di Francesca Martines
È una iconografia tranquilla, quasi scontata, da locale azienda del turismo, quella che vuole Palermo “città araba”. E non solo Palermo, ma la Sicilia tutta. Peraltro, gli arabi furono presenti nell’Isola due volte: la prima durante la loro dominazione, per poi tornarvi indirettamente qualche secolo dopo per il tramite degli Spagnoli, nella cui terra rimasero assai più a lungo che in Sicilia.
I segni della cultura araba sono ovunque: architetture, cibi dolci e salati, tecniche agricole, forme e decori, termini del dialetto, lineamenti e colori, spesso anche gesti ed espressioni dei visi. E in tratti più sottili del comportamento, della mentalità, di una certa visione delle cose.
Stratificazione. Commistione. Questi sono i termini che Palermo evoca, almeno in me. Tracce innumeri di civiltà passate che rimangono e vengono assimilate nella lingua e nella (in)coscienza di un popolo.
Già la convivenza pacifica e fruttuosa è testimoniata da tutta l’architettura arabo-normanna, unicum siciliano: strutture di epoca e committenza normanna – per la maggior parte – progettati e costruiti secondo le regole e la sapienza degli arabi. Così il Palazzo Reale, San Giovanni degli Eremiti, San Cataldo, la Zisa.

Appena fuori la Zisa la cappella della ss Trinità, già chiesa, poi moschea e infine cappella della Zisa. Cupole e croci
Quest’ultima – unicum nell’unicum – di fatto uno dei pochissimi sopravvissuti, e certamente il meglio conservato, fra gli edifici della particolare tipologia dei palazzi destinati unicamente al riposo e allo svago (del re, non di chiunque) e non all’uso abitativo.
Ma le cose, in Sicilia, non sono mai bianche o nere: si sovrappongono diffusamente influssi bizantini, ebraici, arabi di ritorno attraverso gli spagnoli.

Iscrizione funebre cristiana del 1149 in latino, greco bizantino, arabo ed ebraico. Museo della Zisa
La multiculturalità antica di Palermo è testimoniata dalla epigrafe quadrilingue (latino, bizantino, arabo, ebraico) del 1149 conservata alla Zisa, di cui un moderno – e assai più modesto – contrappunto può essere ritrovato nelle recenti targhe trilingui (italiano, ebraico, arabo) che, in una porzione del centro storico della città, indicano i nomi delle vie in quella che fu la Giudecca panormita, il quartiere ebraico.
Ma al suo interno troviamo il vicolo e la piazzetta Meschita, fedele trascrizione del termine spagnolo Mezquita (moschea): poche cose come la toponomastica sono rivelatrici della storia di una città.
Le insegne, stavolta quelle dei negozi, mostrano ancora una volta una fusione tra culture ufficialmente diverse: che dire del ristorantino nordafricano che offre couscous e brik, insieme ad una delle migliori pizze della città? E nelle macellerie islamiche i prodotti halal coabitano in modo naturale con la Coca Cola e la Red Bull.
Dei mercati di Palermo si è già detto e scritto tutto, ma lo stesso “disordine”, che altri chiamerebbero degrado, si ritrova nei vicoli e nelle misere abitazioni del centro storico, che, in mancanza di spazio interno, utilizzano quello esterno per il bucato, i condizionatori, il magazzino. Tutto insieme e accatastato, a volte in modo stupefacente. Il caos ha un suo decadente fascino.
Alle palme siamo così abitati da non farci più caso, ma quanti sanno che nel cortile del museo archeologico regionale di Palermo cresce e fruttifica indisturbato (o almeno c’era) un banano? Così come accade in tanti piccoli giardini interni in città.
Il tentativo che ho fatto è stato di mettere insieme degli scatti che, visti in sequenza e senza sapere dove ci si trovi, mi pare potrebbero suggerire un legame forte con la cultura arabo-mediterranea.
Nel bene e nel male e nella mescolanza inscindibile di palme, monumenti, insegne, deregulation, mercati, degrado, cupole rosse e croci cristiane.
Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017
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Francesca Martines, laureata in Lettere Classiche, bibliotecaria all’Osservatorio astronomico di Palermo da 25 anni, dove si occupa anche di Information architecture (organizzazione logica di informazioni), ha iniziato a fotografare con la guida di Giacomo D’Aguanno con una reflex intorno ai venti anni. Poi, nel 2004 l’incontro con la fotocamera a telemetro, prima due Voigtlander Bessa, poi una Leica MP e infine nel 2011 l’approdo alla Leica digitale. Resta forte tuttavia l’attrazione per la pellicola. Negli ultimi anni ha scoperto una vocazione paesaggista Non ama la fotografia “urlata”, quella che vuole colpire ed impressionare ma va alla ricerca del genius loci, indipendente dalla loro bellezza.
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