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Il dilemma di Djokovic e il complesso intreccio di sport e politica

Novak Diova

Novak Djokovic

di Aldo Aledda

Mentre si aprivano i Giochi olimpici invernali di Pechino a Melbourne si concludevano gli Open di Australia di tennis. Entrambi sono stati costellati da episodi di risonanza internazionale, con particolare riguardo a una disciplina. Si può dire che in questi ultimi tempi il tennis sia diventato lo sport più alla moda, ma non tanto perché aumentino i praticanti sul terreno in terra battuta rispetto a quelli di altre specialità, quanto per gli echi che le vicende di alcuni loro protagonisti hanno avuto a livello mediatico.

Noi possiamo porci davanti agli eventi dello sport con l’occhio del cronista davanti al quale si snodano prodigi di qualche secondo, come una strepitosa gara dei cento metri o un salto incredibile nell’atletica leggera, oppure di qualche ora come le partite delle squadre o gli incontri di tennis che quanto più si rivelano spettacolari tanto più fanno esclamare al commentatore di trovarsi davanti ad accadimenti che entrano nella storia dello sport. Essendoci occupati di questa branca di studi per qualche decennio anche a livello accademico, preferiamo un approccio che rimandi a un significato della storia di “lunga durata”, come la intendeva la scuola di Fernand Braudel, opposta a quella événementielle costellata di singoli episodi per come era intesa fino al suo tempo: una storia fatta di grandi strutture che si muovono lentamente nel tempo e nello spazio, che scorrono, si immergono e riaffiorano come una corrente carsica.

2-huizingaIn questi termini ci sembra possa essere considerata l’attività sportiva che, come gioco competizione, rito e festa, accompagna la specie umana fin dal suo apparire sulla terra, l’Homo Ludens di Joan Huizinga per intenderci. I giochi olimpici, per fare un esempio, sono gare preesistenti allo stesso Omero, che le riprende per le celebrazioni organizzate da Achille per la morte di Patroclo in una forma talmente strutturata da far ritenere una loro lunga preesistenza; queste, prima di tornare in auge nell’era moderna col barone De Coubertin, conobbero riproposizioni in Scozia, in Francia e nella stessa Grecia. Lo sport, dunque, è fatto di strutture profonde che costantemente riaffiorano nella storia fatte di sedimentazioni e ragioni che spiegano anche singoli comportamenti.

Sullo sfondo degli ultimi episodi di cronaca in realtà è andato in onda lo scontro tra il mondo chiuso e autoreferenziale degli ordinamenti sportivi, che sono sovranazionali per definizione, e quelli statali che invece hanno una portata esclusivamente locale e con i quali i primi si sono sempre posti nella storia in termini di trasgressione e di competizione. Gli ordinamenti locali per opportunità e impossibilità di gestire esaustivamente la materia hanno sempre cercato di non entrare troppo nel merito delle attività sportive, anche perché in teoria non solo una partita tra squadre di calcio o di hockey su ghiaccio, ma soprattutto un incontro di boxe, per il diritto comune integrerebbe un gran numero di reati penali (tanto è vero che queste manifestazioni agli inizi dell’era moderna o erano vietate dalle autorità quando si svolgevano nelle pubbliche piazze giacché ci scappavano morti e feriti, come nel “ calcio” fiorentino, oppure, come nel caso della boxe, si tenevano in luoghi clandestini con dei “pali” che avevano il compito di avvertire pubblico e contendenti dell’arrivo della polizia).

Per stare nella cronaca attuale, per molte settimane ha campeggiato nella stampa internazionale il caso della tennista cinese Peng Shuai, che in qualche modo è stata zittita (e fatta sparire dalla scena, pare) dal governo per avere accusato un suo autorevole esponente di molestie sessuali; la cosa evidentemente pare possibile – ci spiegano i conoscitori delle dinamiche dell’impero celeste – nella misura in cui in Cina la sfida all’autorità costituisce un motivo di riprovazione più grave di un comportamento pur considerato illecito dal suo ordinamento giuridico. L’episodio, accanto o nel quadro dei diritti umani negati in quel Paese, non ha mancato di riflettersi all’inverso nell’imminenza delle Olimpiadi invernali che si disputano a Pechino, tant’è che hanno convinto le autorità sportive internazionali, dopo un primo scatto di orgoglio e una minaccia di sanzioni, ad abbassare a tal punto il profilo su questa vicenda da tacere e non fare alcun passo in direzione di un suo effettivo chiarimento. Sembrerebbe tuttavia che una delle ragioni latenti è che, oggi, il Cio, trovandosi sempre più difficoltà a trovare Stati disposti a ospitare i giochi olimpici – a conti fatti, sempre meno convenienti economicamente da organizzare – possiede un minore peso contrattuale con i governi e sempre più problemi con i suoi sponsor ufficiali (Zimbalist).

