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Il disastro postcoloniale del Myanmar

 Rohinga in fuga.

Rohinga in fuga

di Valeria Dell’Orzo

Che la macchina del colonialismo porti in sé il principio distruttivo della prevaricazione, dell’annichilimento di esseri umani e culture, e che avvilisca il territorio stesso, fisico, morfologico, del Paese occupato è un dato ridondante nella storia dell’umanità, già evidente dalle pagine di Césaire (2010), che a pochi anni dalla decolonizzazione inglese dell’India puntò il dito sull’appiattimento culturale indiscriminato imposto dal colonialismo, sull’omologazione a un sistema sociale decontestualizzato di stampo capitalistico. Purtroppo non meno nefasti sono i danni che la profonda violenza perpetrata dal sistema coloniale, in seno alle culture altre, continua a produrre una volta cessato il rapporto tra gli Stati coinvolti.

Abbandonata la pretesa della propria presenza governante sul suolo dei colonizzati, nella forma ancor più subdola dell’indirect rule, tipico del colonialismo inglese, liberata ufficialmente la popolazione locale da quel giogo opprimente e dalle forzature di un ordine sociale riformulato artificialmente secondo un interesse esterno, l’ex colonia si mostra nella sua natura frammentata,

«che comprende ancora popoli asserviti, altri che hanno acquisito una falsa indipendenza, altri che si battono per conquistare la sovranità, altri infine che hanno raggiunto la libertà plenaria ma vivono sotto la minaccia costante di un’aggressione imperialista. Queste differenze  – sottolinea Sartre nella prefazione de I dannati della terra di Fanon – sono nate dalla storia coloniale, quanto dire dall’oppressione. Qui la Metropoli si è accontentata di pagare qualche feudatario; là, dividendo per imperare, ha fabbricato di tutto punto una borghesia di colonizzati; altrove ha fatto colpo doppio: la colonia è nello stesso tempo di sfruttamento e di popolamento. Così l’Europa ha moltiplicato le divisioni, le opposizioni, forgiato classi e talvolta razzismi, tentato con tutti gli espedienti di provocare e di accrescere la stratificazione delle società colonizzate» (Sartre, 2007).

Il Paese ospitante si rimpossessa dunque, apparentemente, della propria autonomia, ma piomba in quella che Dirks (2002) ha definito «l’epopea della seduzione e del tradimento», la postcolonialità, il momento in cui da una parte si innalzano le speranze di una promessa illuministica e dall’altra ci si scontra con il fallimento di un processo sterile. L’ex colonia si ritrova ad affrontare gli squilibri di un Paese nuovo, e lo fa riformulando un modello di controllo etnico assimilato proprio dal sistema vessatorio coloniale dal quale – ufficialmente  – si è affrancato (Said, 2013).

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Rohinga in fuga (ph. Kevin Frayer)

 

L’ex colonia si ritrova a gestire una creatura socio-geografica fatta di territori annessi e pressati all’interno dei confini di un sistema appiattito, di realtà etniche e culturali segnate dalla maschera sociale che il colonialismo ha imposto loro per amministrare con maggior facilità un Paese lontano, realtà e disposizioni sociali che, una volta affrancati dalla supremazia straniera, non si mostrano più funzionali, spesso si capovolgono portando in sé i rancori accumulati dalle ingiustizie del sistema coloniale, divenendo veri e propri focolai di insurrezioni civili, scontri interni, lotte intestine che può dar luogo all’esternazione violenta di tutto il malcontento accumulato.

Per comprendere i fenomeni di violenza che investono da anni varie parti del Myanmar occorre fare un passo indietro e osservare il processo sociale che ha portato alla costruzione di fazioni e rancori reciproci.

Rohinga in fuga (ph. Kevin Frayer)

Rohinga in fuga (ph. Kevin Frayer)

L’invasione coloniale inglese nei territori accomunati come Birmania, contesa dal potere giapponese, e accompagnata dall’ingerenza cinese, si è stabilita a cavallo di popoli e culti, realtà sociogeografiche molto diverse tra loro, strette sotto i propri tentacoli, compresse nelle caselle di una scala sociale scelta e imposta da un potere lontano. Lo ha fatto nell’incuranza degli equilibri pregressi, delle necessità specifiche che legano l’uomo al territorio, ha imposto un nuovo ordine sociale basato sulle relazioni con la madre patria, una madrigna avida e opprimente che, secondo il proprio utile, ha creato un ordine piramidale di compiti in deroga e limitati poteri, coacervo di rivalità, acredini, rancori tra le etnie coinvolte.

