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Islam e terrorismo. Come stanno davvero le cose

copertinadi Orietta Sorgi

Nel tempo confuso in cui viviamo abbiamo bisogno di strumenti che ci orientino nella conoscenza dei quadri storici e teorici e ci aiutino a capire le questioni che nell’attualità sembrano irrisolvibili, spesso perché inquinate da ragioni ideologiche e politiche strumentali. Certamente un tema al centro di un acceso e, a volte, sterile e isterico dibattito è quello sviluppato sui rapporti tra la religione islamica e il terrorismo, tra Islam e islamismo. Un problema nodale che enfatizzato dalla comunicazione mediatica sembra scuotere l’opinione pubblica, alimentare paure e pulsioni, fino a penetrare il sentire comune.

L’Islam non è terrorismo è il titolo di una raccolta di saggi edita di recente dal Mulino e curata da Francesca Corrao, nota orientalista, su invito di Luciano Violante, presidente di Italiadecide, Associazione per la qualità delle politiche pubbliche. L’intento del volume, come già lo stesso titolo avverte, è quello di smontare, da più punti di vista e con diverse prospettive disciplinari, quella facile equivalenza, oggi largamente diffusa nell’opinione pubblica, che identifica tutta la cultura musulmana con la più efferata espressione del fanatismo religioso e dell’integralismo.

A determinare il clima crescente di paura dell’Occidente nei confronti dei Paesi arabi, considerati tout court in un’accezione fortemente negativa, hanno di fatto contribuito gli attacchi terroristici degli ultimi decenni, in primis  quello sulle torri gemelle del 2001, che ha rappresentato una svolta epocale nel corso della storia contemporanea, provocando una cesura netta fra il prima e il dopo. Da allora il pensiero islamico è stato interamente riconsiderato in chiave eurocentrica e oppositiva, responsabile di ogni atrocità nei confronti di vittime innocenti, in nome di Allah e della promessa di un riscatto nella vita ultraterrena.

Il libro nasce dall’esigenza di conoscere come stanno realmente le cose e quanto accade oggi ai musulmani, ai diversi mondi con cui si rapportano, proponendo strumenti analitici che consentano di cogliere l’estrema pluralità dell’Islam nelle sue coordinate storiche e geografiche. Emerge uno scenario piuttosto complesso e diversificato che coniuga, nella concreta dinamica dei fatti sociali, tendenze diverse talora contraddittorie, emerse nel tempo e nello sviluppo di quelle comunità dal loro assetto tradizionale alla modernità.

Dal colonialismo al neo e postcolonialismo, si sono delineati infatti una serie di fenomeni che hanno visto da un lato il ritorno dei governi a politiche di restaurazione e conservatorismo, strettamente condizionati dalla dipendenza verso il credo religioso e la parola del Profeta; dall’altro il registrarsi di nuovi fermenti culturali e processi di rinnovamento, emersi non solo sulla scorta del modello europeo e illuminista, derivante dall’influenza del dominio francese nel Nord Africa, ma anche da un’interpretazione della tradizione diversa da quella corrente e che si ispira a princìpi di uguaglianza, libertà e tolleranza.

Da queste premesse muove il saggio di apertura di Francesca Corrao sulle rivoluzioni arabe del XXI secolo per la democrazia, meglio note come “Primavere”, in un contesto storico che parte da lontano, dall’Impero napoleonico in Egitto e dalla dominazione francese in Algeria. La presenza coloniale su quei territori determinò, nella popolazione, un atteggiamento ambivalente, diverso a secondo degli strati sociali: gli intellettuali accolsero benevolmente i nuovi influssi del riformismo e della rinascita culturale promossa dal secolo dei lumi, mentre la massa della popolazione, povera e ignorante, si andava progressivamente arroccando su posizioni arretrate, cadendo nel fatalismo religioso come difesa dal nuovo.

1La fine della Prima Guerra mondiale che segnò, con l’arrivo della democrazia, la caduta dell’Impero ottomano e la fine dei Califfati, portò alle estreme conseguenze il processo di occidentalizzazione dei governi, in modo radicale e senza alcun compromesso, generando nella società un clima di diffidenza generale nei confronti del dispotismo straniero. Basti pensare, come ricorda l’autrice, al movimento dei “Fratelli musulmani”, ispirato da una chiusura totale nei confronti del progresso, cui si opponeva il ritorno alle origini, ad una presunta età dell’oro, come strumento di liberazione della fede contro le contaminazioni del mondo occidentale, corrotto e decadente.

Tuttavia i segnali di rinnovamento ormai penetrati nelle società musulmane avevano investito anche l’universo femminile, per opera di numerosi fenomeni di rivolta delle donne, in nome della parità dei diritti e della liberazione dalla propria condizione di subalternità.

Renata Papicelli e Bochra Belhaj Hmida ripercorrono, nei loro saggi, la storia del movimento femminista arabo dalla fine dell’Ottocento fino ai giorni nostri, nelle sue alterne vicende, individuandone il tentativo, non sempre riuscito, di estendere i processi di liberazione anche alla sfera privata, domestica e familiare, più soggetta alla condizione di subordinazione. Così ancora oggi, malgrado il successo delle riforme e i diritti acquisiti, soprattutto in Tunisia, ma anche in Marocco ed Egitto, nel segno dell’uguaglianza dei generi, le società musulmane restano tuttavia lacerate da profonde divisioni, dovute ad una interpretazione radicale e fuorviante del Corano che lascia la donna in una condizione di inferiorità rispetto all’uomo.