3-zimbalistMaggiore risonanza invece ha avuto l’altro fatto che – sia pure di minore gravità – si è dispiegato nello scenario del mondo libero e democratico, quello occidentale, ossia il caso Djokovic. Nessun’altra punta di diamante del tennis, e forse di nessun altro sport – a meno che non sfidasse indirettamente qualche personaggio come Hitler (caso Jesse Owens) – era riuscita a occupare le prime pagine dei giornali e dei notiziari di tutto il mondo quanto il tennista serbo per gli Open di Australia. La ragione del contendere era, come è noto, la pretesa del tennista serbo di gareggiare sul territorio australiano in violazione delle disposizioni anti Covid. Situazione prima facie apparentemente semplice, ma che diventa sempre più oscura e complessa quando con lo sport si intreccia giustizia, politica e media, ossia giudici, avvocati, politici e giornalisti.

La vicenda è stata spiegata da chi se ne è occupato utilizzando gli strumenti del diritto e della politica moderni, ma – a guardar bene – le sentenze contraddittorie dei tribunali finiscono per non spiegare nulla se non addirittura ad accrescere la confusione intorno a questi temi, cosa che accade facilmente quando, come detto in premessa, si prescinde dalle stratificazioni storiche e culturali che si sono accumulate nel tempo intorno al fenomeno sportivo. Intanto a prima vista appare estremamente improbabile che tutta la vicenda per come l’hanno rappresentata i media costituisca il colpo di testa di un comune no-vax che ha sbagliato calcoli e bersagli. Di certo non si è valutato a sufficienza ciò che il giornalismo sportivo e non ampiamente conosce, ossia che alla base vi sia stato anche il calcolo non infrequente nei campioni dello sport che, giunti all’apice della carriera e non trovando più ostacoli sul loro cammino, ricorrono a espedienti di natura extrasportiva per spingere più in alto la competizione. Ciò spiegherebbe in parte perché, nel caso di Djokovic, il confronto non si fosse cercato tanto con un collega stellato quanto col Moloch rappresentato dal governo australiano che correttamente, dal suo punto di vista, intendeva sancire nel suo Paese il primato dell’ordinamento statale su quello sportivo nella subiecta materia. 

4-mandelÈ noto, infatti, che ogni campione sportivo si crea una piccola azienda con esperti di media, di immagine, di economia e di diritto che pianificano e lo seguono in ogni passo. A riprova di ciò e a un livello più immediato nel caso specifico non è difficile cogliere i messaggi subliminali tipici degli sportivi di alto livello rivolti a elevare la sfida, come quelli implicitamente inviati agli avversari e a chi sta dietro di loro intendendo che possono prevalere non in campo ma al massimo solo con l’aiuto di un apparato statale repressivo; ma in tutti i casi non è impossibile che alla fine dei conti un Davide battendosi contro un Golia riesca pure per atterrarlo. E, in verità, qualche straccio è riuscito a far volare nell’immediato l’apparato del tennista serbo, a parte essere riuscito ad aggiudicarsi il primo match giudiziario.

Tutta la vicenda, infatti, è servita a mettere al corrente l’opinione pubblica internazionale di un aspetto abbastanza sgradevole per un paese occidentale e democratico come quello australiano – realtà non a caso indirettamente enfatizzata dallo stesso Djokovic – e di cui non tutti al mondo erano al corrente, ossia che questa land of opportunity abbia messo in piedi un sistema fortemente discriminatorio nei confronti di migranti e di stranieri. Nell’inevitabile volare di stracci che ne è seguito, poi, sono venute a galla le contraddizioni tipiche un po’ di tutti i governi dei regimi democratici basati sul check balance ed esposti all’esame costante della loro opinione pubblica così agguerrita nell’odierna “democrazia del sondaggio”, fonte di tante insicurezze per gli uomini che le rappresentano e si dibattono tra l’affermazione decisa di una propria linea politica e il dover rendere conto al loro elettorato (in questo caso è accaduto dopo la prima sentenza del giudice). Alludiamo all’antipatico scaricabarile cui si è assistito intorno alla vicenda tra il premier australiano che cercava di defilarsi lasciando l’onere della decisione al suo ministro dell’immigrazione salvo poi riappropriarsi del microfono a cose fatte esultando per il risultato ottenuto grazie, però, come si è visto, a tre giudici, i quali, rispetto al primo che dava ragione al tennista serbo e appariva più indipendente dal potere esecutivo, in ultima analisi facevano la figura degli uomini di paglia gettando ancora di più nel ridicolo un sistema giudiziario che con tanto affanno si era adoperato a trattare simili de minima.

