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Irene Marusso: una scrittrice di confine

Marusso_Irenedi   Piero Di Giorgi*

Ricordare Irene Marusso nel centenario della sua nascita è per me ripercorrere i sentieri di gran parte della mia vita. Ho conosciuto Irene Marusso sin dai tempi in cui frequentavo il liceo classico di Mazara, cioè oltre 50 anni fa, prima che assumesse il suo cognome d’arte, cioè la contrazione tra il suo cognome Russo e quello del marito Ignazio Marrone. Nella seconda metà degli anni ’50, ancora adolescenti, come sanno quelli della mia generazione, non c’erano molte occasioni d’incontro tra ragazze e ragazzi. Un gruppo di compagni di scuola ci riunivamo il sabato per ballare in casa della maestra Irene Russo, che era collega di mia madre, e ancora più frequentemente in quella delle sue colleghe Elena Barbera Lombardo e della maestra Urso e poi qualche volta a casa mia e di altri.

All’epoca in cui l’ho conosciuta era all’inizio della sua attività letteraria. Ho appreso in seguito che aveva già pubblicato una raccolta di poesie, Clessidra cui seguirà Uomini al sole, una raccolta di brevi racconti, entrambi stampati dalla tipografia Buffa di Mazara del Vallo e altre brevi liriche che sono poi state inserite nel libro Annotazioni pubblicato nel 1975; che, oltre a essere un’educatrice, svolgeva un’intensa attività pubblicistica, in qualità di corrispondente del Giornale di Sicilia, della Gazzetta del Sud, del Faro di Trapani e successivamente anche in riviste letterarie ambite come La Fiera letteraria. Inoltre, la figlia Lidia mi ha raccontato che Irene esprimeva la sua creatività anche attraverso un piccolo atelier, dove si facevano abiti compresi quelli da sposa.

Frattanto, io, presa la laurea, avevo lasciato Mazara e per tanto tempo non ebbi notizie della signora Russo, come io la chiamavo allora, finché il caso volle che anche Irene, raggiunta già una certa notorietà, si era trasferita a Roma e a non più di 300 metri da dove abitavo Qui la incontrai e riprendemmo un rapporto che non era più quello tra il ragazzo che dava del lei alla signora più matura ma una relazione amicale anche per l’affetto che Irene aveva per mia moglie che era stata sua alunna. Ed è per questo che nel prosieguo ho avuto l’onore di presentare qualche suo libro, in particolare a Roma, nell’aprile 1991, presso il famoso Caffè Greco a via dei Condotti e poi a Mazara. Fu in queste occasioni che ebbi modo di leggere altri suoi scritti, che in questi giorni ho riletto con l’attenzione e l’interesse che prende un lettore quando si trova di fronte a un lirismo vero e a una scrittrice autentica, che ti coinvolge attraverso la sua narrazione e ti porta a leggere tutto d’un fiato i suoi libri.

E non è certo casuale se Irene Marusso  ha avuto tanti consensi: di Lei si sono occupati Eugenio Montale, Giorgio Barberi Squarotti, Salvatore Quasimodo, Giuliano Manacorda, Giovanni Santangelo, De Rosalia, Dario Bellezza, Gaetano Salveti e tanti altri; è stata selezionata ben cinque volte per l’ambito premio Viareggio; oggi, è inserita in tante antologie tra i poeti e scrittori del ‘900.

Dopo le prime pubblicazioni mazaresi (Clessidra e Uomini al sole), cui ho già accennato, seguirà l’opera teatrale Domicilio coatto (1963), che non è un’opera teatrale in senso classico, ovvero non è divisa in atti e non vi sono dialoghi ma un caleidoscopio di vite vissute da personaggi, che entrano in scena e recitano a soggetto: dal confinato politico al filosofo nudista, dal sodomita alla meretrice, dal nero colto al delinquente comune, un ritratto di umanità sofferente e ai margini della società, descritto con garbo ed eleganza.

Per l’intanto, Irene svolgeva un’intensa attività di scrittura e partecipava a concorsi letterari in varie parti d’Italia, ricevendo tanti primi premi, medaglie e consensi e tanti commenti positivi dalla critica più avveduta. Aveva pubblicato la raccolta di poesie Io, l’africana(1958-62) e Sulla sponda del fiume a Occidente(1963-68), cui seguiva il primo romanzo Vita sul fiume (1973), in cui Irene, con uno fraseggio essenziale e compiuto, costruisce una storia semplice, all’interno dell’ambiente dei pescatori, creando atmosfere verghiane, descrivendo personaggi semplici e reali, con le loro passioni, i loro amori e le loro paure e sofferenze, senza mai indugiare su scene erotiche né retoricizzare i sentimenti.

Il punto di svolta, che costituisce anche il salto qualitativo nella poetica di Irene Marusso è, a mio modesto avviso, la pubblicazione della silloge Annotazioni (1975), per i tipi della Rebellato editore e con la prefazione del noto critico letterario Giorgio Barberi Squarotti, opera che sarà selezionata per il prestigioso premio Viareggio del 1976 e che farà conoscere Irene a un più vasto pubblico. Seguiranno i romanzi della trilogia del malessere: Una moglie frigida(1980), Umanità alla sbarra (1985) e Un uomo per una folle speranza(1990), preceduto da un’altra raccolta poetica Appigli del 1987 e fino alla sua ultima pubblicazione Metensomàtis del 1992, che ne consacra la piena maturità artistica.

