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Il fantoccio smembrato. Crisi della presenza e affermazione del sé nell’era post-industriale

U nannu a Bagheria (foto Di Salvo)

U nannu a Bagheria (foto Di Salvo)

di Tommaso India

I riti carnevaleschi hanno suscitato le riflessioni di diversi antropologi e fatto sorgere una vasta letteratura specifica che ha fornito linee interpretative eterogenee [1], che possono essere ricondotte ad almeno tre fondamentali letture dei rituali carnevaleschi. Secondo la prima di queste interpretazioni,  le azioni compiute in determinati periodi dell’anno e in cui è prevista la presenza di maschere e travestimenti di vario genere tendono a modificare o sovvertire momentaneamente l’ordine sociale al fine di riaffermare quello stesso ordine. La seconda interpretazione, che riguarda principalmente le comunità che basano la loro sussistenza su un regime economico agro-pastorale e quindi strettamente legato ai cicli stagionali, identifica nei rituali carnevaleschi un momento di passaggio in cui la natura, con la fine dell’inverno, si appresta a rigenerarsi per ricominciare a donare i suoi frutti agli uomini. La terza interpretazione tende ad analizzare i rituali carnevaleschi come un momento di catarsi collettiva, soprattutto quando all’interno degli iter rituali sono previste le accensioni di falò o, ancora più significativamente, la presenza di fantocci antropomorfi smembrati e/o dati alle fiamme [2].

Queste tre linee interpretative, sebbene qui siano presentate in maniera schematica e divise fra loro, non si escludono l’un l’altra, anzi. Esse sono presenti nella riflessione di molti autori in maniera complementare al fine di fornire una lettura quanto più esaustiva e completa possibile dei fenomeni carnevaleschi. È tuttavia sulla questione del fantoccio bruciato o distrutto che intendo in questa sede concentrare le mia attenzione. In quest’ultimo caso il pupazzo si configurerebbe come il capro espiatorio su cui vengono scaricate le colpe e le ansie della società. Il fuoco e lo smembramento sarebbero in definitiva i modi per distruggere le colpe sociali, ma anche per affrontare una crisi della presenza insorta a seguito di un momento di passaggio cruciale per la sopravvivenza di una comunità. Nel caso del Carnevale, gli studiosi hanno rilevato come questa crisi della presenza sia dovuta all’ansia comunitaria di propiziare il nuovo anno agricolo che si fa sempre più vicino con l’arrivo della primavera.

 Palermo Carnevale (foto I. Buttitta)

Palermo, Carnevale (foto I. Buttitta)

È noto come molti rituali carnevaleschi siano mutati in conseguenza della trasformazione del regime economico e con l’aumento dei flussi turistici. In questi casi il Carnevale si è modificato passando da rito propiziatorio a occasione per divulgare un’immagine di alcuni territori in cui è possibile osservare rituali “antichi”, “fastosi”, “bizzarri”. Il Carnevale, così, sembra aver subito un evidente processo di patrimonializzazione culturale.

Tuttavia, i momenti di passaggio e l’ansia comunitaria o, per definirla con le parole di Ernesto de Martino, la crisi della presenza [3], non sono appannaggio delle società tradizionali. Essi sono presenti anche presso quelle comunità post-industriali o deindustrializzate dove la crisi economico-finanziaria degli ultimi anni ha coinvolto diversi aspetti della vita comunitaria. La crisi che il sistema capitalistico attuale sta attraversando si è configurata come un fatto sociale totale che ha incrinato anche la visione del futuro di molte comunità. Per affrontare la crisi della presenza, insorta a seguito di quella economico-finanziaria, gli uomini in alcuni casi hanno fatto ricorso a linguaggi e, più in generale, a codici espressivi che, sebbene non facciano parte di un diretto patrimonio comunicativo e comportamentale, sono ereditati direttamente da un passato incorporato e agito nella fase attuale. Questo è quanto tenterò di mostrare descrivendo i fatti di un recente processo di deindustrializzazione siciliana.

L’insostenibile concretezza del passaggio

In un mio precedente articolo [4] ho già mostrato come la comunità di operai presso cui sono stato trasferito nel luglio 2014 era in una fase molto complessa, sia al livello professionale sia esistenziale, a seguito della chiusura del magazzino dove i miei colleghi avevano lavorato negli ultimi dodici anni e del conseguente trasferimento dello stesso magazzino e dell’intera squadra di lavoro nella zona industriale di Catania. Il trasferimento destabilizzò, come è facile immaginare, gli equilibri esistenziali dei miei colleghi coinvolgendo anche il piano familiare e, più in generale, sociale. La vera e propria crisi però sopraggiunse non al momento della comunicazione che confermava il trasferimento, ma  successivamente, quando i primi lavoratori furono trasferiti nel nuovo magazzino.