5-houlimanLa vicenda per il momento è cessata col serbo che è andato via svalutando indirettamente l’evento sportivo australiano il cui successo rimaneva affidato a tennisti di rango inferiore e rientrando da trionfatore nel suo Paese dove i pesi massimi della politica locale hanno avuto buon gioco a denigrare i governanti australiani per il loro comportamento antisportivo e, sottilmente, razzistico. Una certa stampa ha previsto che l’atteggiamento senza dubbio abbastanza arrogante di Djakovic troverà la giusta sanzione nella federazione internazionale tennis che metterà così fine alla sua carriera. Whishful Thinking o ci si dimentica di dire altre cose? Proverò a spiegare perché non è facile che si avveri questa previsione partendo proprio dal sostrato culturale che ne sta alla base su cui cercherò di gettare qualche lume.

Su tutta la vicenda viene a galla la pretesa di un potere statale che, oggi, in tutto il mondo, col pretesto della pandemia, sia negli Stati autoritari sia in quelli democratici, mira a divenire sempre più interventista riprendendo il controllo di tutti gli aspetti dell’esistenza, dalla salute all’economia e perfino dello sport. La prima avvisaglia in quest’ultimo ambito si è avuta con l’opposizione di alcuni governi dei Paesi europei interessati ai tentativi, tutti legittimi e in teoria fuori dall’influenza della politica, dei grandi club europei di creare privatamente nel calcio una Super League (che del resto in Usa funziona da sempre per i quattro grandi sport nazionali). Tentativo che è stato stoppato non solo dall’intervento della UEFA che temeva di vedere dimezzato il proprio potere, ma soprattutto dalla sua alleanza con alcuni governi, segnatamente quello inglese e italiano, la cui ingerenza in questo ramo di attività si comprende fino a un certo punto. Sull’altro fronte rispetto allo stato interventista si pone il mondo dello sport con le sue istituzioni sovranazionali che si trincerano dietro ordinamenti che prescindono dalle leggi degli Stati in cui operano e con i quali talvolta giungono in rotta di collusione (si vedano gli arresti in massa dei dirigenti della UEFA qualche anno fa a Zurigo in un’operazione congiunta della polizia svizzera e la FBI su mandato della procura federale americana).

6-weberQueste prime osservazioni impongono una riflessione sui rapporti tra sport e politica in generale, tema peraltro ampiamente affrontato nella letteratura specializzata che si trova quasi unanime nell’affermare che, a onta della smentita degli addetti ai lavori, i rapporti esistono e sono molto stretti. I principali esponenti del mondo dello sport hanno quasi sempre professato unanime fedeltà a un principio in sé abbastanza difficile da mettere in pratica, ossia che lo sport non deve colludere in nessun modo con la politica. Si tratta questa di un’affermazione che viene costantemente e paradossalmente rimessa in campo, sia pure ad usum delphini, proprio quanto più il legame tra questi due mondi appare stretto e inevitabile, in particolare in occasione dei giochi olimpici per la cui riuscita è fondamentale non solo l’impegno di tutte le istituzioni sportive ma anche di quelle statali, sia che organizzino sia che partecipino. A parte la smentita che da più di un secolo avviene ogni due anni tra giochi olimpici estivi e invernali, questa affermazione è smentita dalla storia del rapporto tra la politica e le attività che oggi definiamo convenzionalmente come sportive, una relazione che affonda, se vogliamo, nella notte dei tempi quando le potenze vicine violavano la tregua olimpica garantita dalla potenza spartana da parte degli Erei invadendo l’altare dell’Altis a Olimpia (trattata nell’Ellenica di Senofonte), passando per gli imperatori romani che facevano funzionare strumentalmente le istituzioni repubblicane ormai svuotate di senso durante il circenses (Weber, Veyne) – da lì per esempio la ratio dell’istituto del pollice verso che decideva della vita del gladiatore sconfitto vestigia dell’ultimo privilegio mantenuto dal populus senatusque romanus – e giungendo alle più moderne competizioni tra Stati per attrarre, come si è detto, nel proprio territorio giochi olimpici e campionati del mondo delle principali discipline con tutti i significati politici ed economici annessi.

