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Il respiro delle riviste

1di Alberto Giovanni Biuso

L’utilità e il danno del digitale per le riviste 

Ci sono i libri. Essi costituiscono il cuore della conoscenza e della sua trasmissione nel tempo, tra le generazioni degli umani. Lo fanno da millenni, nelle diverse soluzioni tecniche e formali che dalla corteccia alle tavolette d’argilla, dal papiro/volumen al Codex medioevale sono arrivate al libro propriamente inteso, a quell’insieme di pagine dentro le quali e attraverso le quali si condensa la capacità umana di osservare il mondo, interpretarlo, tenerne nota, pensarlo.

La filosofia e le scienze dell’età moderna hanno aggiunto al libro altri strumenti più agili, plurali, condivisi: le riviste. Nate dalle varie Società scientifiche delle quali gli Stati più potenti si dotarono a partire dal XVIII secolo, le riviste hanno avuto il loro secolo di trionfo nel Novecento, quando nuove tecnologie di stampa e strumenti di comunicazione più veloci hanno contribuito a mettere in contatto tra di loro studiosi di ogni parte del mondo nella fondazione, gestione, distribuzione e conoscenza di questi spazi di scambio, riflessione, analisi, polemica. Riviste che si sono anche progressivamente e inevitabilmente specializzate, data la proliferazione inaudita delle conoscenze rispetto ai secoli precedenti. Il Novecento è stato il secolo nel quale le riviste scientifiche e letterarie si sono capillarmente diffuse diventando in molti casi documenti imprescindibili per la ricostruzione anche storiografica di un’età, di una corrente estetica o teoretica, di una scuola, di un movimento o partito politico. Chi ha vissuto in quel secolo conosce bene il piacere di cercare e trovare nelle biblioteche, nelle librerie e a volte anche nelle edicole quelle testate graficamente raffinate o spartane, dai contenuti plurali e capaci di fare compagnia ovunque, come e più di un libro: aule, mezzi pubblici, salotti di casa.

La trasformazione digitale della comunicazione iniziata negli anni Novanta del XX secolo ha riguardato a fondo il mondo dei libri e delle riviste, producendo a volte delle autentiche metamorfosi, spesso la cessazione delle pubblicazioni ma di frequente anche la nascita di nuovi spazi dalla doppia esistenza – virtuale/pdf e cartacea – o esclusivamente digitale.

I vantaggi di questa situazione sono numerosi: costi abbattuti in modo davvero sostanziale; possibilità di procurarsi, leggere, utilizzare, citare, riviste per trovare le quali era precedentemente necessaria una consistente fatica fisica; nascita di un universo intellettuale costituito dalla connessione delle riviste tra di loro, data la facilità di inserire in esse collegamenti (link) agli articoli di altri numeri della stessa testata o di altre riviste; la salutare nostalgia per la versione ‘reale’, in tutti i sensi, di quelle pubblicazioni; un generale ampliamento della quantità di informazione e conoscenza.

Come sempre, i rischi sono altrettanto consistenti: il primo è la morte di molte prestigiose e preziose testate che non hanno saputo o voluto affrontare il mondo digitale; poi il potenziale rischio di abbassamento della qualità scientifica e culturale; l’individualismo autoriale che porta i collaboratori delle riviste a leggere soltanto i pdf dei propri testi e tralasciare quelli altrui; la fatica percettiva che lo studio su dispostivi informatici comporta rispetto alla salutare lettura di libri e riviste stampate. La situazione complessiva sembra comunque essersi stabilizzata con un numero relativamente ristretto di riviste che escono in duplice formato e altre numerosissime la cui nascita, sopravvivenza, diffusione si deve proprio a Internet. 

