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Il culto di Iside nella “sacra” Marettimo

Il sito ‘u Scrittu sul versante nord-ovest di Marettimo

Il sito ‘u Scrittu sul versante nord-ovest di Marettimo

di Emilio Milana

Non c’è rupe, pizzo o canalone nella montagnosa Marettimo, isola delle Egadi, che non abbia un nome che l’identifichi. Nemmeno le tane dei conigli sono sfuggite all’attenzione dell’antico isolano, frequentatore assiduo di una “campagna” prodiga di selvaggina, di legna e di sorgenti d’acqua. ‘A Craparizza, ‘a Chiana Ruta, ‘a Tana di Don Petru: un intreccio di nomi apparentemente confuso e casuale nella toponomastica locale, ma ben organizzato e impresso nella memoria dei marettimari, specialmente di quelli che, andando per mare, necessitavano di un buon sistema di “punti cospicui” per eseguire gli allineamenti che li riportassero sulle pescose marine.

‘U scrittu è il nome di uno di questi siti e, aldilà dell’immediato riferimento a una qualche sorta di epigrafe, non ne è stato mai dato un significato, un’origine. Anzi se ne è sempre parlato in maniera vaga, e nessuno ha mai fornito la giusta indicazione sulla sua ubicazione. L’incerta testimonianza di un pescatore locale, ora defunto, lo riporta come DCLX, correlandolo al numero romano 660.

Il luogo si trova sul versante nord-occidentale dell’isola tra lo Scaro Maistro e la Praja du Libàno e da chi scrive, intorno alla metà degli anni cinquanta, è stato perlustrato più volte senza pervenire ad alcun ritrovamento. Una successiva ricognizione, guidata dalle indicazioni del bisnonno, aveva condotto alla presenza di alcuni segni rupestri, non interpretabili dall’adolescente di allora, ma con ogni probabilità collegabili alla mano dell’uomo per la distinta forma a “X” del segno più a destra dell’iscrizione. Le due testimonianze, ammesso che si riferissero alla stessa epigrafe, trovavano, così, un punto in comune: la “X” del primo segno a destra.

Un’ipotesi di interpretazione, senza alcuna velleità filologica, è stata formulata dallo scrivente nel libro La scia dei tetraedri (2006: 25-26), pubblicato da Danilo Montanari Editore in Ravenna, nella quale con molta riserva si attribuiva all’epigrafe paternità fenicia e valenza religiosa. A distanza di quasi sessant’anni, nel maggio 2014, un’ultima rivisitazione del sito confermava la presenza dell’iscrizione, le cui lettere potevano con verosimiglianza farsi appartenere all’alfabeto neopunico [1] sulla base di un raffronto con le “tavole di J. Friedrich”. I segni apparivano non molto incisi sulla roccia, non perfettamente allineati, ma ben evidenti anche se parzialmente ricoperti da macchie di muschio. A partire da destra, la prima lettera, geometricamente assimilabile alla “X” uncinata sul tratto superiore di destra, riconduceva a un alep (). La seconda, invece, mostrava un’apparente ambiguità tra un samek (S) e un sade (Ş), facilmente superata con l’applicazione di un algoritmo di pattern recognition [2], che, sempre con l’aiuto delle tavole friedrichiane, conduceva a un samek. Il terzo segno, discontinuo e lineare, in verità discutibile nell’essere definito tale, per le considerazioni che in seguito saranno esposte, potrebbe condurre alla consonante nun.

