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Il terzo punto del potere. Strategie di legittimazione della regalità Zulu

 

Bracciali scambiati all'interno del circolo kula

Bracciali scambiati all’interno del circolo kula

di Nicola Martellozzo 

Coralli, gioielli e regnanti 

«Quando, dopo un’assenza di sei anni trascorsi nei Mari del Sud e in Australia, ritornai in Europa e feci la mia prima visita turistica al Castello di Edimburgo, mi furono mostrati i gioielli della corona. [...] Mentre li guardavo e riflettevo quanto fossero brutti, inutili, sgraziati e perfino di cattivo gusto, ebbi la sensazione che qualcosa del genere mi era stata raccontata da poco e che avevo visto parecchi oggetti di questo tipo che mi avevano fatto un’impressione simile. Mi apparve allora dinanzi la visione di un villaggio indigeno costruito sul suolo corallino e di una piccola, traballante piattaforma eretta provvisoriamente sotto una tettoia di pandano, circondata da una quantità di uomini bruni e nudi, uno dei quali mi mostrava delle lunghe collane sottili e rosse e dei grandi oggetti bianchi logori, rozzi a vedersi e unti al tatto» (Malinowski 2011: 107). 

È un brano che quasi ogni studente di antropologia ricorda molto bene. In poche frasi Malinowski descrive non solamente il suo personale straniamento, ma anche quella capacità propria dell’antropologia di problematizzare il familiare – ciò che risulta spesso invisibile dietro la sua normalità – attraverso reti di somiglianze con altri contesti culturali. Una propensione che col tempo in molti si fa habitus, sguardo applicato al quotidiano. Ecco che leggendo dell’incoronazione del principe Misuzulu in Sudafrica, il 29 ottobre 2022, mi ritrovai a ripensare all’altra e ben più famosa incoronazione avvenuta quasi due mesi prima, a Londra. Carlo III e Misuzulu Zulu, due sovrani contemporanei in un mondo di Stati democratici o quasi, in una società che si vuole post-moderna, immune alle ideologie, ma dove una folla piange disperata la morte di una sovrana che ha visto solo in televisione, e dove si può essere arrestati per aver esposto un cartello con su scritto “Abbasso la monarchia”. Si potrebbero moltiplicare gli esempi di questi apparenti paradossi creati dal contrasto tra narrazioni e prassi; e come l’indagine sul kula permise a Malinowski di evidenziare i limiti della concezione d’un homo economicus universale, costantemente teso al profitto e al soddisfacimento razionale di desideri razionali, sovrapporre le immagini di questi due sovrani insediatisi nel 2021 rievoca di colpo tutta la complessità del potere e delle sue espressioni culturali. Ostinati come siamo a pensarci al culmine della storia, dimentichiamo a volte che le nostre istituzioni hanno una vita assai breve; e che mentre le democrazie hanno a malapena due secoli di vita, i re esistono fin dai tempi delle tavolette d’argilla.

Con un simile carico di millenni, non sorprende che la regalità sia uno dei dispositivi culturali più raffinati per modellare il potere. Del resto, ogni fenomeno politico deve sempre confrontarsi con i problemi di questa categoria trasversale, che possiamo articolare in tre questioni fondamentali: l’istituzione del potere, inteso come instaurazione di un ordine, la sua legittimazione, ovvero il suo riconoscimento come autorità, e la sua trasmissione, cioè un meccanismo sociale che ne permetta la continuità. La successione al trono è pertanto una questione della massima importanza per ogni sovrano, in quanto deve assicurare che il potere (e ciò che da esso deriva) sopravviva senza essere disperso altrove, in altre istituzioni o in altre persone. Tuttavia – se ci è concesso questo gioco di parole – la necessità del sovrano di far sopravvivere il potere si scontra con il timore di sopravvivere al potere. Elias Canetti, che come pochi altri ha esplorato questo problema, riporta una leggenda riguardo Shaka, il primo monarca del regno Zulu; egli era 

«un uomo valorosissimo, [che] non vinse mai l’angoscia di avere un figlio. Aveva 1200 mogli che ufficialmente portavano il titolo di “sorelle”. Era loro proibito di restare incinte: la gravidanza veniva punita con la morte. Sua madre, l’unica creatura al mondo cui fosse affezionato e della quale gli era indispensabile il consiglio, desiderava ardentemente un nipote, e quando una moglie rimase incinta la nascose presso di sé e l’aiutò a partorire un bambino. Questi crebbe presso di lei, in segreto, per alcuni anni. Ma un giorno Chaka [sic], recatosi dalla madre, la sorprese mentre giocava con un bambino. Subito comprese che era figlio suo e lo uccise sul posto con le sue stesse mani. Egli non riuscì comunque a eludere il destino che temeva: a quarantun anni fu ucciso, anziché da un figlio, da due suoi fratelli» (Canetti 1974: 26). 