A volerci limitare all’era moderna, poi, l’ingerenza della politica nello sport, per essere più chiari, è apparsa macroscopica nelle vicende che contornarono le Olimpiadi di Berlino del 1936 e quelle di Mosca del 1980, ecc., passando per la contestazione del Black Power di Carlos e Smith dei giochi di Città del Messico del 1968 ai campionati di tennis in Cile sotto Pinochet con i governi che facevano ponti d’oro perché partecipassero tutti i paesi, sostenendo – per primo lo stesso Hitler  (che per inciso non amava lo sport) – che non vi fossero implicazioni politiche ma si trattasse solo di un gioco. Che l’uso politico dello sport non cessa mai è dimostrato che ai prossimi giochi invernali cinesi per alcuni Paesi parteciperanno gli atleti ma non intenzionalmente i rappresentanti politici delle rispettive nazioni.

10-britishLa presunta apoliticità dello sport si rivela anche un principio non attuabile nella pratica perché pensare che quanto più un fenomeno sul piano generale assume proporzioni di massa come quello sportivo possa sfuggire alle attenzioni della politica (e dell’economia), appare abbastanza lontano dalla normale dinamica tra gli accadimenti sociali e la politica. In realtà lo sport moderno fin dalla nascita è andato a braccetto anche con i rappresentanti della politica, tanto che nel luogo delle sue origini, l’Inghilterra, la figura del gentleman – fa osservare il sociologo Norbert Elias – si confondeva con quella dello sportman (Dunning-Elias). Tanto è vera la coincidenza tra questi due momenti che nelle colonie britanniche, per esempio a Singapore, il Cricket Club stava a fianco dell’edificio del Parlamento, ma anche chi era semplicemente stato affascinato da questa moda, come il presidente argentino Pellegrini, che reduce da Parigi fondò il Jockey Club a Buenos Aires, fece sì che la sede di questo fosse vicina al Congresso come appare ancora oggi.

Queste valutazioni valgono anche per i poli opposti. Neanche, dunque, nel Paese per eccellenza più liberale e liberista del mondo e che inventò lo sport, appunto la Gran Bretagna, avvenne la tanto invocata scissione tra sport e politica e tanto meno lo fu per il sistema totalitario per definizione, ossia quello sovietico che mise in atto una sofisticata politica sportiva sia in funzione di controllo della popolazione giovanile al proprio interno, sia del prestigio esterno per affermare il primato del modello socialista sul piano internazionale, anche con punte di diamante come la Germania Est e Cuba oltre che attraverso un uso spropositato del doping di Stato.

9Lo sport moderno nasce, abbiamo detto, nell’Inghilterra imperiale dove fa scuola. Esso viene preso in mano subito dalle istituzioni non solo come strumento pedagogico per controllare le frotte di ragazzini che, per via dell’absent father – ovvero dell’impegno lavorativo gravoso che la rivoluzione industriale nella sua fase tecnologica imponeva alla classe operaia –, costituendosi in gang rendevano più pericolose le street londinesi o manchesteriane (Burstyn). Esso, oltre che a porsi come un pastime cui si dedicava la tradizionale nobiltà e la trionfante borghesia, così definita da Hobsbawn, divenne anche uno strumento di controllo e di imposizione della supremazia bianca nel mondo, nella logica di quel darwinismo sociale e neobiologismo razziale che si andavano affermando soprattutto nei primi decenni del XX secolo (Hoberman). Tuttavia, quella che veniva proposta era un’attività che si fondava sull’idea di un fisico ideale, sano, che per antonomasia era quello dello sportman/gentleman di cui era dotato per natura perché maschio, bianco e anglosassone, che consciamente o inconsciamente pervaderà tutto lo sport moderno fino ai nostri giorni (da lì in qualche modo l’idea di Djakovic di non potere essere infettato dal virus e l’affermazione di Bolsonaro, presidente del Brasile e negazionista, che per quanto riguardava la sua immunità portava a riprova “my athletic history”). 

