. si sente la concordia sociale che scricchiola, le spaccature che minacciano di diventare crolli. Il fastidio nei confronti dei vecchi non viene ancora semantizzato, per fortuna, ma la riduzione delle risorse a disposizione può incidere drammaticamente sull’economia morale di una società, come racconta Meschiari nel caso dei Ciukci della Siberia.

Un altro conflitto che si fa strada nel linguaggio pandemico è quello tra lavoratori pubblici e privati, tra dipendenti e partite IVA, tra “chi produce il PIL” e chi “viene pagato con le tasse di chi lavora.” Agli occhi di chi appartiene alla categoria svantaggiata, i privilegiati non possono che essere contenti di smart working e lockdown, che gli permetteranno di lavorare meno e più comodamente senza intaccare il proprio stipendio. E visto che l’obiettivo di cambiare la linea politica appare fuori portata, lo sforzo polemico ricade quasi tutto sulla fazione opposta.

Di fronte al trauma collettivo, pensiamo a limitare i danni, anche a costo di escludere tanti altri. I meccanismi della necropolitica (il controllo sulla morte come strumento di potere) si riproducono nelle interazioni tra gente comune. I cittadini si oppongono gli uni agli altri, riversando la loro insofferenza e le loro angosce su altri cittadini. I responsabili della pandemia sono i ragazzini che continuano ad accalcarsi nei luoghi di ritrovo; o viceversa sono gli stupidi che usano la mascherina a permettere lo sfacelo deciso dal governo. Il negazionismo esprime il malessere del corpo sociale; vomita un flusso di dissenso totale, esistenziale, antropologico rispetto al sistema di vita (e di morte) del gruppo. Rappresenta l’irrompere della morte nell’orizzonte quotidiano, e le tante danze macabre che l’accompagnano.

Oltre alla tragedia dei morti e della crisi economica, il grande rischio della pandemia è proprio questa guerra civile delle idee, l’inasprimento (virtuale, per lo più) violento delle posizioni, la colpevolizzazione del prossimo come valvola di sfogo. A tal proposito, ritengo che la costante attribuzione di responsabilità ai cittadini (ciclicamente: sportivi, ragazzini, giovani della movida) dei disastri prodotti dalla pandemia, da parte dei media e delle istituzioni politiche, non faccia che peggiorare la tensione e aumentare la tendenze disgregative.

Le severe misure di contenimento della pandemia stanno impattando fortemente sulla dimensione collettiva. Dispiegati i simboli della nazione (inno nazionale, bandiere tricolori, premier e istituzioni, operatori sanitari, famiglia, cucina e buona tavola) nella prima fase del lockdown, con il ritorno all’emergenza dopo l’estate la tenuta simbolica della nazione ha retto meno. Si fa strada una dimensione politica dell’esclusione o dell’autoesclusione, dell’eroismo salvifico senza e malgrado gli altri, di autoproclamati eroi, o di eroi proclamati e premiati con un “arrivederci e grazie”, senza neanche una modifica contrattuale.

A. soffre a sentirsi tacciato di essere un antisociale, a non trovare un confronto sulle sue idee. Mentre parliamo, mi fa vedere un post in cui accusa di razzismo chi etichetta di complottismo e negazionismo la gente che esprime opinioni diverse: stesse generalizzazioni ignoranti, stessi luoghi comuni usati dai razzisti. A. inserisce pure le categorie di sovranista (a cui lui sente si appartenere) e populista, verso le quali, a suo sentire, la gente tende a rivolgersi con lo stesso disprezzo ‘razzista’ e con le stesse generalizzazioni. Leggendo i suoi post, però, si trovano toni di condanna alquanto decisa per chi è d’accordo con la necessità dei lockdown e accetta le scelte del governo, che A. arriva a chiamare “criminali” e “complici” del disastro. I toni, i bersagli polemici, un certo tipo di ironia che A. utilizza per confezionare i suoi post ricalcano in parte i contorni di quello che Prunetti descrive come social-fascismo, sebbene il pensiero, l’agire quotidiano, le parole di A. siano il più delle volte orientate all’inclusione, alla solidarietà e alla difesa dei deboli.