In questa storia brutale leggiamo in filigrana quella tensione tra sovrano e sovranità di cui l’antropologia si è occupata fin da Frazer, con il regicidio del re Shilluk. La stessa tensione si trova, anche se non del tutto esplicitata, nelle riflessioni di Canetti; il desiderio di unicità del re – il desiderio di sopravvivenza agli altri che per il pensatore bulgaro fonda il potere – si scontra con l’impossibilità di essere l’unico re, ossia di far coincidere la persona mortale con l’istituzione sociale. E tuttavia, come vedremo, ogni sovrano è chiamato a incarnare la regalità e darle delle forme che, per quanto rigide e canoniche, sono in costante dialogo con il contesto storico che si trova a vivere, specie per quanto riguarda le fonti della sua legittimità. È sotto quest’ottica che ci accingiamo ad analizzare le implicazioni culturali della regalità Zulu per come è assunta ed espressa dal nuovo sovrano. Non come elemento a sé, estrapolato dal contesto, ma inestricabilmente intrecciato alle eredità storiche, alle dinamiche politiche, e agli immaginari sociali.

Questo articolo è il tentativo di restituire complessità – parola problematica, ultimamente – all’incoronazione di Misuzulu Zulu, ottavo successore al trono di Shaka. Non per inseguire il feticcio dell’esotismo e dello stupore fine a sé stesso, ma per ritrovare la sensazione provata da Malinowski davanti ai gioielli della Corona. E per ribadire come l’antropologia abbia la possibilità – quando non il compito – di offrire sguardi diversi sulla realtà che circonda, evidenziando il costante intreccio di analogie, echi e somiglianze nei modi in cui gli uomini danno forma al loro mondo. 

Misuzulu Zulu, nono re della dinastia]

Misuzulu Zulu, nono re della dinastia

L’incoronazione di Misuzulu Zulu 

L’elezione di Misuzulu kaZwelithini è un avvenimento particolarmente significativo per la politica sudafricana. Nonostante le dispute legali con parte della famiglia reale, la sua intronizzazione è stata ufficializzata dal riconoscimento del presidente sudafricano Ramaphosa – come previsto dal Traditional and Khoi-San Leadership Act (2019) – e con il sostegno del politico Mangosuthu Buthelezi, parente e primo ministro del precedente sovrano. Se la morte della regina Elisabetta ci ha ricordato che viviamo in un mondo dove l’istituzione della regalità esiste ancora, e in modo affatto marginale, l’incoronazione di Misuzulu dimostra come tali dispositivi culturali siano tutt’altro che residui storici; la sua ascesa al trono è l’esito di una profonda riarticolazione della regalità Zulu, in cui convergono processi politici e sociali di lungo periodo.

La fondazione del regno e della dinastia regale Zulu si devono a Shaka, le cui imprese militari portarono alla conquista di un’ampia zona del moderno Sud Africa. Questo regno indipendente venne basato su una società fortemente irregimentata, in cui la massima parte della popolazione maschile era impiegata nell’esercito (Gluckman 1940: 31). Giova riprendere le nozioni graeberiane di regalità sacra e divina; quest’ultima è definita come «la capacità di agire come se si fosse un dio; uscire fuori dai confini dell’umano ed elargire favore, o distruzione, con arbitrarietà e impunità» (Graeber & Sahlins 2019: 12). È importante notare che non stiamo parlando di un’equiparazione del re alla divinità, ma di un sovrano che si comporta come un dio. Mentre nella regalità divina il re si trova in un ordine “altro” rispetto alla comunità, in quella sacra vi è una netta separazione dalla sfera quotidiana, con spazi e rituali riservati. Tutto ciò ben si applica alla società militarizzata creata da Shaka, prima strumento di conquista e successivamente fonte di ordinamento legale, passando in altre parole da una regalità divina ad una sacra. Anche gli atti di violenza arbitraria che caratterizzano la vita e le leggende di Shaka – dallo sterminio di nemici all’uccisione brutale del figlio – rientrano nello schema della regalità divina, accentrandosi nella figura assoluta del sovrano Zulu. Possiamo quindi rileggere quel timore di avere figli – legato al desiderio di unicità di cui parla Canetti – come un rifiuto della sacralizzazione operata dalla comunità sul re.