La produzione letteraria di Irene non è vasta ma è ragguardevole. Lei non scriveva tanto per scrivere o come se la scrittura fosse per lei un mestiere. Scriveva quando un evento, un dato della realtà quotidiana, colpiva la sua sensibilità, le creava un’emozione, che faceva librare le ali della sua fantasia. Molti componimenti poetici sono brevi, come delle istantanee, sensazioni, percezioni dell’anima, immagini fissate sulla carta con immediatezza, levità, grazia.

Il suo itinerario poetico e narrativo si dipana attraverso un lirismo e una ricchezza di stilemi, espressione di un’inquietudine interiore e di un’attenta sensibilità a eventi e tematiche sociali, senza indulgere a giudizi etici o ideologici. Un’inquietudine, una sorta di male oscuro, che ha radici remote, una sorta di grumo inconscio. Sebbene L’Io narrante esprima, attraverso la scrittura, elementi autobiografici, cosa che, come ha detto Walter Benjamin, quando si scrive si fa sempre per conoscere la propria geografia, che è fondamentalmente una geografia dell’anima, tuttavia Irene riesce, nel suo discorso artistico, a rappresentare un’inquietudine condivisa. La scrittura si fa esercizio della memoria e Irene riesce a imprigionare nei suoi versi ricordi ed eventi personali e della sua terra, della sua Mazara, del suo fiume Mazaro, del suo Mediterraneo, lacerato da guerre e violenze.

Non so se è stato sottolineato da qualche critico, ma io trovo che c’è una trinomia nella poesia di Irene Marusso (nascita, vita e morte), che si trova anche nella già citata trilogia del malessere della narrativa. Non ha eluso i temi esistenziali, come la nascita (Dal trauma del nascere), che richiama in qualche modo il famoso libro di Otto Rank, “Le traumatism de la naissence”; e poi l’amore, l’entropia del tempo che scorre inesorabile, e la morte, talvolta con sfumature metafisiche, come per esempio nelle poesie dedicate al marito Ignazio nella raccolta Appigli, nei cui versi esprime un dolore universale per quello scandalo della morte, vissuto come separazione e perdita  assoluta, con la sua eredità del cassetto di ricordi, del rimpianto del compagno e dei giorni di gioie e dolori. La morte di cui, sin dalla nascita portiamo i segni, l’imprinting di un’entropia che dall’alfa ci conduce all’omega, a quel destino comune dei mortali, che è la più grande delle alienazioni. Irene manifesta una certa paura della morte, che cerca di superare avanzando timidamente la speranza di guardare al di là, in una proiezione d’immortalità, mentre, da vivi, affondiamo nelle sabbie mobili del nulla, in balìa alle onde solcate da cupidigia e potere. La poetessa canta la gioia e il dolore, il pulsare della vita, la freccia del tempo, che inesorabile trascorre, facendoci balenare il presagio sottile della morte, in un’altalenanza tra tristezza, dolore e speranza. Una poetica vibrante di umanità.

Irene non ha eluso i temi civili e pubblici, come la pace, le guerre, la povertà e l’emarginazione, i sequestri dei pescherecci e i naufragi dei pescatori, l’immigrazione, come in Vita sul fiume (1973), dove i pescatori piangono i loro morti per le tempeste del mare, portano la tragedia sui volti impietriti; oppure l’omosessualità maschile e femminile (Umanità alla sbarra), o la droga (Un uomo per una grande speranza); oppure ancora il tema della scuola che produce noia ai bambini, la scuola classista e selettiva, denunciata dai movimenti del ’68-‘69. E lo fa in modo colto, sempre attenta alle trasformazioni del costume, ai temi etico-sociali, magari indugiando talvolta su aspetti storico-culturali e giungendo a una sintesi tra romanzo e saggistica. In sostanza, una poetica e una narrativa colta, che dilaga in ogni ambito del sapere, sempre al confine tra realtà e immaginazione, che diventa anche una guida turistica colta e ragionata nella descrizione dei luoghi visitati, con una ricchezza lessicale, ricercatezza di stilemi, che solo raramente travalica nel didascalico, cosa non facile in una poesia civile.Un impianto narrativo scorrevole, essenziale che rende la lettura piacevole e coinvolgente, suscitando curiosità, in cui non mancano artifici narrativi e costruzioni originali della narrazione.

Per concludere, voglio fare un’ultima notazione. Alcuni critici, hanno parlato di un pessimismo cosmico leopardiano di Irene. In verità, in lei c’è una coesistenza simultanea di amore e morte,  pessimismo e speranza, dolore e gioia di vivere, tempo entropico e tempo cosmico, sogno e realtà, Dio e nulla e una capacità continua di rinnovarsi, come, d’altronde, emerge dalla stessa sua ultima opera Metensomàtische, come spiega Gaetano Salveti nella presentazione del libro, è, per l’appunto, la capacità di trasformarsi, di rigenerarsi. Un bell’articolo su quest’ultimo libro è stato scritto in “La Procellaria” del 1992, da Tonino Contiliano, poeta egli stesso e filosofo, il quale ha dedicato anche una poesia all’autrice dal titolo appunto A casa d’Irene.

Questo è, in estrema sintesi, a mio parere, il ritratto di Irene Marusso, di una poetessa e narratrice vera. È stato detto tante volte che, mentre la Sicilia orientale è stata sempre fervida di scrittori e poeti, quella occidentale, di contro, è stata povera di contributi letterari. Ecco, Irene Marusso si può ascrivere, a buon diritto, come una poetessa e una scrittrice che dà luce, non soltanto alla sua città natale e alla Sicilia occidentale ma anche all’Italia tutta.

Dialoghi Mediterranei, n.5, gennaio 2014
*Relazione tenuta in occasione del centenario della nascita della scrittrice mazarese Irene Marusso (16 Nov. 2013)

 

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