f-0-1corifiRiviste universitarie, il caso del CORIFI 

Il CORIFI è il Coordinamento delle riviste italiane di filosofia (CORIFI), nato nel 2018. Il suo scopo è «di promuovere l’attività delle riviste operanti per intero o parzialmente in ambito filosofico attraverso forme di coordinamento e di collaborazione, nel quadro della libertà di ricerca e di pensiero, nella consapevolezza del ruolo anche pubblico della filosofia» (Statuto, art. 1). Si tratta di un organismo pionieristico e dalle consistenti potenzialità poiché, come tutti sanno, è difficile raggiungere da soli obiettivi che necessitano di risorse, intelligenze, energia. Ed è ancora più difficile difendersi da soli dai rischi, nel caso delle riviste scientifiche, di chiusura o di pratica insignificanza. Il CORIFI intende tutelare la specificità dell’ambito filosofico e soprattutto la pluralità di prospettive, idee, metodologie che emerge dalla differenza anche marcata che caratterizza le riviste filosofiche e in generale le riviste che tentano uno sguardo aperto e critico sul presente, sulla storia, sulle scienze.

Un altro degli elementi costitutivi di questo Coordinamento è infatti l’apertura agli ambiti più diversi del sapere, della cultura e del sociale. Con una particolare attenzione, come è giusto, alle discipline più direttamente legate alla filosofia e alle quali la filosofia è legata ma anche al di là, verso tutte le riviste e gli spazi che intersecano la filosofia e si aprono alle scienze del significato, alle scienze dure, alle scienze sociali. L’articolo 3 dello Statuto dichiara infatti che «al CORIFI possono aderire tutte le riviste italiane di alta cultura che si riconoscono nei suoi obiettivi e nei suoi metodi».

All’atto della sua costituzione, sono queste le numerose riviste che hanno aderito al Coordinamento:

scarica-il-file-pdf-della-rivista-numero-15-ottobre-vita-pensataAnnuario Filosofico, Anthropologica. Annuario di Studi Filosofici, Anthropology and Philosophy, Aquinas, Archivio di Filosofia, Archivio di Storia della Cultura, Aretè, Arkete, Azimut, B@belonline, Bioetica, Blityri, Bollettino del Centro di Studi Vichiani, Bollettino della Società Filosofica Italiana, Bollettino Filosofico, Bollettino Telematico di Filosofia Politica, Critical Hermeneutics, Dialegesthai, Diritto e Questioni Pubbliche, Discipline Filosofiche, Epekeina, Epistemologia (Annual Issue di Axiomathes), Estetica. Studi e ricerche, Etica & Politica, Europea, Filosofia, Filosofia e Teologia, Filosofia italiana, Giornale Critico di Storia delle Idee, Giornale di Metafisica, Gregorianum, Hermeneutica, Historia Philosophica, Humanitas, Il Cannocchiale, Il Pensare, Il Pensiero, Il Protagora, In Circolo. Rivista di Filosofia e Culture, Intersezioni, Iride, ISPF-LAB, Itinera. Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti, Itinerari. Quaderni di studi di etica e di politica, L’Inconscio. Rivista Italiana di Filosofia e Psicanalisi, La Famiglia, La Nottola di Minerva, Lebenswelt, Lessico di etica pubblica, Lexis. Poetica, retorica e comunicazione nella tradizione classica, Lo Sguardo, Logoi. Ph., Logos, Materiali di estetica, Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane, Nòema, Nota Bene. Quaderni di studi kierkegaardiani, Notizie di Politeia, Nuova Rivista Storica, Nuova Secondaria, Nuovo Giornale di Filosofia, Nuovo Giornale di Filosofia della religione, Odradek, Paradigmi, Pedagogia e Vita, Pólemos. Materiali di filosofia e critica sociale, Professionalità (studi), Quaestio, Rivista di Estetica, Rivista di Filosofia, Rivista di Filosofia del Diritto, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, Rivista di Storia della Filosofia, Rivista di Studi Politici Internazionali, Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia, Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio, Rivista Rosminiana di Filosofia e Cultura, Rocinante, Segni e Comprensione, Spazio Filosofico, Studi Filosofici, Studi Kantiani, Studium, Syzetesis, Teoria, Thaumàzein, Thomasproject, Tropos, Verifiche, Vita Pensata.

Ho voluto inserire questo nutrito elenco come prova empirica ed evidente della vitalità non solo del sapere filosofico in Italia ma anche degli spazi nei quali esso si esprime. 