Il 14 luglio, infatti, mentre la città di Palermo si apprestava a festeggiare la sua Santuzza, il responsabile del sito, preoccupato di trasferire il magazzino nei tempi e nei modi previsti, decise di inviare i primi due lavoratori a Catania affinché iniziassero i preparativi necessari a che, da lì a qualche settimana, si potessero ricevere le merci. Intorno alle 11,00 del mattino il responsabile comunicò la notizia a Culo di gallina e a U Romano che il giorno dopo avrebbero dovuto cominciare le nuove operazioni a Catania. Sebbene i due si aspettassero il trasferimento, rimasero comunque spiazzati e sorpresi dalla rapidità e dai metodi che furono usati. Entrambi i colleghi si lamentarono dello scarso preavviso che il responsabile aveva dato loro, non permettendo di prepararsi al nuovo trasloco e, soprattutto, di avvertire le proprie famiglie. Il trasferimento dei due fu traumatico, inoltre, anche in conseguenza del fatto che, dati i tempi ristrettissimi del trasloco del magazzino, avrebbero dovuto lavorare anche il sabato e la domenica rimandando la possibilità di un rientro a casa di molte settimane.

La notizia del trasferimento non ebbe effetto solo sui due diretti interessati, ma anche sul resto dei nostri colleghi che in questo modo videro concretizzarsi la fine delle loro vite per come erano state vissute fino a quel momento e l’inizio di un nuovo periodo pieno di incertezze. Nel momento in cui Culo di gallina e U Romano svuotarono i loro armadietti, i loro volti e quelli dei nostri colleghi erano sospesi in sorrisi di circostanza. Mentre salutavano i due dicevano a tutti: «Ci vediamo a Catania», significando in questo l’irreversibilità del processo e il comune destino che ci attendeva. Qualcuno stemperava la tensione dicendo ai due: «Finalmenti vi livati ’n menzu i cugghiuna!» Salvo u Pazzu, profondamente affezionato a Culo di gallina, nel momento in cui i due si salutarono urlò: «Oh Culu ’i jaddina, va fatti i vacanzi a Catania e cca travagghiu io!» Questa battuta, ironica ma profondamente amara, in realtà era un esplicito attacco al responsabile del sito, che, secondo U Pazzu, aveva inviato troppo presto i due lavoratori a Catania facendo mancare nella fase di avvio del trasloco due importanti figure. Natale P., invece, salutò i due visibilmente emozionato. I tre lavoratori, infatti, non si vedranno mai più, in seguito alla decisione di Natale P. di licenziarsi, non trasferirsi a Catania ma piuttosto in Germania per trovare un lavoro migliore e un ambiente più confortevole per la crescita dei propri figli.

foto2Dopo il trasferimento di Culo di gallina e     U Romano, le operazioni di lavorazione nel magazzino palermitano ripresero normalmente fino al 31 luglio, quando il reparto di ricevimento merci fu chiuso per evitare un sovraccarico di materiali da trasferire. La preparazione e la spedizione delle merci ai clienti, invece, durò fino al 7 agosto. In questo giorno altri due colleghi lasciarono il magazzino palermitano: Matteo e U Pecura. Il primo doveva aiutare Culo di gallina e U Romano a ricevere i materiali che da lì a qualche giorno noi cominciammo ad inviare; la mansione del secondo, invece, era quella di stoccare nel nuovo magazzino quei materiali. Fu proprio quest’ultimo, U Pecura, un uomo di quarantacinque anni, figlio di un pescivendolo e cresciuto nella borgata palermitana di Villabate, a compiere un atto che, sebbene eseguito con un certo grado di ironia, rappresentò la necessità di segnare simbolicamente la fine di un’era esistenziale e di fronteggiare l’inquietudine per il futuro. Svuotato il suo armadietto da vecchi vestiti da lavoro e cianfrusaglie, prima di guadagnare l’uscita U Pecura si avviò verso il centro del magazzino con il suo passo veloce e un po’ claudicante. Giunto nella corsia numero 14, quella che divideva il grande capannone in due, si inginocchiò baciando il suolo e urlando: «Addio magazzino e grazie per quello che hai fatto per noi». Sebbene il gesto di U Pecura mi avesse fatto sorridere, instillò in me il sospetto che il trasloco e il trasferimento ad una vita completamente diversa da quella che la maggior parte dei miei colleghi aveva condotto fino ad allora si configuravano come una fase che andava ben oltre la semplice trasformazione dei propri ritmi e delle abitudini quotidiane,  rappresentando un evento che, sebbene doveva essere eseguito e in qualche modo assecondato, possedeva una sua criticità da esorcizzare.