La congiura dei due fratellastri di Shaka portò Dingane al potere, che mantenne nei dodici anni successivi attraverso una serie di epurazioni nel governo e nella famiglia. Il secondo sovrano Zulu fu anche l’ultimo a salire al trono senza il supporto di potenze esterne. Egli infatti venne spodestato e ucciso nel 1840 da Mpande, altro fratellastro di Shaka, aiutato dalle truppe boere (Kennedy 1981). Tuttavia, le ricerche di Gluckman attestano che ancora agli inizi del Novecento il re rimaneva il punto focale dell’identità Zulu, contrapposte alle altre comunità swazi, bantu ed europee (Gluckman 1940: 40). Ma come Kantorowicz ha dimostrato, l’istituto del re e la sua persona fisica coincidono solo temporaneamente, e ogni sovrano deve obbedire a canoni morali e performativi precisi per rimanere tale. I monarchi Zulu dipendono dal mantenimento di una forte integrità morale e dal consenso della comunità, legato alla prima. 

«The Zulu nation may therefore be defined as a group of people owing allegiance to a common head (the king) and occupying a defined territory. In addition to controlling relations with other Bantu-speaking peoples and the Europeans, the king exercised judicial, administrative, and legislative authority over his people, with power to enforce his decisions» (Gluckman 1940: 30). 

Una figura centrale per la riarticolazione della regalità Zulu fu quella di Solomon kaDinuzulu: nato sull’isola di Sant’Elena – dove i britannici avevano esiliato il padre – dovette ricostruire lentamente il ruolo di sovrano su due fronti: la credibilità e il sostegno della comunità Zulu e la legittimazione in relazione allo Stato coloniale. La situazione ereditata da Solomon era gravata dal peso delle azioni dei suoi predecessori: il nonno Cetshwayo perse la Prima guerra zulù contro l’esercito britannico nel 1879; dopo aver ottenuto il favore della Regina Vittoria gli venne assegnato il ruolo di governatore di un piccolo regno, salvo essere ucciso da un rivale. Il figlio Dinizulu, padre di Solomon, riguadagnò lo Zululand alleandosi con politici e mercenari boeri, per poi essere processato e condannato dal governo britannico per tradimento. Già con le vicende di Cetshwayo iniziò ad affermarsi un modello di sovranità che trova la fonte maggiore di legittimazione in un potere esterno. Inoltre, il governo coloniale britannico intaccò fortemente la dimensione militare della società Zulu, sostituendo l’esercito – legato al sovrano – con un ufficio di polizia – dipendente dal governo, privando il re di una fonte fondamentale del proprio potere (Gluckman 1940: 47).

Questa progressiva erosione delle fonti tradizionali di legittimazione della regalità costrinsero i successivi sovrani Zulu ad un cambio radicale di strategia: anziché scontrarsi con l’amministrazione coloniale ne ricercarono consapevolmente l’approvazione; al contempo, tentarono di legittimare il proprio diritto a regnare in altri modi, guadagnando il consenso della comunità e rischiando di inimicarsi per questo il governo britannico. Con il Novecento ebbe inizio un delicato gioco fatto di equilibri, compromessi e minacce, che però permise a Solomon di riguadagnare gradualmente un ruolo effettivo nella politica sudafricana: 

«In 1906 and 1916, the existence of rumours that centred on the person of the Zulu ‘king’ – whether Dinuzulu or Solomon – had in fact less to do with the Zulu ‘king’ than with a more generalized social ferment. On these occasions, the ferment was primarily related to the land and taxation policies of the state. In 1920, there is strong cause to believe that the unrest was related to the growth of African political militancy that found expression in the urban areas shortly after the first world war» (Cope 1985: 132). 
Edoardo VIII duca di Windsor (1951)]

Edoardo VIII duca di Windsor (1951)