Il corpo dello sportivo è sano e naturale e, quindi, rifugge da tutti quei rimedi cui ricorre l’uomo di razza inferiore, da qui la lotta al doping che, ammesso tacitamente in tanti ambiti della vita sociale (imprenditoria, arte, lavoro, politica, sesso, ecc.), è aspramente condannato nello sport non solo perché una sua eventuale assunzione falsa la gara, il cheating (che problema ci sarebbe se tutti ne facessero uso, come di fatto oggi avviene in molte discipline sportive?), ma perché va appunto contro il principio del corpo sano e naturale che per funzionare non ha bisogno di additivi, condanna sul cui rafforzamento hanno convenuto peraltro gran parte degli ordinamenti statali, in testa quello italiano. Procedendo con la sua relativa strumentalizzazione, il corpo dell’uomo bianco, essendo superiore biologicamente a tutti gli altri era poi giustificato e autorizzato a civilizzare e conquistare il mondo, soprattutto quello che sarebbe stato poi definito come “terzo” (il famoso “fardello dell’uomo bianco” di Rudyard Kipling). Lo sport costituì così un’attività che conciliava le emergenti concezioni democratiche con quelle imperiali, grazie alle quali ci si poteva imporre anche nelle colonie, consentendo in primo luogo di cooptare le classi dirigenti senza usare la forza, come accadde in India col cricket e col polo, mentre quelle inferiori all’occorrenza potevano essere tenute sotto controllo e civilizzate in modo più soft (molto utile si rivelò la “noble art” del pugilato proprio perché dava al gentleman la possibilità di battersi con le classi inferiori e superarle per il semplice fatto di essere nobile e razzialmente superiore, oltre che ottimo conoscitore delle tecniche di quella).

11-vardaIn questo senso lo sport come espressione prevalente della classe nobiliare riesce a dialogare, sì, con quelle inferiori, ma tenendole sempre socialmente distanti anche quando le deve utilizzare per gestire le competizioni, come capitò con i giudici di gara e gli arbitri ancora definiti umpire in inglese, ossia “sotto i pari”, i nobili (da lì la moda non casuale del pubblico degli stadi di strapazzare questi “esseri inferiori” definendoli “cornuti”, “venduti”, “traditori”, ecc. tutti epiteti affibbiati a chi abbandonava la moglie la domenica sera ed era talmente spiantato da dover accettare per vivere i soldi dalle squadre che doveva far vincere). I cosiddetti proletari solo più tardi vennero accettati nello sport, e lo furono come professionisti, uno status questo che nello sport ha posseduto una connotazione classista e denigratoria a fino a quasi tutto il XX secolo tanto da escluderli per lungo tempo dai giochi olimpici, dove invece oggi tutti direttamente o in direttamente sono professionisti (Holt). L’esclusione si fondava ancora una volta sul principio del corpo naturale che era quello del nobile e che non aveva bisogno di essere allenato, mentre il professionista, pur indispensabile per battere gli avversari, era considerato sempre un traditore degli ideali dello sport, soprattutto del fair play; e ciò inizialmente per effetto del lavoro manuale (è rimasto famoso il caso del nonno dell’attrice Grace Kelly che fu squalificato dalle gare di canottaggio col pretesto che si trattava di un “professionista” dal momento che aveva la possibilità di irrobustire i muscoli… facendo il muratore), e poi perché si allenava, un’attività quest’ultima che incominciò a farsi strada faticosamente e solo molto tardi nelle attività sportive, perché ritenuta contrastare platealmente con la naturalezza della pratica sportiva da cui discendeva la comprensibile predisposizione dello sportman a emergere e a divertirsi più che a lavorare (cosa quest’ultima appunto da operai).

14-susanIn questa logica lo sport si pone come un’affermazione di valori virili, divenendo così quel possente bastione del maschilismo che appare tutt’oggi e che spiega anche le difficoltà che hanno avuto le donne a essere accettate in un ambito in cui comunque sono sempre meno importanti dell’uomo, meno seguite, meno pagate e comunque tendenzialmente sempre dirette e amministrate dagli uomini (in tutti i casi, a differenza di quasi tutte le altre attività umane, qui il genere femminile, salvo nelle ore scolastiche dell’educazione fisica, è sempre tenuto separato da quello maschile). Non solo nei confronti delle donne si attua la discriminazione, ma i valori virili si affermano anche versus gli omosessuali maschi che non sono graditi perché professano ideali non maschili, a differenza delle lesbiche, più accettate nello sport nella misura in cui si conformano meglio agli ideali maschili e non a caso tendono meno dei primi a nascondere la loro condizione (Cahn).