9788898367382_0_536_0_75La valutazione (anche) delle riviste 

Una questione alla quale il CORIFI ha dedicato sin dall’inizio particolare attenzione è quella della valutazione. Terreno assai scivoloso, ambiguo, che nelle dichiarazioni esplicite dei decisori politici intende garantire oggettività e merito ma la cui gestione presenta aspetti oscuri e assai controversi. Con valutazione si intende quel processo in atto da tempo dentro le Università, nel mondo delle riviste, nel lavoro saggistico, che mette in atto la cosiddetta peer review, la revisione tra pari che pone un filtro tra la volontà di pubblicazione di autori e gruppi e l’accettazione di monografie e di articoli su rivista, accogliendo i testi che vengono ritenuti scientificamente adeguati e respingendo gli altri.

Una peculiarità quasi esclusivamente italiana è stata la distinzione posta all’interno delle riviste scientifiche tra le riviste, appunto, e le riviste «di Classe A», che dovrebbero costituire una sorta di élite all’interno della saggistica. Questa distinzione è stata voluta e attuata dal Legislatore attraverso l’ANVUR, l’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca, fondata nel 2006. Entrare nei meandri delle motivazioni, delle modalità e degli obiettivi di questa Agenzia è non soltanto un obiettivo che esula da questo scritto ma anche una pratica inquietante. Aggiungo solo due informazioni relative al fatto che l’ANVUR gestisce di fatto e di diritto tutta la Valutazione della ricerca e degli Atenei italiani, con una serie di pratiche, di visite, di controlli, di richiesta di produzione sempre più massiccia di carte, moduli, dichiarazioni sia da parte degli Atenei sia da parte dei singoli ricercatori.

La prima informazione riguarda il fatto che l’ANVUR organizza le candidature, i sorteggi e la gestione amministrativa delle Commissioni per l’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), vale a dire l’Abilitazione senza la quale nessuno studioso può partecipare ai concorsi banditi dalle singole Università e, per coloro che già sono incardinati (cioè docenti di ruolo nelle Università), è elemento necessario per partecipare ai concorsi che da Ricercatore consentono di diventare Professore Associato e da PA diventare Professore Ordinario.

Il secondo elemento è la gestione, sempre da parte dell’ANVUR, della Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR), una pratica alla quale debbono sottoporsi tutti i docenti universitari italiani, segnalando su apposite piattaforme informatiche tre delle loro pubblicazioni recenti che intendono sottoporre alla revisione di altri esperti del proprio settore, vale a dire di altri colleghi. Qui il problema è che non si tratta di una valutazione anonima (o, come si dice in gergo, «a doppio cieco») poiché il valutatore conosce l’identità dell’autore valutato mentre lo studioso valutato ignora chi siano i colleghi che hanno assegnato alle sue monografie, ai suoi contributi a volumi collettanei, ai suoi saggi su rivista, un punteggio che va da 1 a 10 per tre diversi criteri e che dunque può raggiungere il risultato massimo di 30. I dati aggregati di queste valutazioni riguardano i singoli Dipartimenti universitari e incidono in modo consistente sull’ottenimento o meno dei finanziamenti pubblici alla ricerca.

Come si vede, e contrariamente a molti luoghi comuni diffusi nella società italiana, i professori universitari costituiscono una categoria tra le più valutate, esaminate, giudicate, non soltanto prima dell’accesso ai ruoli ma lungo tutta la carriera.

Tornando alle riviste, è sempre l’ANVUR che stabilisce quali riviste siano scientifiche e quali possano accedere all’ambita qualifica di Riviste di Classe A. Perché ambita? Perché pubblicare dei saggi (anche pochi) su riviste che fanno parte degli elenchi di Classe A è uno dei numerosi criteri necessari per ottenere l’Abilitazione Scientifica Nazionale.

Come si può intuire, i fattori che permettono alle riviste di entrare negli elenchi di Classe A costituiscono un elemento assai delicato, che il CORIFI e altri analoghi Coordinamenti di riviste hanno più volte sottoposto a critica anche in sede di confronto con il Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR). Una delle richieste di questo Coordinamento (ma anche di altri) è di eliminare la classificazione in fasce delle riviste scientifiche, la loro distinzione in riviste di serie A e riviste di serie B (per utilizzare stavolta un gergo sportivo).