Iniziata nel 1824, la lunga fase coloniale inglese in Myanmar ha dato il via al susseguirsi di eventi che oggi sfociano nelle violenze interne al Paese. Stabilitosi il potere coloniale e riunite sotto un’unica mano le tante realtà che oggi compongono l’attuale Myanmar, sono poi stati scelti, dalla madre patria, alcuni popoli come principali referenti e si è così iniziato a costruire un ordine sociale basato sull’appartenenza etnica e sull’esclusione, spianando la strada alle rivalità interne tra popoli che fino a quel momento non avevano sviluppato attriti o dissapori.

I Karen e i Kachin, in maggioranza cristiani al confine con la Cina e i territori tibetani, hanno pertanto assunto, per volontà inglese, posizioni di rilievo, a discapito di altri gruppi, ritenuti meno adatti a comunicare con l’Inghilterra e ad agire secondo le sue volontà.

Rohinga in fuga (ph. Kevin Frayer)

Rohinga in fuga (ph. Kevin Frayer)

Dal malcontento alla formazione di gruppi anticoloniali armati il passo è stato breve, accorciato ancor di più dall’intervento del Giappone che, nel 1942, dopo l’invasione della parte orientale dello Stato, rese pubblico il suo appoggio a Ba Maw, leader dagli anni ‘30 del partito indipendentista buddista e promotore dell’autogoverno birmano, liberandolo dalla prigionia per sedizione, cui era stato condannato nel 1940, e prospettando la creazione di uno Stato birmano indipendente, chiaro fantoccio di un nuovo Stato coloniale nipponico. Il fermento birmano [1] non lasciò indifferente neppure la Cina che diede invece il suo appoggio al movimento indipendentista comunista.

Rohinga in fuga (ph. Kevin Frayer)

Rohinga in fuga (ph. Kevin Frayer)

Istituita nel gennaio del 1948 l’indipendenza dallo Stato britannico, l’organizzazione interna del Paese ha subìto una fase di assestamento così,  grazie all’appoggio economico e militare del Giappone, ai Karen e ai Kachin fino a quel momento posti ai ruoli di comando, si alternarono i Bamar, esponenti del movimento indipendentista buddhista. Pochi mesi dopo le conseguenze interetniche della storia coloniale si resero evidenti e deflagrarono i primi conflitti interni: i Karen, i Kachin e molte altre realtà etniche più piccole, armatisi, rivendicavano l’indipendenza. I Rohingya esasperati da una condizione di invisibilità chiedevano di essere riconosciuti come parte dei popoli dello Stato, mentre il partito comunista, foraggiato dalla Cina, mise in atto a più riprese un’insurrezione armata contro il governo, per avvicendarvisi.

Questi scontri, questa guerra fratricida che corre lungo tutti i confini del Myanmar senza rispettare gli accordi di pace e il cessate il fuoco più volte proposti e infranti, anche dopo le riforme politiche e amministrative siglate nel 2015, promosse da Aung San Suu Kyi e non attuate dalla legislatura congiunta coi generali, è la più lunga guerra civile moderna, fatta di attentati e incursioni reciproche, che ancora oggi miete vittime in nome di un odio e di una mancata indipendenza nata sotto la pressione coloniale e gli interessi esterni.

Rohinga in fuga (ph. Kevin Frayer)

Rohinga in fuga (ph. Kevin Frayer)

Sono passati pochi mesi da quando la diaspora dei musulmani Rohingya è divenuta oggetto di attenzione e di limitato intervento da parte della comunità internazionale, ma i conflitti del Myanmar purtroppo non si fermano qui. A est del Paese infatti, lungo il confine cinese e thailandese, proseguono gli scontri con il movimento indipendentista dei cristiani Kachin (una realtà composta da sei principali comunità). Iniziate formalmente le ostilità nel 1961 con la formazione del KIA, Kachin Indipendent Army, nato dalla diserzione di militari Kachin precedentemente arruolati dall’esercito nazionale, il conflitto ebbe il suo apice nel 1994 con la conquista da parte dell’esercito nazionale delle principali miniere di giada presenti nel territorio Kachin. Veniva così portata via la principale risorsa economica a loro disposizione, mentre i proventi delle miniere andavano ad aggiungersi a quelli della droga, l’attuale principale indotto economico del Myanmar.