Alla luce di queste considerazioni si comprende meglio come si colloca il problema razziale, anche nel caso Djokovic. Lo stesso presidente della repubblica serba si è chiesto, a mio avviso correttamente, se sarebbe stato trattato nello stesso modo Djokovic se invece di essere serbo fosse appartenuto a un Paese cosiddetto occidentale. Intendendo beninteso americano, inglese o tedesco bianco, non certo di altra etnicità. In realtà la popolazione serba agli occhi di noi europei rientra ancora in quella massa di uomini dell’est che premono alle frontiere e fanno parte di quell’emigrazione composita di slavi che nell’immaginario collettivo occidentale andrebbe tenuta distante (per ora lo è dall’Unione Europea).

12-sexLo sport creato dai bianchi per i bianchi ha mostrato una certa resistenza ad aprirsi a etnie diverse e quando è accaduto lo ha fatto a piccole dosi, quasi sempre cedendo e mai concedendo, tenendo ben presente il principio che il vero sport è quello ufficiale, atletico, razziale costruito a misura di uomo che corrisponde solo a un certo fenotipo, al di fuori del quale esistono anche competizioni per uomini di taglia diversa, magari piccoli o grassi, che sono i cosiddetti sport etnici, e solo limitatamente e in qualche occasione possono fare capolino per esempio nelle Olimpiadi (in genere nell’ambito delle proposte riservate ai Paesi organizzatori, di solito fuori del mondo occidentale). Per via di queste sedimentazioni storiche (il fenomeno inglese degli houligan docet), e non solo per polemica tra tifoserie e campanilismo, l’atleta non omogeneo razzialmente è vilipeso negli stadi, offeso e strapazzato da gruppi di persone che solo indirettamente sono di sentimenti razzisti, nazionalisti, contro gli immigrati, ecc. Ma la discriminazione spesso è più sottile e pervasiva di quella che si vede in campo. A tanta esultanza e festa a seguito del gol o della schiacciata spesso corrisponde un comportamento distante e non simpatetico nel clima della squadra al cui interno spesso il “diverso” si sente isolato. A questo segue anche una sorta di contenimento studiato della sua presenza.

15Studi specifici sulla questione razziale in Usa hanno dimostrato che l’apparire di tanti atleti di colore nelle gare più popolari dell’atletica leggera o nelle competizioni dei quattro grandi sport nazionali – baseball, football, basket e hockey su ghiaccio – non costituisce la punta dell’iceberg ma un fenomeno che finisce lì (Edwards). Infatti, i neri, è stato osservato, svolgono, sì, ruoli tra i più popolari e più spettacolari, mentre quelli di regia all’interno del team, per esempio, sono affidati a giocatori bianchi, come di bianchi è composta in prevalenza la squadra, al pari di allenatori e dirigenti, anche perché, è stato sottolineato, un pubblico fatto prevalentemente di bianchi difficilmente accetterebbe uno spettacolo interpretato da soli neri. L’osservazione della squadra olimpica americana, poi, a fronte di risultati negli sport più visibili della regina delle Olimpiadi, l’atletica leggera, che sembra composta in prevalenza di atleti di colore, ci mostra che in realtà questi non superano il 10%: è vero che i neri sono più visibili perché si affermano nelle corse veloci, nei salti e nella boxe, ma già quando si passa alle corse lunghe e alle altre specialità del track and field, gli uomini e le donne di colore spariscono, come pure non si vedono nei tiri, nel fioretto, nell’equitazione, nella ginnastica, nel nuoto, nel sollevamento pesi e in generale negli sport di squadra, tutte attività che costituiscono il maggiore bottino delle medaglie olimpiche.

Questa distinzione non è soltanto frutto di una selezione naturale che rende i neri più bravi dei bianchi (valutazioni scientifiche da tabloid, cerca di dimostrare Hoberman, che non si sono mai rivelate fondate) ma rappresentano precisi orientamenti delle società e la preferenza di larghe frange del pubblico e degli sponsor, tanto è vero che quando si vuole questa realtà può essere ribaltata come è capitato nel golf con Tiger o nel tennis con Djakovic, nei confronti anche il mondo dello sport – si guardi un’assemblea del Cio e di qualsiasi federazione sportiva internazionale – è sempre un mondo a prevalenza bianco. Forse non a caso sia il primo sia il secondo non hanno potuto fare a meno di affrontare campagne denigratorie e sanzioni sportive in relazione anche fatti riprovevoli realmente accaduti all’esterno dello sport, ma che allo stesso livello di gravità sono stati spesso mantenuti sotto traccia per star bianche da tutto un mondo anche al di fuori dello sport, ma sempre bianco e occidentale.