“U pupu è auguriusu”

Dopo la partenza di Matteo e U Pecura, le attività volte al trasloco vero e proprio si fecero più frenetiche. L’apertura del nuovo magazzino, infatti, doveva avvenire il 24 agosto e ciò significa che tutti i materiali, consistenti in circa dodicimila diversi elementi di svariate forme e grandezze, dovevano essere tolti dagli scaffali in cui erano ubicati, controllati, contati [5] e sistemati sui bancali. Questi ultimi dovevano essere poi trasportati tramite camion nel nuovo magazzino dove i miei colleghi sul posto avrebbero spuntato nuovamente tutti i materiali e li avrebbero collocati nelle loro zone di stoccaggio.

Per tutto il periodo compreso fra l’8 e il 24 agosto lavorammo circa undici-dodici ore al giorno, compresi il sabato e la domenica. Il magazzino diventò il nostro universo: dentro c’era tutto, fuori solo le ombre di amici, parenti e vite, le nostre, che presto sarebbero cambiate per sempre. Gli undici uomini del magazzino si configurarono come l’unica comunità a cui appartenevamo. Durante tutto il periodo in cui si svolsero le attività, fummo raccolti in coppie di lavoratori con delle mansioni e delle zone di lavorazione ben precise. Io ero in affiancamento a Noce, un uomo di 37 anni, padre di due bambine e appassionato di motori. Nel magazzino Noce era l’esperto del materiale stoccato nella parte esterna, che variava dal tubo cavidotto alle matasse di tubo flessibile fino ad arrivare al canale metallico e alla palificazione stradale. Io e Noce dovevamo raccogliere tutto questo materiale, generalmente molto ingombrante e pesante, dividerlo per tipologia, contarlo e metterlo in sicurezza per il trasporto. Durante i giorni di lavoro il rapporto con Noce crebbe gradualmente. All’inizio diffidente e un po’ restio a causa della mia fama di “sbirro”, Noce era solito lavorare con lentezza e alternare le mansioni a lunghe pause durante le quali si allontanava dalla nostra zona di lavorazione. Succedeva spesso che, durante la giornata di lavoro e soprattutto quando dovevo svolgere operazioni che richiedevano l’intervento di almeno due persone, dovessi cercare il mio collega nelle varie aree del magazzino, trovandolo in qualche angolo semi-nascosto a fumare una sigaretta e macchinare con il suo telefonino. In quelle occasioni, mi fermavo anche io e chiacchierando del più e del meno con Noce gli lasciavo il tempo di finire la sigaretta e riprendere a lavorare. Lentamente il mio collega cominciò ad invitarmi a fermarmi con lui e, quando potevo, lo seguivo imponendogli però di terminare le operazioni che stavamo compiendo. La strategia di assecondare Noce nelle sue operazioni di dissimulazione e di micro-resistenza [6] allo stravolgimento della sua esistenza, mi fece entrare più a stretto contatto con questo lavoratore che ad un certo punto dichiarò la sua strategia in maniera palese, dicendomi: «Tommà, jamu araciu picchì io a Catania un ci vogghiu iri».

Foto 3Fu in questo clima di riluttanza totale nei confronti del trasloco che lavorammo per buona parte del mese di agosto 2014. In uno di quei giorni, u Pazzu ci chiamò divertito all’interno del magazzino. Quando entrammo, ci accompagnò in quelli che erano stati gli spogliatoi e ci disse: “Taliati chi c’è cca! ”. Disteso su una panca, giaceva un fantoccio confezionato con i vecchi vestiti e le tute da lavoro che gli altri colleghi avevano lasciato nei loro armadietti. Sul muro sopra il capo del fantoccio era stata disegnata una croce. Sulla testa, ottenuta appallottolando una grande quantità di nastro adesivo da imballaggio, era stato sistemato un cappellino e dalla bocca veniva fuori un sigaro. All’altezza dell’inguine, il ramo di un albero su cui era stato applicato un preservativo simulava un pene dalle smisurate proporzioni. Vedendo il fantoccio non potei fare a meno di andare con la mente ai riti carnevaleschi in cui è presente un manichino antropomorfo che, spesso, possiede caratteri fisici accentuati e sproporzionati (grandi pance, mammelle gigantesche o, come nel caso qui presentato, peni smisurati). Intuendo l’importanza simbolica di quel momento, chiesi al Pazzu cosa significasse quel manichino e, intervenendo nel discorso, Noce mi rispose senza giri di parole: «U pupu è u magazzinu: sta muriennu e puru u magazzinu sta muriennu. È auguriusu!» [7 ]. Mentre diceva questo, un altro collega sistemava davanti l’ingresso degli spogliatoi, trasformati per l’occasione in camera mortuaria, un taccuino su cui tutti, compreso il capo-squadra, fummo costretti ad apporre i nostri nomi come segno di rispetto nei confronti del defunto che, a fine giornata, fu smembrato e buttato nella spazzatura.