Questo fermento interno alla comunità venne catalizzato dal viaggio in Sudafrica del futuro re del Regno Unito (allora Principe di Galles) Edoardo VIII, nel 1925. Le cerimonie pubbliche organizzate dal sovrano Zulu vennero usate strategicamente da Solomon per aggirare il controllo ostile del governo coloniale; al tempo stesso, l’incontro tra i due nobili venne presentato – in modo più o meno deliberato – come un accordo e un mutuo riconoscimento tra la Casa di Windsor e la dinastia Zulu. Tale “accordo” si poneva pertanto su un piano simbolico e morale superiore rispetto a quello dell’amministrazione civile, appellandosi a riferimenti culturali della stessa; ma l’appello funzionava in entrambi i sensi, e qui sta l’abilità di Solomon: riuscire a mettere in comunicazione due piani culturali usando la regalità come ponte, guadagnando in legittimità agli occhi del suo popolo con un gesto di formale sottomissione al potere coloniale. Eppure: 

«the British royal family appealed to the monarchical sentiments so ingrained in the tribal worldview – at the heart of which was the notion that political legitimacy was in the first instance imputed by birth. If Solomon naturally stood at the apex of the Zulu social and political order in the imaginations of the vast majority of the Zulu, the Zulu also had a more detached and ethereal monarchy in the British royal family» (Cope 1985: 204). 

Questa rappresentazione, pur priva del sostegno coloniale, venne rinforzata da una vera e propria campagna di “brandizzazione” del sovrano, perfino a livello commerciale e pubblicitario (Cope 1985: 210-211). La strategia del sovrano ebbe successo, al punto che «although the NAD had denied Solomon a political constituency beyond the confines of the Usuthu ward, Solomon had by now established himself as the figurehead of the Zulu people» (Cope 1985: 130). C’è da dire che il suo successore, Cyprian Bhekuzulu, non fu altrettanto abile; le dispute per la sua elezione cessarono solo quando il governo bianco sudafricano decise di sostenerlo e riconoscerlo pubblicamente, cosa che portò molti nella sua comunità a ritenerlo debole e simpatizzante delle politiche di apartheid. In effetti, sotto il suo regno in Sudafrica presero piede una serie di trasformazioni legali e sociali che portarono infine alla creazione dello Stato di KwaZulu, nel 1970, forzando il trasferimento della popolazione Zulu secondo Bantu Homeland Citizenship Act. Dopo l’apartheid vi fu un ampliamento amministrativo con l’inclusione di territori limitrofi, che formano l’attuale provincia di KwaZulu-Natal. In questi anni decisivi regnò Goodwill Zwelithini (kaBhekuzulu), morto nel 2021 a causa del Covid-19. La difficile transizione del Sudafrica dovuta alla fine dell’apartheid fu accresciuta dalle pressioni dell’Inkatha Freedom Party (IFP) e di Goodwill per avere garanzie sul riconoscimento della sovranità Zulu. Le forti richieste di autonomia, che si accompagnarono finanche ad episodi violenti, costrinsero il presidente De Klerk e Nelson Mandela a intavolare negoziati appositi.

Mangosuthu Buthelezi, primo ministro del re Misuzulu

Mangosuthu Buthelezi, primo ministro del re Misuzulu

La pressione maggiore proveniva dalle rivendicazioni dell’IFP e dal suo fondatore, Mangosuthu Buthelezi, zio di Goodwill e suo primo ministro. L’anziano rappresentante Zulu è una figura fondamentale della politica sudafricana: attivo fin dai tempi di Cyprian Bhekuzulu, Buthelezi rivestì il ruolo di governatore politico della regione di KwaZulu dal 1970 al 1994, diventando poi ministro per gli Affari interni sotto il governo Mandela. Negli anni Novanta il suo movimento politico rischiava di tramutarsi in uno strumento per la mobilitazione etnica, similmente a quanto è accaduto in Sud Sudan all’indomani dell’indipendenza, quando i vari battaglioni del Sudan People Liberation Army (SPLA) divennero correnti politiche separate, rivendicando istanze autonomiste; in quel caso molti ex-generali ricorsero alla loro influenza e a retoriche identitarie per mobilitare e fidelizzare i “propri” gruppi, portando infine alla guerra civile. La situazione del Sudafrica nei primi anni Novanta condivide con il Sudan post-indipendenza una fase di profonda transizione e riorganizzazione statale, acuita dalle rivendicazioni autonomiste di specifiche comunità, sulla base di categorie etniche. Tuttavia, uno degli elementi che permise il disinnesco di questa tensione fu la capacità dimostrata dal leader Zulu di “sganciarsi” dalle componenti più intransigenti e problematiche della sua comunità, in particolare dall’IFP e dalla sua guida politica.