Il timore che la Federazione internazionale di tennis intervenga energicamente stroncando la carriera del suo primo tennista, o in altri termini ammazzando quella che è la gallina d’oro anche per loro, dopo tutti questi discorsi, è davvero credibile? Ho cercato di dimostrare sia pure indirettamente che se accadesse non sarebbe in linea con tutta la cultura sportiva che si accumulata negli ultimi due secoli. Anche in questa ipotesi si può aggiungere qualche riflessione di tipo più istituzionale diversa da quelle correnti che ha portato diversi giornalisti a emettere o anticipare sentenze.

13-sportsGli ordinamenti sportivi portano sempre a loro vanto proprio il distinguersi da quelli statali, sia perché sono planetari sia perché regolano attività di membri che, per un momento e per certi aspetti, accettano di assoggettarsi volontariamente a quelli. Non a caso questi ordinamenti – che per inciso limitano tutta una serie di libertà democratiche, come l’esercizio del diritto di critica e la libertà di parola e che ormai si sono dotati di organismi giudiziari molto sofisticati e professionali in grado di incrociare le armi con le giurisdizioni ordinarie a parità di valore e di competenza – tendono a vincolare in primo luogo a se stessi i propri associati imponendo per esempio allo sportivo che volesse adire a un tribunale ordinario di ottenere prima l’autorizzazione dell’autorità sportiva competente, pena sanzioni o espulsioni. Non a caso per coprirsi dalle ingerenze statali quasi tutte le organizzazioni sportive internazionali hanno sede in territorio svizzero che le protegge meglio di ogni altro dalle pretese dei diritti di altri Paesi (cosa che in genere funziona, tranne il caso citato della UEFA). Che l’ordinamento sportivo all’occorrenza si riveli più forte di quello statale è dimostrato dal fatto che molti atleti, condannati per esempio per doping dagli organismi internazionali dello sport, e poi mandati assolti dai tribunali locali (segnatamente americani) potevano, sì, gareggiare nel loro territorio, ma per effetto delle leggi sportive erano banditi dalle gare internazionali, dalle Olimpiadi, dai rispettivi campionati del mondo, ecc. dai quali era meno conveniente stare fuori per gli atleti di levatura internazionale. Questa è la sanzione più forte a disposizione di un ordinamento che, gradualmente dal XIX secolo al XX, è divenuto grazie all’attività internazionale, al pari di quello delle grandi religioni monoteistiche, è divenuto planetario (dove è rimasto abbastanza locale, come in Usa, per esempio, risulta più ingerito dalla giurisdizione ordinaria)

Perciò ritengo che quando il caso verrà portato dinanzi a un tribunale dello sport, magari in epoca in cui il Covid sarà più attenuato, gli avvocati di Djokovic non avranno difficoltà a dimostrare, non ammessi gli attori australiani (anche per incompetenza territoriale), che tutte le vicende collegate al comportamento del giocatore negli Open dal punto di vista delle leggi dello sport è stato ineccepibile. Non è improbabile, infatti, che se non ci sono pressioni politiche il sistema si chiuda a riccio consentendo che nessuna delle questioni adite potrà essere giudicata di portata tale da impedire a un campione dello sport di continuare a gareggiare. Non solo, ma implicitamente si cercherà affermare il principio che chi ce l’ha con un avversario se la veda in un terreno in terra battuta e non in un’aula di tribunale, che questa è la legge più vera e più profonda dello sport da quando nel football fu istituito il calcio di rigore per chi contravveniva le regole del gioco e che per il vero nobile rappresentava l’onta più grande per avere violato i principi del fair play (la ragione storica è che, alle origini del gioco del calcio, prima che le regole di Cambridge funzionassero a livello universale, i capitani delle due squadre prima della partita si mettevano d’accordo sul rispetto di quali norme dovesse condursi la gara). Quindi, in due parole, non si esce in modo semplicistico dall’intreccio di politica e sport se non si affronta tutta la questione in funzione di alcuni nodi che legano quest’ultimo al resto delle dinamiche sociali e che giovano a spiegare anche atteggiamenti individuali apparentemente fuori contesto o fine a se stessi. 