La contraddizione del discorso di A. mostra come senso di alienazione e fastidio si alimentino a vicenda in un circolo vizioso, codificando un linguaggio da hating digitale per esprimere le proprie opinioni online, mirato a infastidire i propri ‘nemici’ tanto quanto, o forse più che a convincere i lettori delle proprie argomentazioni. Questo tipo di comunicazione totalmente autoreferenziata spinge A. a trovare riscontro alle proprie idee nelle voci critiche incluse nel circo mediatico (i vari Sgarbi, Buttafuoco, Meluzzi) piuttosto che nell’interazione dialogica. A. mantiene vivo un confronto critico molto intenso con l’attualità, e mentre parliamo ammiro la sua preparazione e il suo coinvolgimento personale nel presente, un coinvolgimento che io non riesco affatto ad avere, e che a tratti decisamente rifuggo. Il prezzo che A. paga sul suo corpo per il suo impegno è l’infodemia: il bisogno di trovare riscontro alle sue convinzioni, di difendersi e di rispondere agli attacchi sui social, e di trovare le fonti che sostengano la sua vena polemica, lo porta a passare moltissimo tempo su internet e a immagazzinare una grande quantità di informazioni che non fanno che confermare la sua sensazione di venire esautorato del suo potere politico e del suo diritto alla felicità. Da qui, il passo verso le fantasticherie di complotto è breve, anche se non necessario.

Sebbene le argomentazioni di A. siano interessanti e ben articolate in molti passaggi, e la sua precisione nel documentarsi sia ammirevole, trovo che il suo esercizio del pensiero critico sia più orientato verso l’interno che all’esterno, più mirato a trovare consenso (prima di tutto, con se stesso) che ad aprirsi a un confronto con le opinioni altrui. Questo esercizio narcisistico del pensiero lo ha comunque portato a sperimentare contatti nuovi e a entrare in dialogo con vari tipi di persone, dalle manifestazioni di piazza ai gruppi sui social, sulla base del comune senso di esclusione rispetto alle politiche della pandemia.

i-dont-believe-global-warming-modGrandi scrittori e analisti hanno condotto magistrali ed esaustive critiche del negazionismo e delle teorie del complotto (su tutti, rimando al lavoro di Wu Ming 1) che hanno guidato la mia analisi dei discorsi del sospetto pandemico. La conversazione con A. mi ha testimoniato però come l’insofferenza nei confronti delle strategie di contenimento della pandemia di COVID-19 nasca come forma di resistenza da parte di corpi imprigionati, costretti all’immobilità sociale, all’inedia produttiva e ricreativa, all’impotenza, atrofizzati in un corpo sociale che non ha le energie per metterli in movimento. Ritengo che non basti l’emergenza sanitaria come scusa per silenziare queste istanze di dissenso ed escluderle dal dibattito culturale in corso.La produzione comunicativa del dissenso mi appare imprigionata nelle opposizioni binarie ed esclusiviste, che configurano un grande scontro telecomandato tra due opposti disagi senza possibilità di dialogo. La paura della morte e la crisi delle certezze stanno da entrambi i lati, la differenza sta nell’approccio.