Non è un caso che i rapporti tra il sovrano e il suo primo ministro entrarono in crisi proprio nel 1994. Il punto di rottura venne raggiunto all’approssimarsi della celebrazione in onore del fondatore Shaka: una coincidenza assolutamente significativa, dato il suo significato per la regalità Zulu; se, infatti, la celebrazione per l’insediamento del sovrano riguarda una persona fisica specifica, incarnazione temporanea della sovranità, la festa in onore di Shaka riguarda il fondamento stesso dell’istituzione regale e del lignaggio che ne detiene il controllo; cui, tra l’altro, appartenevano sia Goodwill che Mangosuthu. Voci non confermate suggerivano che il re volesse rimuovere lo zio dal suo incarico, nominando un altro membro della casata. Buthezeli spostò il luogo dell’evento, facendo partecipare migliaia dei suoi sostenitori come dimostrazione di forza. Il coinvolgimento del presidente sudafricano fu più di una semplice formalità: una delle sue figlie infatti aveva sposato un altro membro della casata reale Zulu, rinforzando con la parentela un’alleanza politica. Negli anni successivi Goodwill ricercò una maggiore autonomia nell’alleanza politica con l’African National Congress (ANC), sganciandosi dall’IFP che progressivamente perse la propria influenza nella politica sudafricana, diventando un partito minore. La lezione è stata perfettamente compresa dal figlio Misuzulu, nella ferma richiesta di rimuovere la propria immagine dalla campagna elettorale dell’Inkatha Freedom Party, che continua nella sua rivendicazione di istanze indipendentiste della comunità Zulu. Il gesto del nuovo sovrano non va letto, pertanto, come un rifiuto verso la politica sudafricana, bensì come una riaffermazione della propria autonomia rispetto ad essa e in particolare nei confronti dell’IFP. Come il bisnonno Solomon, questo atto pone la regalità Zulu su un piano simbolico superiore a quello della quotidianità politica: ma mentre il sesto sovrano reagiva a una fonte di potere esterna e di carattere coloniale (l’amministrazione civile britannica), Misuzulu applica la stessa tattica nei confronti di una fonte interna alla propria comunità. 

Kwongo Dak Padiet

Kwongo Dak Padiet, re del regno Shiluk

Legittimazione morale come fonte d’autorità 

Da Cetshwayo in poi, la legittimità dell’istituto regale Zulu dipende da una fonte esterna, una condizione ribadita solo qualche anno fa con il Traditional and Khoi-San Leadership Act. In questo senso la moderna normativa sudafricana è in piena continuità con le leggi coloniali e del periodo dell’apartheid; non nel senso che continuano a manifestare le medesime politiche razziste di dominazione, ma nel fatto che puntano a subordinare la regalità Zulu al potere statale, svuotandola di ogni autonomia e riservandosi finanche di intervenire nelle modalità di successione al trono. Questa situazione si presta a un interessante parallelo con il caso dell’istituto regale Shilluk, in Sud Sudan, che subì anch’esso una lunga dominazione britannica.

Con l’elezione del ventisettesimo sovrano (il reth) diventa manifesta una rotazione tra tre dei principali rami del clan regale. Questa alternanza è stata riconosciuta dagli stessi antropologi: Gluckman la descrive come una rotazione dei segmenti territoriali rappresentati dalle casate reali (Gluckman 1963: 131), mentre Arens ne parla nei termini di un sistema polidinastico (Arens 1979: 174). A prescindere dall’etichetta, questo sistema rappresenta bene ciò che Weber chiama Veralltäglichung (Weber 1968: 452), ossia una routinizzazione delle modalità di trasmissione del potere, che nella società Shilluk assume una forma istituzionale sotto l’egida del Condominio britannico. In sostanza, la rotazione dei tre lignaggi divenne un nuovo e prezioso strumento politico per l’indirect rule britannico, attraverso cui il governo coloniale cercò di irregimentare razionalmente la trasmissione del potere e tenere sotto controllo il potenziale eversivo dei pretendenti al trono; in altri termini, un contenimento della regalità tradizionale.