Una motivazione insieme logica e di buon senso di tale richiesta è che il valore di un saggio scientifico è dato dai suoi contenuti e non dal contenitore/rivista nel quale essi appaiono. Dei contributi assai scarsi possono essere pubblicati (vengono di fatto pubblicati) su riviste di classe A e viceversa articoli eccellenti appaiono come è ovvio anche su “semplici” riviste scientifiche. 

9788857573069_0_424_0_75La valutazione come dispositivo politico 

Misurare è comandare. Imporre un criterio di valutazione è come imporre un linguaggio. Significa costringere altri a impegnare se stessi e il proprio agire su un territorio scelto da chi valuta, con parametri che sono tanto più di parte quanto più si presentano come oggettivi, con interpretazioni tanto più insidiose quanto più danno a intendere di essere invece dei semplici fatti. «In tutte le società organizzate gli strumenti di misura e selezione sono stati annoverati tra gli attributi del potere, spesso investiti di carattere sacro» [1].

Il culto della Qualità e della sua valutazione è diventato da settario ecumenico, da criptico si è fatto palese. Qualità è parola duplice. Indica ciò di cui qualcosa è fatto e il giudizio che si enuncia sul suo valore comparandolo con quello di altre cose. La prima è una qualità sostanziale, la seconda è una qualità intesa come controllo formale. Nella valutazione della ricerca scientifica il secondo significato è sempre più in aperto conflitto con il primo. Come abbiamo visto, ANVUR, VQR, ASN sono alcuni degli acronimi italiani (altri sono INVALSI, AVA, GEV) con i quali i decisori politici di ogni colore stanno da tempo operando per sottomettere il sapere e i suoi portatori a un giuramento interiore il cui slogan è “Credere Valutare Eseguire”.

Credere che la prospettiva di una valutazione eteronoma, formale e uniforme migliorerà automaticamente la ricerca; credere senza bisogno di argomentazioni; credere anche quando – come nel caso dell’ANVUR – chi pretende tale atto di fede si mostra «variamente incapace di raggiungere gli obiettivi proposti», autogiustificandosi e autoassolvendosi, non valutandosi insomma, anche di fronte a «una massa di errori tecnici davvero impressionante e carica di conseguenze per i singoli (ma solo per i singoli?)» [2].

Valutare non i contenuti che ogni singolo ricercatore crea ma le sedi nelle quali espone i risultati della sua ricerca; valutare non il che cosa ma il dove, nella dogmatica certezza che il luogo nel quale si espongono i risultati renda magicamente efficace – in  senso antropologico – il loro contenuto; valutare non lo specifico contributo di uno studioso alla ricchezza della scienza, modalità ritenuta individualistica ed elitaria e quindi disprezzata nella sua “irrilevanza statistica”, ma la coerenza del suo lavoro con il livello medio di quello dei suoi pari.

Eseguire gli ordini di una entità che non è né la scienza, né l’umanità, né l’istituzione nella quale si lavora e si vive ma “il mercato”; eseguire applicando anche al sapere criteri di produzione toyotistici; eseguire “attraendo finanziamenti”, trasformandosi quindi da ricercatori in venditori: «È un’idea di conoscenza concepita interamente sotto il segno della esecuzione, dell’ubbidienza senza sforzo e senza tentennamenti a un sistema di regole definito in anticipo, dall’esterno e dall’alto» [3].

La parola chiave è mercato, il principio supremo al quale tutto sacrificare, il sistema produttivo verso cui far convergere l’attività di ogni laboratorio, accademia, biblioteca, lo scenario globale che unifica i saperi, le idee e i linguaggi sul fondamento di una standardizzazione universale dei metodi, dei contenuti e degli obiettivi. Un’economia della conoscenza (il genitivo è soggettivo e oggettivo) nella quale gli studenti e i cittadini diventano clienti ai quali offrire prodotti della ricerca (espressione già da sola emblematica e da respingere) caratterizzati dalla accountability, da una rendicontazione capillare e standardizzata del lavoro intellettuale dei singoli e dei gruppi. «Alla fine, l’abbattimento delle torri d’avorio, la rottura della vituperata autoreferenzialità della cultura accademica grazie al riferimento forzato a nuovi valori condivisi, avviene tramite una remissione senza mediazioni all’unica autoreferenzialità oggi ammessa: l’autoreferenzialità del mercato» [4].