Rohinga in fuga (ph. Kevin Frayer)

Rohinga in fuga (ph. Kevin Frayer)

Dopo diciassette anni di apparente calma durante i quali l’esercito indipendentista non ha comunque accettato il disarmo, nel 2011, nel pieno delle trattative per la riorganizzazione del nuovo Stato del Myanmar, il Tatmadaw l’esercito nazionale (attualmente supportato dalla Russia e dalla Cina grazie a accordi stretti tra il 2016 e il 2017) [2], è entrato in Kachin e ha attaccato gli avamposti militari degli indipendentisti [3]. Da quel momento le violenze più efferate si sono susseguite nel silenzio causato dall’assenza di osservatori esterni.

Imposizione di tasse irregolari, veri e propri balzelli sotto ricatto, uccisioni sommarie, stupri, torture, arruolamenti forzati, villaggi incendiati, assenza di cibo, acqua potabile e cure mediche, bombardamenti improvvisi, mine antiuomo sparse lungo le principali vie di fuga degli esuli, oggi circa 100 mila, secondo i dati raccolti dalle missioni umanitarie che si sono recate nei dieci campi profughi ufficialmente riconosciuti, sorti lungo il confine. Ma una stima reale è ancora una volta impossibile, per la mancanza di dati anagrafici aggiornati, per il disperdersi all’interno della regione di esuli in fuga dai villaggi più colpiti verso la più sicura capitale, e per la presenza di ulteriori, non ufficiali e non permanenti campi profughi presenti nelle regioni attigue.

Rohinga in fuga (ph. Kevin Frayer)

Rohinga in fuga (ph. Kevin Frayer)

È questo lo scenario quotidiano che da anni arrovella l’est del Paese, coinvolgendo non solo le popolazioni del Myanmar, del Kachin e dello Shan, ma anche quelle dei territori confinanti, sottoposti ad una incessante sequela di brutture e di esasperazione e costretti al riarmo dei ribelli indipendentisti. Mantenendo la stessa posizione presa nei confronti del conflitto Rohingya, lo Stato centrale del Myanmar persegue una politica di chiusura internazionale che si traduce nella possibilità e nell’attuazione di violenze indiscriminate e incalcolabili, desumibili solo dalle testimonianze di coloro che sono riusciti a stento a mettersi in salvo.

Ancora una volta il governo del Myanmar, nel disprezzo dei diritti umani, nel disconoscimento della dignità dei popoli dei suoi confini, continua a estromettere dalle scene locali gli osservatori e gli operatori esterni, potendo così agire illecitamente senza alcuna interferenza, ma ottenendo al contempo il risultato di un progressivo impoverimento di mezzi e uomini, e dunque di possibilità di uno sviluppo economico  e sociale capace di risollevare le sorti di un Paese già esasperato dallo sfruttamento, dalla precarietà e dai soprusi del sistema coloniale.

Rohinga in fuga (ph. Kevin Frayer)

Rohinga in fuga (ph. Kevin Frayer)

Liberarsi dal colonialismo, uscire dalle logiche di sfruttamento a distanza, dovrebbe voler dire oggi, per questo insieme di popoli, iniziare a convivere seguendo nuove e personali regole sociali, da riscrivere senza l’astio di rivalità imposte dall’esterno, scevre dell’indottrinamento amministrativo britannico, riformulate sulla base di una condizione comunitaria dettata dalla pressione straniera ma oggi libera di autodeterminarsi nell’interesse comune.

L’ottusa pretesa coloniale di attribuire un’etnicità statica alla natura duttile dell’essere umano ha già purtroppo segnato la storia di molti Paesi [4], ha offuscato le dinamiche della conoscenza e dello scambio, intrappolandole sotto la fissità di maschere rappresentative, indistinte e aliene, forgiate dalla mano di un usurpatore lontano, imposte e infine “culturalizzate” e, dunque, percepite e vissute come naturali appendici identitarie. Fabietti (2013) ha insegnato e spiegato con acume i complessi meccanismi dell’artificio e dell’imbroglio etnico.  «Che le etnie risultino essere delle ‘realtà immaginate’ piuttosto che delle ‘realtà reali’ non impedisce che l’identità etnica sia percepita, da coloro che vi si riconoscono, come un dato assolutamente ‘concreto», e dunque una volta imposta, nel Paese colonizzato, la categoria etnica è dato fissato e inamovibile tanto da accendere il focolaio delle separazioni, delle rivalità, e delle violenze. Occorre prendere atto, finalmente, dell’irrealtà di ogni costrutto e schematismo culturale, riconoscere nell’etnia il risultato del flusso continuo della vita  e del divenire, liberarla dall’idea di una realtà statica e riassegnarla alla sua dimensione di finzione.