A questo punto ci si potrebbe aspettare che, libero dal dominio coloniale e relativamente autonomo rispetto al governo sudanese, il regno Shilluk abbia interrotto la rotazione delle casate. Invece, l’elezione del trentatreesimo reth Ajang Anei ha inaugurato la terza serie di alternanze, continuata anche con l’installazione dell’attuale sovrano e perfino nel tentativo (fallito) di sostituirvi un nuovo reth fantoccio (ST 2016). In una simile persistenza dobbiamo riconoscere l’efficacia del governo coloniale nel razionalizzare e regolare il carattere fondamentalmente competitivo e carismatico dell’istituzione regale (Schnepel 1991: 62), inducendo una «stabilità artificiale» nel regno (Howell 1952: 102). E tuttavia, le azioni dell’attuale sovrano Kwongo Dak Padiet dimostrano come sia possibile bypassare perfino simili dispositivi culturali. Come ho avuto modo di anticipare altrove (Martellozzo 2021), le sue attività di mediazione sociale e di negoziatore internazionale costituiscono delle performance morali, attraverso cui il sovrano produce consenso attorno alla sua figura pubblica. Si tratta di un tentativo di trasporre la propria tradizionale autorità morale – ormai limitata – all’interno del nuovo contesto storico; il conflitto civile sud-sudanese viene interpretato come una forma estesa di faida sociale: non più una guerra privata tra gruppi di parentela, ma una guerra pubblica tra comunità confinanti.

Anche una figura di Mangosuthu Buthelezi, appartenente alla casata reale e politico di spicco nel governo nazionale, trova un parallelo nel regno Shilluk. Si tratta di Othwon Dak Padiet, fratello maggiore del reth. Fin dal 1975 è stato ministro nel governo sudanese, occupandosi in particolar modo dello Stato di Upper Nile, nel quale è collocato il regno Shilluk. Nonostante il suo coinvolgimento ad alti livelli nel governo sud-sudanese, rimane una figura oscura, anche se molto più engagé del sovrano. Nel 2004 venne alla luce il suo coinvolgimento in una serie di attacchi ai danni della sua stessa gente, cosa per cui Othwon chiese e ottenne il perdono dal fratello monarca; viene anche “accusato” dalla sua comunità di aver permesso il ricollocamento di rifugiati Nuer presso la ribattezzata New Fangak, dopo l’alluvione che distrusse l’insediamento originario. È difficile cogliere la ragione del biasimo verso questo gesto umanitario, se non si tiene conto delle tensioni storiche tra la comunità Shilluk e quella dei vicini Padang Dinka, esacerbate da decenni di conflitti civili nella regione. Certamente manca in Othwon quella costante rivendicazione autonomista, anche in contrasto con il governo nazionale, che invece ha sempre contraddistinto la politica di Mangosuthu. E tuttavia entrambi hanno costruito la propria carriera attraverso il supporto della loro comunità, scegliendo un tipo di politica più “canonico” rispetto a quello dei loro parenti sovrani (entrando talvolta in conflitto con quest’ultimi), ma appellandosi ai medesimi riferimenti identitari ed etnici.

Dal confronto – per quanto limitato – tra questi aspetti della regalità Shilluk e Zulu, notiamo come le forme “classiche” di legittimazione dei sistemi di autorità (legale, tradizionale, carismatica, Weber 1968: 212-301) non siano più sufficienti a descrivere certi fenomeni e strategie politiche moderne. Nell’ultimo decennio la necessità di espandere le categorie weberiane è stata avvertita sia da organismi internazionali che da vari settori delle scienze sociali (Levi 2018; Pardo & Prato 2019). Tra le quattro fonti di legittimazione a disposizione degli Stati moderni l’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development) elenca la «performance legitimacy, defined in relation to the effectiveness and quality of public goods and services (in fragile situations, security will play a central role)» (OECD 2010: 8). Una categoria sviluppata nel quadro della governance multi-livello, e che ha trovato un’applicazione particolarmente favorevole nell’analisi dei grandi Stati asiatici, Cina in primis. Zhao ha applicato per primo questa modalità di legittimazione alle vicende politiche della Cina contemporanea, la cui autorità viene «justified by its economic and/or moral performance and by the state’s capacity of territorial defense» (Zhao 2009: 418); una performatività particolarmente evidente nelle rivendicazioni territoriali nei confronti di Taiwan, nel Mar Cinese meridionale e finanche nelle politiche di land-grabbing in Africa.