foto 4Conclusioni

Nel suo celebre Les rites de passage Arnold Van Gennep [8] ha analizzato e descritto alcune azioni rituali, fornendo un’attenta lettura dei vari momenti che compongono quelle azioni. A seguito dell’opera dell’antropologo e folklorista francese le nozioni di pre-liminalità, liminalità e post-liminalità sono diventati strumenti importantissimi per l’analisi di gruppi sociali, sia nell’ambito degli studi sulla religiosità sia in quello legato ad una sfera più secolare. In questo senso acquista una certa rilevanza l’opera di un altro antropologo, Victor Turner, che ha avuto il merito di applicare i momenti peculiari dei riti di passaggio ad una vasta gamma di contesti che vanno dai rituali iniziatici di società africane (famoso è il caso degli Ndembu descritti nel volume La foresta dei simboli [9]) ai contesti religiosi medievali e contemporanei fino al movimento degli yippie degli anni Sessanta [10]. Per Turner il momento che acquista una particolare rilevanza per la riconfigurazione culturale è quello liminale. In quanto segmento temporale di confine fra una condizione, individuale o sociale, questo momento è quello che segna il passaggio facendo sorgere, attraverso azioni che hanno il carattere di veri e propri drammi sociali, nuovi modelli culturali composti da aspetti provenienti spesso da ambiti eterogenei. Secondo l’antropologo britannico: «l’essenza della liminalità [consiste] nella scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o ‘ludica’ dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra» [11].

foto n.5Il momento liminale però, così come descritto da Van Gennep e come avverte lo stesso Turner, è caratteristico di società tradizionali composte da un numero di soggetti molto ristretto e con una struttura sociale semplice. Per le società che presentano una stratificazione complessa e articolata, un grande numero di componenti e legate a regimi di sussistenza differenti da quello tradizionale, Turner elabora il concetto di liminoide, analogo ma non del tutto coincidente a quello di liminale. Secondo Turner: «Nelle società moderne di grandi dimensioni, i drammi sociali possono espandersi dal livello locale alle rivoluzioni nazionali, o assumere fin dall’inizio la forma di una guerra fra nazioni. […] Nelle nostre società industriali ci sono familiari le opposizioni fra classi, sottoclassi, gruppi etnici, sette e culti, regioni, partiti politici e associazioni basate sulla divisione del lavoro o sull’appartenenza allo stesso sesso o alla stessa generazione. Altre società sono divise al loro interno in caste e corporazioni tradizionali. I drammi sociali hanno la caratteristica di attivare queste opposizioni classificatorie, e molte altre […]. I drammi sociali hanno il potere di trasformare queste opposizioni in conflitti. La vita sociale dunque, anche nei suoi momenti di apparente quiete è eminentemente ‘gravida’ di drammi sociali» [12]. In Turner, il concetto di liminoide identifica quei contrasti che sorgono all’interno della dinamica socio-culturale e che fondamentalmente coincidono con un periodo di crisi profonda in cui i modelli culturali si trasformano utilizzando codici espressivi diversi. Le azioni del momento liminoide sono necessarie alle modifiche e/o alla comprensione e accettazione delle crisi sociali.

Il concetto di crisi rimanda al pensiero di Ernesto de Martino e alla nozioni di crisi della presenza, elaborata dall’antropologo italiano per spiegare il sentimento di insicurezza che investe gli uomini, sia al livello individuale sia sociale, in determinate condizioni storiche. Secondo de Martino:

Esserci nel mondo, cioè mantenersi come presenza individuale nella società e nella storia, significa agire come potenza di decisione e di scelta secondo valori, operando e rioperando sempre di nuovo il mai definitivo distacco dalla immediatezza della mera vitalità naturale, e innalzandosi alla vita culturale: lo smarrirsi di questa potenza, il venir meno della stessa interiore possibilità di esercitarla, costituisce un rischio radicale che rispetto alla presenza impegnata a resistere senza successo all’attentato si configura come esperienza di essere-agito-da, dove l’esser-agito coinvolge la totalità della personalità e delle potenze operative che la fondano e la mantengono [13].