L’epigrafe della località ‘u Scrittu nell’isola di Marettimo

L’epigrafe della località ‘u Scrittu nell’isola di Marettimo

Premesso che l’iscrizione marettimara possa essere considerata neopunica e costituita dalla sequenza delle lettere alep, samek e nun, rimane ora da assegnarle un significato. Si faranno, a tale scopo, alcune considerazioni: 

  • L’arcipelago delle Egadi, così come altri centri vicini (Erice, Lilibeo), si inserisce all’interno di un’area geografica caratterizzata dalla presenza delle città costiere di fondazione fenicia (Solunto, Palermo, Mozia, Himera) in cui è definibile un corpus epigrafico – comprendente testi votivi e funerari, iscrizioni rupestri, marchi di fabbrica su elementi architettonici, bolli e graffiti su anfore, tutti databili tra il VII secolo a.C. e il III secolo d.C. – che chiaramente rimanda all’alfabeto fenicio, fenicio-punico e neopunico.
  • La presenza di una cultura fenicia a Favignana – agevolata dalla posizione geografica dell’isola, all’incrocio delle principali rotte mediterranee – è legata alle diverse testimonianze disseminate in varie grotte risalenti all’VIII secolo a.C. Alcuni studi effettuati a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta da Benedetto Rocco, nella Grotta del Pozzo su una decina di iscrizioni e una serie di figure raffiguranti dei pesci [3], portarono il ricercatore a vedere nella grotta un luogo di culto dedicato a Iside da parte di devoti dediti al mare e alla pesca. In particolare, nell’iscrizione contraddistinta nella sua pubblicazione con il n.4, venne identificato un alep di forma evoluta, seguito da un samek e un nun, risalenti al I sec. a. C.-I sec. d.C. La traduzione data è: “O Iside, di grazia!” La parola che contraddistingue Iside è “S”. Interessante fu considerata dal Rocco la presenza di un nun che, letto “na” o “no” alla maniera ebraica, darebbe la stessa valenza esortativa come in “Osanna”, Hosha’-na, che per gli ebrei ha il significato di “Salva di grazia!”.
  • La sequenza di segni che contraddistingue Iside, “’S”, è stata ritrovata più volte, sempre dallo stesso Rocco, anche nelle varie iscrizioni parietali della Grotta della Regina alle pendici nordorientali del Monte Gallo sopra Mondello vicino Palermo. Quella evidenziata nell’iscrizione neopunica identificata con il numero 1, adiacente al disegno di una nave, ricadente nel periodo II-I secolo a.C., è stata interpretata da Rocco come una richiesta di protezione alla grande dea del navigare, con un riaccostamento alla festa del Navigium Isidis, quale si svolgeva a Corinto, secondo una testimonianza di Apuleio [4].

Il sito ‘u Scrittu a Marettimo si trova nei pressi di una grotta situata alcuni metri sopra la Grotta della Pipa, in cui lo scalatore Jacopo Merizzi, nella primavera del 2003, ha rinvenuto la presenza di innumerevoli frammenti di anfore, vasi, piatti e coppe di diversa origine. I reperti prelevati testimoniano un’assidua e complessa frequentazione della grotta a partire dagli inizi dell’VIII secolo a.C., epoca in cui nella cuspide occidentale della Sicilia cominciavano a svilupparsi i primi centri punici. La presenza di acqua dolce in queste grotte e la buona tenuta del fondo marino nella vicina cala dello Scaro Maistro, protetta dai venti meridionali, devono avere necessariamente attirato l’attenzione delle navi in transito, e stabilito un flusso umano a carattere soprattutto marinaro.

Sulla base di queste considerazioni è lecito supporre che l’epigrafe dello Scrittu costituisca un’invocazione a Iside, allineandosi così alle analoghe invocazioni riscontrate nella Grotta della Regina di Monte Gallo e nella Grotta del Pozzo di Favignana e darebbe un significato religioso alla grotta della Pipa, soprattutto se si tiene conto che i Punici legavano l’acqua e la fertilità alla dea egizia. L’esistenza di un culto isiaco a Marettimo, inoltre, troverebbe sostegno dai recenti ritrovamenti effettuati nella campagna di scavi a Marsala nel 2008-2010, attestanti la presenza nella città antica di Lilibeo di un grande complesso cultuale dedicato a Iside, databile intorno alla fine del II sec. d.C. (con fasi più antiche risalenti alla fine del II sec. a.C.) [5]