Dai no-vax in poi, il negazionismo si è imposto all’attenzione pubblica come esperienza politica e come interpretazione del postmoderno. Oggi, l’impressione straniante prodotta da questa voce è amplificata, in quanto essa costituisce un insulto, una provocazione, una ulteriore minaccia a chi ha paura, schiacciato da un’emergenza inaspettata, e non può tollerare chi si fa beffe dello zelo, delle angosce, di tutti quei “sacrifici” osannati dalle voci istituzionali. Eppure, il contatto con i negazionisti mi è stato benefico: è stato un ritorno nel mondo in cui le cose si discutono e le opinioni si confrontano in modo aperto, senza paura di prendere posizioni estreme. È vero che nel dibattito pandemico ogni scambio è viziato, ogni conflitto è gonfiato, e il libero pensiero si ammanta di un gusto della provocazione, di una bellicosità settaria che si alimenta di toni esasperati e li alimenta a sua volta. Ma al cospetto del negazionismo percepisco in me un’urgenza comunicativa che supera quella censoria. Di fronte a questa lettura altra non provo paura, sgomento o disgusto, e nemmeno troppa simpatia. Ma curiosità, quella sì. Curiosità rispetto soprattutto alla potenzialità riflessiva del contatto con il negazionismo: come mi vedono, cosa pensano delle regole in corso e di chi le rispetta, quali critiche portano avanti. Per quanto l’immagine restituita non sia delle migliori, riesco comunque a vedermi riflesso nell’iride di un mio simile; questo portentoso effetto straniamento, in questi giorni e mesi di alienazione, mi ha fatto sentire meno solo.

Prendere sul serio le voci del negazionismo mi ha riattivato una facoltà in parte arrugginita in epoca pandemica: la coltivazione del dubbio, la critica culturale delle ideologie, la decostruzione delle narrazioni ufficiali. La sistematizzazione delle credenze e le strategie discorsive di A. non mi hanno convinto. Pur condividendo parte delle argomentazioni e dei bisogni espressi da A., il suo posizionamento dialettico mi è apparso abbastanza sterile sul piano dell’azione sociale e più efficace come antidoto personale al disagio. Ciononostante, la critica di A. al conformismo mi ha svelato come altri nuovi riti pubblici, come l’abbraccio virtuale attraverso lo schermo del premier che guarda dritto in camera mentre spiega il nuovo DPCM alla nazione, siano non meno consolatori e meno alienanti rispetto al presente.

Il negazionismo ci ricorda la violenza di quello che sta accadendo, la coercizione di misure di prevenzione a cui alcuni cittadini si stanno ribellando. Al contrario dei processi di iper-responsabilizzazione della popolazione messi in atto dalle istituzioni impotenti di fronte al virus, le voci del dissenso imputano le responsabilità dei morti e degli immani costi sociali e psicologici della pandemia all’assenza dei piani pandemici, all’incompetenza dei governanti, ai selvaggi tagli al sistema sanitario degli ultimi decenni, e puntano il dito sulle speculazioni delle lobby sanitarie.

Nel suo ultimo saggio Antropocene Fantastico, Meschiari fa presente come la pandemia di COVID-19 sia un segno evidente dei disastri climatici prodotti dall’Antropocene, e che a poco serve illudersi del ritorno alla normalità di fronte alla vastità delle trasformazioni in atto sul pianeta. La pandemia ci comunica che l’equilibrio ecosistemico è definitivamente compromesso; come stupirsi che le consuete narrative dell’Occidente, in primis quella della salute e dei farmaci, perdano di credibilità? In questo senso, limitare la reazione politica alla pandemia alla corsa ai vaccini non è altro che una misura palliativa che serve a rasserenare gli animi a brevissimo termine senza intaccare le cause che hanno generato la diffusione della malattia. Se pensiamo che basti vaccinarsi per risolvere il problema, siamo tutti negazionisti.

istock-1039318522Di fronte al negazionismo, è inutile invocare un ritorno al passato, al dominio della ragione nel dibattito pubblico, all’inibizione di altre forme di pensiero e di azione. È inutile perché anacronistico. Le scienze sociali, specialmente quelle postcoloniali, partecipative e impegnate, propugnano da decenni la svolta sensoriale, l’attenzione al corpo, alle emozioni, al non-testuale, alla narrazione, al pensiero alogico; tuttavia, il linguaggio della critica culturale (mi duole dirlo: specie quello di sinistra) stenta a passare dalla teoria alla pratica, e non è capace di elaborare forme di comunicazione emozionali e sensoriali. I negazionisti, o comunque il malcontento e l’opposizione al sistema da destra, sono più bravi a stare al passo coi tempi. Il loro linguaggio aggressivo e liberatorio si sintonizza sui desideri delle persone. Non li porta da nessuna parte, ma li raduna. Dall’altro lato, si contrappone all’aggressività della nuova classe media impoverita un superiore silenzio o la scelta di toni pacati, che nella percezione comune si legano ai privilegiati che hanno tutto da perdere dall’invenzione dei nuovi linguaggi. Escludendo l’odiosità dei toni violenti e prevaricatori del social-fascismo, la produzione culturale critica ha da imparare la necessità contemporanea di legare il linguaggio ai desideri e alle sofferenze del corpo. Ascoltare altre voci di dissenso e di decostruzione della retorica ufficiale potrebbe essere un ottimo esercizio.

