di Giuseppe Sorce
Terra sporca, terra di sogni. Pietre, sabbia, colori saturi. Lamiere e mattoni sghembi eppure tanti sorrisi. All’orizzonte fuori la mappa il luogo ove tutto è possibile. E allora ci si aggira fra i vicoli, ci si sveglia all’alba e si percorrono chilometri ad andare e venire. Lezioni, rimproveri e i sogni degli altri. E poi l’amore, quello che ti promette gioia a ogni sorriso e ti lega, catene d’oro, gabbie di piuma, perché lo sai anche tu che tutto questo potrebbe essere ancora più grande e più radioso oltre. Ma che siano le promesse e i futuri là fuori, tutto si paga. In qualche modo.
Continui le stesse strade, gli stessi volti che vorresti vedere felici, assieme al tuo, orgoglioso dopo l’impresa e la paura che ti piega forse può finire, forse può essere scavalcata d’un balzo, forte, in silenzio magari, magari lontano dagli occhi che ti osservano e che ti porterai dietro per sempre. Così inizia l’avventura. E sembra uno di quei film fra distopia e fantascienza. I protagonisti fra sabbia e lamiere appunto sognano la città (o il pianeta) degli dèi, quei super uomini resi immortali dalla tecnologia, dal denaro e dal potere. Anche i nostri protagonisti, buoni giovani eroi, ne vogliono un pezzo. E come non biasimarli. Lo vorresti anche tu, tutti lo vorrebbero.
Sono quelle storie che non lasciano spazio a dubbi o tentennamenti, lo spettatore empatizza con i protagonisti, chi è buono e chi è cattivo è chiaro da subito. I ricchi e potenti sono solitamente visti come i cattivi proprio perché non curanti dei destini di chi vive al di fuori della loro città/pianeta e soprattutto perché spesso si scopre, col procedere della storia, che uno dei potenti, il capo di solito, perpetra quell’ordine di separazione e segregazione per certi scopi ancora più nefasti. I nostri protagonisti, per contraltare, sono sempre buonissimi, mossi da intenzioni legittime, genuine e anche, spesso, per motivi che con l’incedere della narrazione, assurgeranno sempre più a scopi morali di giustizia, bene e pace sociale.
Quanti film abbiamo visto così? Quanti romanzi abbiamo letto così? Storie semplici, semplici metafore del presente dell’autore, da molto tempo se ne scrive. La distopia è sicuramente uno dei generi più abusati dalla filmografia. Storie avvincenti, molta azione, facile interpretazione, canovacci super riciclati dove ogni volta viene, se siamo fortunati, aggiunto un pezzettino in più, un’allegoria inedita magari, un tema poco frequentato chissà, ma essenzialmente la storia è sempre quella. E in queste storie il mondo dei ricchi è sempre verde e azzurro (prati ed acqua in abbondanza) mentre quello dei poveri è sempre giallo e grigio (la sabbia della desertificazione, il grigio delle abitazioni malconce).
Io capitano di Matteo Garrone (ancora nelle sale mentre scrivo) inizia così. È difficile da credere ma provate ad andare al cinema senza sapere da prima nulla sul film, la storia che racconta, l’epoca in cui è ambientata. Non ci credete? Provate a immaginare se i personaggi fossero interpretati da attori per la maggior parte bianchi, se la lingua parlata fosse l’inglese, se all’inizio del film apparisse una scritta che dice, che so, “anno 2084, Periferia di Londra”. La trama sottointesa potrebbe essere questa: la popolazione britannica colpita dalla siccità che ha investito tutto il pianeta vive in uno stato di povertà climatica aspra, i protagonisti, due giovani ragazzi, cercano di arrivare all’ultima roccaforte ricca e prospera del mondo che si trova in Islanda, l’ultimo luogo della Terra in cui il clima rimane mite e ci sono elevate risorse ambientali disponibili, il loro viaggio sarà una lotta fra la vita e la morte, affronteranno tutti i pericoli possibili e immaginabili, perfino un viaggio in mare insperato, fino ad arrivare alla metà. Fine.