La presenza di culti egizi, nell’estremo vertice occidentale della Sicilia, troverebbe corrispondenza soprattutto con la funzione di crocevia del Mediterraneo antico assunta dal porto di Trapani, verso il quale confluiva la maggior parte del traffico africano diretto sulle coste del Tirreno. È lecito pensare che l’isola di Marettimo, posizionata in conspectu Carthaginis, costituisse allora una buona sosta per i punici in transito, quando le condizioni del mare non consentivano l’ingresso nel porto della fedele Drepanum o quando si rendeva necessario approvvigionarsi di acqua potabile.

3Il culto di Iside, simbolo di sposa e madre, protettrice dei naviganti, dea della fertilità, si era diffuso dall’Egitto nel mondo fenicio-punico, e poi in quello ellenistico e in tutto l’Impero Romano, vivendo in seguito la sua decadenza con l’avvento del Cristianesimo. I primi cristiani cercarono di veicolare nella nuova religione simboli e princìpi religiosi legati alla Dea, recuperando alcune idee egizie sull’avvicinamento dell’uomo al Divino. Nell’iconografia, la figura di Iside prelude a quella della Vergine Maria attraverso dei tratti essenziali: il viso dolce, il portamento regale, l’amore per il figlio, Horos per Iside e Gesù per Maria. Un accostamento che si consolida quando vari templi dedicati a Iside, una volta dismessi, sono consacrati come basiliche mariane [6] e vari dipinti di Iside vengono modificati per raffigurare la Vergine [7].

Forse non è un caso che superiormente alla località ‘u Scrittu, sul lato di ponente e vicino al Pizzo ‘e Fraule, si trovi una località chiamata Jardinu Bonagìa. L’etimo di questo nome potrebbe condurre al termine panaghìa [8], con il quale nella chiesa orientale ortodossa si voleva dare a Maria l’appellativo di “Santissima” [9]. In greco, infatti, παναγία significa “completamente santa”, cioè “santissima”. L’interpretazione, quindi, condurrebbe a una frequentazione del sito anche in epoca paleocristiana, conferendo a tutto il versante nordoccidentale della losanga isolana una sacralità antica. L’ipotesi mariana del significato di Bonagìa si gioverebbe della presenza, nelle immediate vicinanze, di altri due siti dedicati alla Madonna: l’uno localizzato sul medesimo versante, verso levante e lungo il crinale di Pizzo Falcone, chiamato Pizzo da Marunnuzza; l’altro sull’altura di Punta Troia, dove era stata eretta dal normanno Conte Ruggero una chiesa dedicata a Maria SS delle Grazie. In merito a quest’ultima, così si legge in un libretto redatto nel 1912 dal sacerdote Mario Zinnanti, “primo regio cappellano curato e rettore della Real Chiesa parrocchiale dell’isola di Marettimo”: 

«Sul breve altipiano dello scosceso ed orrido promontorio di Punta Troia, dove un tempo trovavasi la torre di fortezza dei Saraceni, convertita da Ruggero in inespugnabile Castello che tale oggi si noma, era stata eretta dal Gran Conte la Real Chiesa Parrocchiale Curata dell’Isola di Marettimo, sotto gli auspici di Maria SS. Delle Grazie»

Si può ancora aggiungere, a sostegno dell’aura di sacralità conferita al posto, la vicinanza del sito Libàno – estesa praja prossima allo Scrittu – il cui etimo potrebbe essere ricavato dal termine arabo libān, che significa “corda fatta con il bus”, dove bus è un cespuglio aghiforme, chiamato ddisa in lingua siciliana. Il termine arabo libān è di chiara derivazione semitica, e quindi fenicia, se si lega il romano ligamen (nodo) a libān. I Fenici utilizzavano la ddisa per fabbricare le “cime”, la cui sacralità, legata al ruolo assunto nella sicurezza della navigazione, naturalmente veniva trasmessa alla pianta. Il termine “libàni” era usato anche in Campania anticamente per indicare le reti utilizzate nelle tonnare.