È la paura di non esserci nel mondo, inteso quest’ultimo come dimensione storico-culturale, che imporrebbe agli uomini di praticare azioni simboliche volte a dominare e controllare «ogni momento del divenire […] nuovo, e quindi critico per la presenza»[14]. Al fine di affrontare, esprimendola, tale paura gli uomini hanno elaborato una grande varietà di strategie e di pratiche, materiali e simboliche. La costruzione del pupazzo e la sua distruzione, nel contesto di un periodo di forte incertezza e di estrema precarietà, si è configurato come un atto volto a esorcizzare quella paura e a propiziare la nuova riconfigurazione lavorativa. Questo atto, sebbene appartenga a una gamma di codici espressivi e comportamentali che si inseriscono pienamente all’interno del mondo economico agro-pastorale tradizionale, sono esercitati all’interno di un contesto post-industriale o in fase di deindustrializzazione. Ciò dimostra che il ricorso a forme di espressione profondamente incorporate [15] è necessario a fare fronte ad un crisi della presenza che l’attuale capitalismo storico non è riuscito a cancellare del tutto, nonostante la sua estrema pervasività.

Dialoghi Mediterranei, n. 13, maggio 2015

1   Solo a titolo di esempio cfr. Cocchiara G., 1980, Il paese di cuccagna e altri studi sul folklore, Bollati Boringhieri, Torino; Coccchiara G., 1981, Il mondo alla rovescia, Bollati Boringhieri, Torino; Baroja J. C., 1979, Il carnevale, il Melangolo, Genova; Buttitta A., 2007 (ed. or. 1984), L’utopia del carnevale, in Buttitta A., Pasqualino A., Il mastro di campo, Fondazione Ignazio Buttitta, Palermo: 9-21.
2  Cfr. Cocchiara, 1981, op. cit.; Gluckman M., 1954, Rituals of rebellion in South-East Africa, Manchester University Press, Manchester; Bateson G., 1988, Un rituale di travestimento, Einaudi, Torino; Bacthin M., 1979, L’ opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino.
3   De Martino E., 2007 (ed. or. 1961), Il mondo magico, prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino.
4   Cfr. India T., 2014, “Lo sbirro del capo”. Riflessioni preliminari su un nuovo campo di ricerca, in «Dialoghi Mediterranei», n. 10, novembre.
5   Nel gergo dei magazzini queste due operazioni vengono indicate con il termine “spuntare”.
6   Con il termine micro-resistenza intendo un comportamento volto a dissimulare, rallentare e, in alcuni casi, boicottare le operazioni di lavorazione e, più in generale, contrastare l’assoggettamento all’interno dei contesti lavorativi da parte di lavoratori che agiscono all’esterno di strutture ben organizzate e ufficiali, quali possono essere i sindacati o i partiti politici. Per maggiori approfondimenti su questo concetto e per le relative connessioni con la riflessione e la trattazione dell’antropologo James Scott cfr. India T., 2013, Il cibo della contestazione. Il caso della Fiat di Termini Imerese, in «La ricerca folklorica», n.67-68: 245-257.
7   «Il pupazzo è il magazzino: sta morendo e pure il magazzino sta morendo. È di buon auspicio!»
8    Van Gennep A., 2002, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino.
9    Turner V., 1976, La foresta dei simboli. Aspetti del rituale Ndembu, Morcelliana, Brescia.
10    Cfr. Turner V., 2001, Il processo rituale, Morcelliana, Brescia.
11   Turner V., 1982, Dal rito al teatro, il Mulino, Bologna: 28.
12    Ibidem: 33-34.
13   De Martino E., 1982, Sud e Magia, Feltrinelli, Milano: 86-87.
14  De Martino E., 1977, Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Gallini C., Einaudi, Torino: 138.
15  Per una dettagliata analisi del concetto di “incorporazione” nell’ambito degli studi antropologici cfr. Csordas T. J., 1990, Embodiment as a paradigm for anthropology, in «Ethos», vol. 18, n. 1: 5-47; Csordas T. J., 2003, «Incorporazione e fenomenologia culturale», in Fabietti U. (a cura di), Annuario Antropologia. Corpi, n. 3, Meltemi, Roma: 19-42.

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 Tommaso India, attualmente si occupa di antropologia del lavoro con un particolare riferimento ai processi di deindustrializzazione e precarizzazione in corso in Sicilia. Si è laureato nel 2010 in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo con una tesi intitolata Aids, rito e cultura fra i Wahehe della Tanzania, frutto di una ricerca etnografica condotta nelle regione di Iringa (Tanzania centro meridionale). Dal 2012 è dottorando in Antropologia e Studi Storico-linguistici presso l’Università degli Studi di Messina.

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