Si delinea in questo modo un’inquietante e pericolosa Scienza di regime; un sapere diventato espressione e forma della società dello spettacolo, nella quale 

«la legittimazione del controllore avviene – fatalmente – più in termini di accreditamento mediatico e affidamento politico che altro», «anche perché il valore che la valutazione deve valutare non è appunto il valore intrinseco, interno, dell’attività che viene svolta [...] ma piuttosto la tangibile visibilità che queste acquisiscono (poco importa come e perché): la loro presenza in vari circuiti, la loro circolazione, l’impatto che dimostrano di avere, non altra “qualità” insomma se non quella legata al calcolo della diffusione, del tasso d’uso – quanto qualcosa sia citato, non importa neppure quanto effettivamente letto. In breve, il valore del sapere, identificato senza residuo con il sapere reso visibile, coincide con la visibilità dell’effetto che esso provoca» [5]. 

Come si vede, le riflessioni qui riferite possono descrivere benissimo ciò che il mercato chiede alle riviste se vogliono godere di visibilità, finanziamenti, legittimazione. Si tratta di un dispositivo chiaramente debordiano, il cui senso ultimo è lo sgomitare e l’imporsi – todo modo, che qui non può che essere il modo qualitativamente meno serio – «dei prodotti sul mercato intellettuale della ricerca», come recita un testo pubblicato in Evaluation in the Human Sciences: Towards a Common European Policy. Da una conoscenza che ha per contenuto e fine la ricerca della verità si transita a una conoscenza che ha per oggetto e mission l’utilità funzionalistica di servire da olio intellettuale nel motore della macchina ultraliberistica che procede ormai a pieni giri.

È quindi evidente che la valutazione non è un fatto tecnico e neutrale ma è diventata una vera e propria visione del mondo, una cifra del nostro tempo che intende imporre un regime di verità dalla struttura intimamente totalitaria – la scientometria fu un’invenzione sovietica – e monoteistica rispetto alla pluralità dei metodi, degli obiettivi e delle forme di conoscenza e di vita.

La valutazione dunque come ennesima metamorfosi del comando. È questo che dobbiamo cercare di capire per non tornare a uno «stato di minorità» che consiste nell’«incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro» [6], senza la guida di un algoritmo e del suo programmatore politico. 

scansione0021Conclusione: il respiro del labirinto 

Qualunque cosa accada, qualunque sia l’evoluzione, il destino, la metamorfosi dei libri e delle riviste nelle quali da secoli trova spazio, si esprime e si condensa la conoscenza che tentiamo del mondo e di noi stessi, del labirinto che noi e il mondo siamo, in ogni caso la parola scritta, la parola pensata, rimane il respiro dell’umano, la sua condizione di vita, la sua nobiltà.

L’universo infatti «(che altri chiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali» [7] e quando ogni traccia di umanità sarà stata cancellata nell’immobilità della materia, «la Biblioteca perdurerà: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta» [8].

Le parole di un grande bibliotecario, oltre che scrittore, quale è stato Jorge Luis Borges ci suggeriscono perché anche la lettura che stai facendo di questa rivista, lettore, è un gesto di libertà e di senso. 

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023 
Note
[1] V. Pinto, Valutare e punire. Una critica della cultura della valutazione, Cronopio, Napoli 2012: 151.
[2] Ivi: 97 e 171.
[3] Ivi: 77.
[4] Ivi: 114-115.
[5] Ivi: 38 e 129.
[6] I. Kant, in I. Kant, M. Foucault, J. Habermas, Che cos’è l’illuminismo, Mimesis, Milano-Udine 2021: 79.
[7] J.L. Borges, Finzioni, in «Tutte le opere», a cura di D. Porzio, Mondadori, Milano 1991: 680.
[8] Ivi: 688.
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Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove insegna Filosofia teoretica, Filosofia delle menti artificiali e Epistemologia. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Chronos. Scritti di storia della filosofia (Mimesis, 2023).

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