Localizzazione dei siti Scrittu, Jardinu Bonagìa, Pizzo da Marunnuzza e Chiesa di Maria SS delle Grazie sul versante nordoccidentale dell’Isola di Marettimo

Localizzazione dei siti Scrittu, Jardinu Bonagìa, Pizzo da Marunnuzza e Chiesa di Maria SS delle Grazie sul versante nordoccidentale dell’Isola di Marettimo

I siti Jardinu Bonagìa, Pizzo da Marunnuzza e Chiesa di Maria SS delle Grazie e Libàno le cui denominazioni molto probabilmente appartengono a epoche storiche diverse, si affiancano tra loro, nella planimetria dell’isola, guardando verso il sito sacro ‘U Scrittu sul versante nordoccidentale.

L’accostamento Iside-Maria trova riscontro, nell’arcipelago, anche nella vicina Favignana, dove una comunità cristiana di età tardo-antica è documentata a seguito del rinvenimento, in località San Nicola, di una necropoli e di un’antica chiesa in grotta dedicata a Maria Santissima. E ancora a Marsala, dove il culto mariano, seguente a quello isiaco, mostra la sua comparsa nella chiesa di Santa Maria della Grotta, sorta a fine iconoclastia per opera dei monaci basiliani reduci dalle isolate “laure” delle isole.

Forse la storia di Marettimo andrebbe osservata attraverso l’etimologia fonetica: i vari toponimi, distribuiti lungo tutta la costa e sui versanti della montagna, potrebbero fornire una carta significativa del percorso storico di quest’isola, scarsa di dati e di testimonianze storiche. Questo strumento si è rivelato particolarmente efficace nello studio della diffusione in terra straniera del mito egizio [10]. I nomi di Iside, Osiride, Api, Theuth impressi nei nomi stessi di luoghi, di monti e di stati sono stati sufficienti a formare la mappa di un edificio storico di notevole consistenza. In Francia, il termine Parigi si fa ricavare da para Isis; in Germania, Teutonia da Theuth; in Italia, Vitalia da Vitellus-Apis, Appennino da Apis, Treviso-Taurisium da Taurus-Apis; e così via per molti toponimi individuabili in Medio Oriente, in India, nel Siam. Il nome Iside viene accostato ad altre divinità: a Cisa, la dea della bavarese Augusta; a Disa, la Diana solare degli scandinavi; a Hesus, la divinità dei celti. E anche a nomi di cose: a eis (ghiaccio), a eisen (ferro), a eisenkraut (verbena).

La ddisa, ampelodesma mauritanicus assai diffusa nelll'isola

La ddisa, ampelodesma mauritanicus, assai diffusa nell’isola

Sotto quest’ottica si potrebbe pensare Marettimo non “isola sacra” per il timo o il miele, come il Fazello e il Pugnatore scrivevano alcuni secoli fa, ma come “isola sacra” anche per la copiosa presenza della ddisaNon è esagerato aggiungere che le prove costituite dalla formazione delle parole hanno un valore non inferiore a quello delle testimonianze materiali e non risultano generalmente corrotte dall’usura del tempo. La “capacità di dare nomi” è nell’origine dell’uomo e della sua storia: il Dio ebraico che crea l’uomo, alla fine della Sua opera, si ferma, e ascolta l’uomo dare i nomi. Gli stessi toponimi, Ierà Nesos citato da Polibio [11] e Hieronnesos da Plinio [12], attribuiscono a Marettimo una sacralità antica, ma si presentano, nel contesto letterario in cui si trovano, privi di alcun senso o significato; né sono mai state rilevate evidenze archeologiche indirizzabili a un luogo di culto del tempo.