King Goodwill Zwelithini

King Goodwill Zwelithini, re della Nazione Zulu

Tuttavia nemmeno questo tipo di legittimazione può funzionare da solo: le numerose proteste scoppiate da novembre in numerose città cinesi, contro le rigidissime norme anti-covid che effettivamente hanno ridotto i contagi, dimostrano come l’ordine morale di riferimento con cui viene “misurata” la performatività rimanga comunque l’esito di una negoziazione tra istituzioni e comunità (al plurale). I governi asiatici non sono gli unici contesti in cui tali considerazioni sono valide: le ricerche di Bereketeab nel Corno d’Africa (Bereketeab 2020) mostrano come il sopravanzare di un’unica forma di legittimazione possa innescare squilibri nelle istituzioni, in un circolo dove perdita di legittimazione e scarsa performatività si rinforzano a vicenda.

Come il reth Shilluk, anche i sovrani Zulu hanno cercato di rimodulare la loro autorità tradizionale – poco più che formale – nel Sudafrica post-apartheid. Le azioni di Misuzulu e di suo padre Goodwill Zwelithini riecheggiano quelle del loro antenato Solomon kaDinuzulu, nella misura in cui il sesto regnante diede un nuovo senso alla concezione di integrità morale. Il ricorso alla Casa reale britannica come fonte indiretta di legittimazione fu l’innesco che permise a Solomon di affermare la propria autorità agli occhi della comunità Zulu e a dispetto del governo coloniale. Non potendo influenzare realmente la politica sudafricana del tempo, spostò la sua azione su un piano parallelo e simbolicamente superiore, ossia quello di guida e riferimento identitario della propria comunità; ciò portò ad un cambio di paradigma: egli non doveva “compromettersi” con la politica profana, accentuando la dimensione sacra della sua regalità (sempre nel senso di Graeber) e lasciando campo libero all’ascesa di politici Zulu di mestiere come Mangosuthu Buthelezi. Goodwill, e ora suo figlio, hanno continuato a esercitare la propria regalità nel solco segnato da Solomon, ribadendo l’aspetto di separazione e l’integrità morale del loro operato. Questo vale anche nei confronti della propria comunità, e in tal senso va letta la presa di distanza dei due sovrani dalle istanze autonomiste dell’IFP. Essi si presentano agli occhi del governo sudafricano, della comunità Zulu e della più ampia platea internazionale come figure integre e affidabili, capaci di dialogare con altri leader politici ma senza confondersi con essi.

La sacralizzazione della regalità tanto avversata da Shaka e dai primi sovrani ha trovato, in queste performance morali, un’insperata fonte di legittimazione. Essa si combina con il riconoscimento formale del governo sudafricano (legittimazione legale) ed è chiaramente dipendente dalle capacità personali del singolo re (legittimazione carismatica); e tuttavia, queste due fonti d’autorità non sarebbero capaci da sole di assicurare al sovrano Zulu un potere effettivo, e anzi tenderebbero a entrare in collisione l’una con l’altra (Bereketeab 2020). L’aspetto performativo agisce come terzo e fondamentale punto d’appoggio, garantendo stabilità all’istituzione regale Zulu. Una riconferma di come questo dispositivo culturale, vecchio di secoli, mantenga ancora la sua capacità di adattamento, laddove perfino imperi e democrazie scricchiolano. 

Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023 
Riferimenti bibliografici 
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Canetti, Elias, 1974, Potere e sopravvivenza, Milano: Adelphi. 
Cope, Nicholas L.G., 1985, The Zulu Royal Family under the South African Government, 1910-1913: Solomon KaDinuzulu, Inkatha and Zulu Nationalism, PhD Thesis, University of Natal (Durban). 
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Graeber, David, Sahlins, Marshall, 2019, Il potere dei re, Milano: Raffaello Cortina. 
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Malinowski, Bronisław, 2011, Argonauti del Pacifico Occidentale, Torino: Bollati Boringhieri. 
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Nicola Martellozzo, dottorando presso la Scuola di Scienze Umane e Sociali (Università di Torino), negli ultimi due anni ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM 2018; SIAC 2018, 2019; SIAA-ANPIA 2018). Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari su Ernesto de Martino in collaborazione con l’Università di Bologna. Ha condotto periodi di ricerca etnografica nel Sud e Centro Italia, e continua tuttora una ricerca pluriennale sulle “Corse a vuoto” di Ronciglione (VT). Ha pubblicato recentemente la monografia Traduzioni del potere, Quaderni di “Dialoghi Mediterranei” n. 2, Cisu editore (2022).

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