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022 
  Riferimenti bibliografici 
L’attività sportiva in senso lato ha destato l’attenzione dei grandi storici dell’antichità, in primo luogo Tucidide, Erodoto e Senofonte, anche perché le esercitazioni e la cultura del ginnasio erano centrali nella vita della polis e i giochi olimpici, con quelli istmici, erei e corinzi costituivano, con la religione, il solo momento unificante della “nazione greca”, a tacere che l’areté si basava sulla concezione dei giovani visti come kaloi kai agathoi. Il tema ha trovato ampia trattazione nei lavori del grande storico svizzero Jakob Burckhardt, Storia della letteratura greca (vol. II, ed. it. Sansoni 1965). Dopo vi fu il fondamentale lavoro del 1939 dell’olandese Joan Huizinga, Homo Ludens (ed. it., Einaudi 1973), che affronta il fenomeno del gioco nel suo complesso nella storia, in cui inquadra anche l’attività sportiva. Nondimeno colpì la funzione del Circenses nella società romana, in funzione sia istituzionale in cui alla lunga si esaurirono le prassi repubblicane e di controllo delle masse che ha visto l’autorevole trattazione dello storico francese Paul Veyne (nell’ed. it. Il pane e il circo, Il Mulino 1976), argomento ripreso in modo specialistico da Carl Weber, Panem et circenses (ed. it., Garzanti 1986). L’attività torneistica del Medioevo è stata oggetto di trattazione di Georges Duby nelle edizioni italiane delle due opere dedicate, La domenica di Bouvines (Einaudi 1977) e Guglielmo il Maresciallo (Laterza 1985). Tra le opere specialistiche che seguono tutto il corso della storia dello sport, oltre al mio Aldo Aledda, Sport. Storia politica e sociale (SSS 2002), segnalerei perché pubblicato in Italia di Richard Mandell, Storia culturale dello sport (Laterza 1989).
Fra i testi che prendono in considerazione i profili politici dello sport, oltre a quelli già citati, eccellono tra quelli pubblicati in Italia Dunning-Elias, Sport e aggressività (Il Mulino 1986) e John Hoberman, Politica e sport (Il Mulino 1986). Un quadro della politica internazionale in relazione allo sport è tracciato da Barrie Houlian, Sport and International Politics (Simon & Schuster 1994). L’elemento razziale è trattato da due celebri testi di Harry Edwards, professore di sociologia all’Università della California di Berkeley e organizzatore della contestazione nera dei Giochi Olimpici di Città del Messico del 1968 in The Revolt of the Black Athlete (Mac Millan 1970) e ancora da John Hoberman, Darwin’s Athletes (Mariner 1997). Viceversa per i temi correlati alle origini dello sport in Inghilterra, da cui, poi, tutto si generò e prese piede cfr. Richard Holt, Sport and The British. A Modern History (Oxford University Press 1989) e Varda Burstyn, The Rites of Man. Manhood, Politics, and Culture of Sport (University of Toronto Press 2000). Sul sesso e sport illuminante è il libro di Susan K. Cahn, Coming on Strong. Gender and Sexuality in Twentieth-Century Wommen’s Sport (MacMillan 1994).
Per tutte le questioni collegate ai problemi etici dello sport, tra cui fair play, doping, genere cfr. Aldo Aledda-Maurizio Monego (eds), The Primacy of Ethics. Also in Sports? (Franco Angeli 2011) con contributi di Lamartine Da Costa, Giuseppe Mari, William J. Morgan e Yves Van Auweele.
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Aldo Aledda, studioso dell’emigrazione italiana con un’ampia esperienza istituzionale (coordinamento regioni italiane e cabina di regia della prima conferenza Stato-regioni e Province Autonome -CGIE), attualmente è Coordinatore del Comitato 11 ottobre d’Iniziativa per gli italiani nel mondo. Il suo ultimo libro sull’argomento è Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche (Angeli, 2016). Da attento analista del fenomeno sportivo ha pubblicato numerosi saggi e una decina di libri (tra cui Sport. Storia politica e sociale e Sport in Usa. Dal big Game al big Business, finalisti premio Bancarella e vincitori Premio letterario CONI); ha insegnato storia allIsef di Cagliari e nelle facoltà di Scienze motorie a Cagliari, Roma e Mar del Plata in Argentina.

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