Dialoghi Mediterranei, n.32, luglio 2018
Note
[1] Dal 1824 al 1826 i Paesi che costituiscono l’attuale Myanmar divengono scenario della prima guerra anglo-birmana. Dal 1852 al 1886 si assiste al secondo conflitto che terminerà annettendo i territori sotto l’Impero britannico dell’India, riconoscendone però l’autonomia amministrativa. Nel 1937 la Birmania si separa dall’India e diviene una colonia britannica indipendente, la monarchia viene abolita e la religione sia pur ufficialmente separata dall’organizzazione politica dello Stato diviene di fatto un fattore di identificazione e appartenenza alle diverse fazioni che si erano delineate all’interno del Paese. I movimenti indipendentisti iniziano a muovere le proprie propagande non solo in opposizione alla potenza coloniale che le soverchiava ma anche verso le altre popolazioni, coinvolte o meno nella piramide coloniale, i movimenti politici iniziano a creare al loro interno un braccio armato, grazie all’appoggio delle potenze straniere attratte dalla ricca economia del Myanmar. Nel 1943 il Giappone approfittando dei disordini mondiali occupa la parte orientale della Birmania, nominandolo Stato indipendente, ma sostituendo il proprio dominio a quello inglese. Nel 1948, a seguito della decolonizzazione indiana, anche la Birmania si libera dalla morsa coloniale dando vita a uno Stato democratico federale.
[2] Al fine di placare gli scontri lungo il proprio confine e i continui arrivi di esuli Karen e soprattutto Kachin, la Cina ha offerto il suo appoggio al governo del Myanmar per porre fine ai confini etnici, un accordo di matrice repressiva, dato l’impegno a sostenere non le pratiche diplomatiche, previste ma non attuate, bensì l’esercito Tatmadaw. La Russia ha invece siglato accordi di cooperazione col Myanmar in tema di lotta al terrorismo, prevedendo l’ausilio nella formazione militare di terra, nell’istruzione medica e in tutto il settore della marina militare. L’accordo è stato formalizzato a partire da giugno 2016, dal ministro della difesa russo, Anatoly Anatov, e dal general maggiore Aye Myint, ministro della difesa del Myanmar.
[3] In assenza di osservatori esterni l’elenco ufficiale dei principali gruppi armati e dei conflitti presenti sul territorio viene aggiornato e reso noto dal Burma News International che porta avanti il progetto “Myanmar Peace Monitor”.
[4] Il genocidio Ruwandese è uno dei tragici, eclatanti, esempi di come creare, imporre, una fissità di appartenenza etnica su base economica, all’interno di una realtà umana di convivenza e mescolanza, abbia portato al crescere e al deflagrare di odi fratricidi, assenti prima del colonialismo.
Riferimenti bibliografici
Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo, Ombre corte, Verona, 2010.
Nicholas Dirks, Le inquietudini del postcolonialismo. Storia, antropologia e critica postcoloniale, in Ugo Fabietti  (a cura di), Colonialismo, in “Antropologia”, n. 2, Meltemi, Milano, 2002: 16-46.
Edward Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano, 2013.
Jean Paul Sartre, Introduzione a Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino, 2007: 7-8.
 Sitografia
China offers Myanmar support to end ethnic unrest near border, South China Morning Post, 19 gennaio 2017,http://www.scmp.com/news/china/diplomacy-defence/article/2050455/china-offers-myanmar-support-end-ethnic-unrest-near
China’s Role in Myanmar’s Peace Process, United States Institute of Peace, 19 January 2017, https://www.usip.org/blog/2016/09/chinas-role-myanmars-peace-process
http://www.mmpeacemonitor.org/index.php

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Valeria Dell’Orzo, antropologa culturale, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee, con particolare attenzione al fenomeno delle migrazioni e delle diaspore e alla ricognizione delle dinamiche urbane. Impegnata nello studio dei fatti sociali e culturali e interessata alla difesa dei diritti umani delle popolazioni più vessate, conduce su questi temi ricerche e contributi per riviste anche straniere.
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