La logica aristotelica che innerva buona parte dei discorsi dominanti e dei controdiscorsi a livello globale, produce divisioni binarie tra teste pensanti e menti semplici, tra gente libera e pecore, tra irresponsabili e bravi cittadini, tra verità scientifiche e mistificazioni pilotate. Queste opzioni dicotomiche possono farci sentire dalla parte giusta e convincerci che stiamo riducendo al minimo i danni (psicologici, culturali, sanitari o economici a seconda dei punti di vista) inflittici dalla pandemia, al contrario di tanti altri più stupidi o più vigliacchi; ciò funziona sia se pensiamo che insultare per strada chi non usa la mascherina sia un valido modo per contrastare il virus, sia se siamo convinti che il covid-19 non sia altro che l’ennesimo capitolo di una congiura ordita da ricchi pedofili pro dem per assoggettare il mondo. Ognuna di queste soluzioni è parziale e assolutamente inadeguata a farci comprendere ciò che ci accade. Isolare il virus dal resto dell’ecosistema in cui viviamo, maledirlo e cercarne i colpevoli, sminuirne o negarne la pericolosità, sforzarsi di prevenirlo sperando che passi presto, sono tutti modi di ridurre la pandemia a una rappresentazione bidimensionale, nel tentativo di riciclare strategie personali o di piccoli gruppi per far fronte al virus. Il problema è che nessuna di queste strategie sta ottenendo risultati soddisfacenti: ogni metodo di lettura degli eventi in corso restituisce immagini deboli, risposte parziali, luoghi comuni.

Devo allo stimolo di Dialoghi Mediterranei, al ricco dialogo con il mio amico A. e all’incontro con l’alterità dei negazionismi, se piano piano sto tornando ad avere curiosità verso quello che mi succede intorno, e sto riuscendo gradualmente a superare la paura nei confronti dei miei simili e di quello che succede fuori. Il che non vuol dire che sono meno prudente: se davvero è la paura a dettarci le norme prudenziali, se dobbiamo amplificare così tanto la nostra paura perché è l’unica arma che abbiamo per prevenire il contagio, allora veramente dovremmo iniziare a chiederci se vale la pena vivere così. 

Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
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Matera V., Rimoldi L., “Credenze, rappresentazioni e senso comune”, in Dialoghi Mediterranei, n. 47, 2021.
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Wu Ming 1, “Il mondo di QAnon: come entrarci, perché uscirne. Seconda parte”, in Internazionale, 18 settembre 2020. https://www.internazionale.it/opinione/wu-ming-1/2020/09/18/mondo-qanon-seconda-parte

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Eugenio Giorgianni, laureato in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo e in Visual Anthropology presso The University of Manchester, si è addottorato in Music alla Royal Holloway, University of London con un progetto di ricerca sulla dimensione spirituale e politica della musica della diaspora congolese, condotto attraverso la realizzazione di videoclip collaborativi. Attualmente svolge una ricerca sul femminile sacro a Palermo, nell’ambito del Programma di ricerca “Idea – Azione” promosso dall’Istituto Arrupe. Ha condotto ricerche audiovisuali su musica, migrazioni e antropologia dello spazio urbano in Italia, Spagna, Marocco, Inghilterra e Repubblica Democratica del Congo. È membro del Big Tree Collective.

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