Senza voler risalire alle Crociate come primo esempio nella storia del conflitto fra Oriente e Occidente, è certo che l’inasprirsi dei rapporti e l’adesione a posizioni integraliste del pensiero islamico appaiono oggi il risultato di molteplici fattori concomitanti, spesso generati, come vedremo, da una manipolazione simbolica del patrimonio spirituale in senso politico e pragmatico, ma anche da una politica senza scrupoli delle potenze coloniali, imperniata sull’espansione dei loro mercati e sull’assoggettamento di quelle popolazioni.

Occorrerebbe allora, come sostiene Amer Al-Sabaileh nel suo scritto, partire da una distinzione netta fra Islam e terrorismo, adottando un percorso analitico che, pur non negando le forme estreme del radicalismo religioso, si chieda in che modo la dimensione spirituale sia divenuta una prassi concreta alla base di ogni azione del comportamento umano. Di fatto, malgrado in passato il mondo islamico abbia conosciuto stagioni di tolleranza nei confronti di altre religioni, come quella ebraica e cristiana –  si ricordi a questo proposito l’accoglienza agli ebrei cacciati dalla Spagna–  è fuor di dubbio che la parola di Maometto sia stata ridotta ad uno strumento di ascesa del potere di alcuni aspiranti governatori.

Già il trasferimento della capitale dalla Mecca a Damasco, ad esempio, sostenuta e leggittimata da motivi religiosi, rivelò in realtà il tentativo politico di estendere i propri confini e la propria influenza sul Mediterraneo. Il destino e la storia dei califfati sembrarono così strettamente condizionati da interpretazioni distorte della religione, garantite anche da quelle norme giuridiche (fiqh) che discendono direttamente dalla dottrina (shari’a), imposte alle masse come segno della parola di Maometto.

2Del resto – lo ricorda Massimo Papa nel suo saggio – la figura del giurista in assenza del clero, aveva di fatto sostituito quella sacerdotale, divenendo interprete dei testi sacri, agendo per conto del Profeta e ispirando ogni comportamento dell’uomo, al fine di «promuovere il bene e proibire il male». Niente di più arbitrario. In una religione monoteistica, rivelata, che non ammette altra intermediazioni ecclesiastiche sulla terra, il diritto inteso come diretta applicazione dei testi sacri, diviene passibile di molteplici interpretazioni. La totale sussunzione della teologia nella legge e la mancanza di punti di riferimento della giurisprudenza, hanno consentito ai governanti di cogliere di volta in volta la versione più rigida dell’applicazione in senso unilaterale. Tutto questo ha finito col giustificare le posizioni aberranti dello Stato islamico e talora l’adozione di pratiche criminose, col ricorso alle fatawa, pareri giuridici emessi da esperti qualificati, per goderne l’appoggio e la legittimazione. In realtà, troppo spesso si dimentica la vera parola del Corano, soprattutto quando sanziona con pene capitali che a volte raggiungono la morte, il reato di brigantaggio, oggi facilmente assimilabile al terrorismo, autore di stragi di innocenti.

In definitiva, dal secondo dopoguerra mondiale, nuovi sistemi politici si sono autoleggittimati, invocando il ritorno al passato come età dell’oro, spingendo le masse dei cittadini ad osservare scrupolosamente modelli comportamentali anacronistici, in nome di una comunità più giusta, depurata dalle contaminazioni dell’Occidente. La discendenza diretta dei califfi dal Profeta è divenuta pertanto uno strumento di condizionamento molto efficace nel riproporre la restaurazione di un passato felice con la tacita promessa di una vita perfetta nel regno di Allah. Da qui agli intenti propagandistici dell’ISIS il passo è breve: lo jihad professa un Islam puro ed esorta i popoli ad attenersi alle sue regole e prescrizioni in maniera passiva.

Il messaggio del Corano viene ora interpretato in senso “rivoluzionario e liberatorio” secondo un progetto di islamizzazione globale. Eppure basterebbe appellarsi a quelle “virtù del musulmano” indicate nei versi sacri e qui richiamate da Ida Zilio-Grandi, che invocano princìpi di pace, tolleranza, e mediazione. Al contrario la parola divina viene ora interpretata dall’ISIS in modo rigido e letterale, e, fuori da ogni contesto storico, diviene strumento di difesa ma anche di attacco incondizionato al nemico, col ricorso alla violenza e al martirio. È il caso delle stragi più recenti, frutto dell’atto sconsiderato di gruppi sporadici di giovani emigrati di terza generazione, spesso privi di una organizzazione terroristica alle spalle e vittime a loro volta di un “doppio tradimento”: da parte della terra di origine e di quella d’arrivo, entrambe colpevoli nel non aver saputo mantenere la promessa di un’esistenza e di un futuro migliore.

Il legame fra Islam e terrorismo esiste purtroppo e non va negato a priori: occorre spiegarne le cause profonde che fanno parte di quella lunga durata che implica la messa in causa sia del pensiero occidentale che del mondo arabo. Probabilmente andrebbe sciolto quel legame indissolubile fra religione e politica, riportando la dimensione spirituale ai suoi valori più autentici e adottando una serie di riforme, che, nel rispetto della migliore tradizione spirituale, si apra all’Occidente, e non necessariamente alla cosiddetta modernità dell’Occidente, senza pregiudizi.

Anche l’Occidente dovrebbe fare la sua parte, alla luce di un modello capitalistico ormai in crisi e riflettere sulle politiche di accoglienza internazionale, promuovendo il dialogo con le culture islamiche, e favorendone i processi di integrazione. Il libro a cura di Francesca Corrao offre una preziosa chiave di lettura del fenomeno e di interpretazione delle questioni, contribuisce alla conoscenza di come stanno davvero le cose.

Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, lavora presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, dove è responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).

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