Guardare Io capitano conduce all’idea che si tratta di un film dell’antropocene, molto più di qualsiasi film distopico-fantascientifico, proprio perché la storia che racconta è una storia di un adesso-qui realmente distopico, ambientata in un luogo geografico molto vicino a noi pubblico italiano, nello stesso tempo in cui andiamo a vederla su uno schermo. È difficile da accettare? Sì. Amplifica il dramma che vorrebbe ritrarre a mezzo filmico? Sì. Ci ricorda in che mondo privilegiato viviamo noi, e in che mondo devastato – con molte colpe dell’Occidente coloniale – vivono gli altri? Sì. Ci mostra tutte le storture del mondo contemporaneo che spesso facciamo finta di non vedere e non ricordare? Sì. Ci fa sentire un po’ in colpa? Sì, probabilmente non tutti, ma sì.
Non sono mai stato in Africa, ho amici migranti, uno dei quali ho avuto la fortuna e il privilegio di intervistare proprio qui per Dialoghi Mediterranei [1], e per tali ragioni mi sento di dire che Io capitano, per quanto crudo e drammatico, nonostante il taglio documentaristico che talvolta caratterizza la regia di Garrone, è abbastanza edulcorato nell’illustrare ciò che succede ai migranti che provengono del sud del Sahara. Per forza di cose, credo, nel suo volersi porre verso un pubblico più largo possibile. É pur sempre un film che inoltre fa dell’estetica parte del fascino che – altro taglio che caratterizza lo stile del regista – vuole più essere fiaba che cronistoria. Lo stesso Garrone ha parlato in varie interviste di “epica contemporanea” e di “giovani migranti come eroi”, di “romanzo di formazione” e “speranza”[2].
Tutti elementi che si confanno al film e il cui approfondimento potete ritrovare online in altri interventi del regista. Pertanto e anche per il fatto che di migrazioni è capitato anche a me di occuparmi qui su Dialoghi e in altre sedi, studiando quindi il fenomeno da svariati punti di vista (penso agli studi culturali, all’antropologia e alla geografia, discipline che frequento dagli anni universitari) ho deciso di andare al cinema mettendo da parte tutto questo bagaglio di conoscenze, informazioni, idee e opinioni per guardare al film e il film come una storia appunto, una fiaba pura, un film in quanto tale.
Io capitano è un film dell’antropocene non solo perché vuole mostrare una realtà sociale frutto dell’antropocene ma anche perché riflette sui punti chiave dell’antropocene restituendoci una microfinestra su un mondo in cui il passato (coloniale) e il futuro (climatico) entrano in una collisione che ci riguarda già, a noi spettatori, direttamente. Perché il punto non è guardare i protagonisti come “gli altri” che arrivano da noi ma immaginare che presto quegli “altri” saremo noi, che il colonialismo ha sempre un risvolto drammatico anche per il colonizzatore, che la libertà di movimento, i confini, i diritti umani, non valgono sempre, comunque e dovunque, che il deserto – reale e metaforico – avanza travolgendo tutto, che il mare è stato e sarà un elemento disturbante e non solo un luogo di ristoro durante una mite estate, che le milizie armate esistono e noi ci facciamo affari, che con la corruzione bisogna farci i conti non solo moralmente, che una mattina puoi svegliarti sotto delle bombe oppure venire privato della tua identità anche al di qua del Mediterraneo, che un giorno puoi chiamare aiuto perché hai l’incendio a dieci metri da casa ma non arriva nessuno ad aiutarti o il fiume esonda e perdi tutti gli sforzi di una vita, che un altro giorno puoi voler partire ma non vogliono lasciarti andare. È questo e tanto altro Io capitano, “sapevamo di che parlava” sentivo dire all’uscita dalla sala, e invece no, non lo sapevate e il vero dramma è che continuerete a non saperlo finché quel deserto e quel mare senza scampo non entreranno dalla porta di casa vostra senza bussare.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2024
Note
[1] https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/lintervista-impossibile/
[2]https://www.capital.it/articoli/film-matteo-garrone-intervista-venezia-2023-io-capitano/; https://palermo.repubblica.it/societa/2023/10/17/news/matteo_garrone_i_migranti_sono_gli_eroi_di_oggi-418021457/
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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