Probabilmente alla fine del III secolo d.C. sotto Diocleziano, il suo nome si latinizza in Maritima, apparendo come statio nell’Itinerarium Antonini Augusti, una sorta di elenco delle vie di comunicazione della Roma imperiale, antenato degli odierni portolani[13]. Dell’isola il portolano dice:

«Si autem non Carthagine sed superius ad Lybiam versus volueris adplicare, debes venire de Sicilia ab insula Maritima in Promontorium Mercuri. Stadia DCC» (Se tu invece volessi dirigere non a Cartagine ma più oltre verso la Libia, devi venire dalla Sicilia, passando per l’isola di Maritima, al Promontorio di Mercurio [attuale Capo Bono]. 700 stadi).

La composizione letterale del nome è completamente cambiata, priva, “apparentemente”, del significato sacrale che gli antichi storici avevano voluto darle, e che gli stessi Romani avevano mantenuto almeno fino all’epoca di Plinio. Solo un evento importante, sociale o politico, avrebbe potuto imporre il cambiamento. E questo evento fu probabilmente il Cristianesimo. Nei primi tre secoli dell’Impero, il “nuovo credo”, infatti, aveva assunto una presa sempre più forte nel comune senso religioso dei Romani e poco dopo la fine del terzo secolo si era già vicini, con l’imperatore Costantino, al riconoscimento del culto cristiano come religione ufficiale di Roma. È, pertanto, plausibile ritrovare ancora nel nuovo termine Maritima la continuità semantica dell’antica sacralità se con tale espressione si è voluto rendere omaggio alla Vergine Maria, icona di spicco della nuova fede, fondamentalmente centrata sulla figura del Cristo [14].

Forse è questa antica sacralità isiaco-mariana dell’Isola, già anticipata da Polibio, e la posizione geografica di Hiera, quale “stazione di servizio” [15] nella rotta di collegamento tra il Nord-Africa e la Sicilia [16], che spingono dei monaci, nel periodo protobizantino (fine V secolo), a insediarsi nell’Isola e a fondare una chiesa con battistero [17] nei pressi di un altopiano in cui era stato edificato un fortilizio romano nel I secolo a.C. La chiesa protobizantina, abbandonata per le razzie perpetrate dagli arabi d’Egitto nel Canale di Sicilia poco prima della presa della Spagna nel 711, viene ripresa e parzialmente rifondata da monaci basiliani di rito greco nella prima età normanna (XI secolo) [18] .

I Cuddura della festa di san Giuseppe di Marettimo

I Cuddura della festa di san Giuseppe di Marettimo

Gli Arabi dal loro canto, presenti in Sicilia per quasi tre secoli, nel segno della convivenza con cristiani ed ebrei [19] e del riconoscimento della figura di Cristo e della Madonna nel Corano [20], non interrompono la continuità dell’antico significato del nome, greco prima e latino dopo, arabizzando il termine Maritima in Malitimah.

Il termine Maritima permane ancora nelle carte ufficiali del Mediterraneo fino al diciottesimo secolo per modernizzarsi, poi, in Marettimo. La “sacralità” isiaco-mariana potrebbe considerarsi, pertanto, una chiave di lettura della storia antica di Marettimo, fornendo essa un nesso logico tra i pochi dati reperiti nelle testimonianze e i toponimi conservatisi nel tempo. È una conclusione basata su indizi reali – l’epigrafe neo-punica, i vari toponimi – ma articolata su un’ipotesi che si muove pur sempre nel campo dell’immaginario, quell’immaginario che però fa parte – eccome – della realtà.

Pilot chart annuale dell’Isola di Marettimo

Pilot chart annuale dell’Isola di Marettimo

Uno sguardo alle pilot chart [21]  delle Isole Egadi mette subito in evidenza come i venti prevalenti su Marettimo siano soliti spirare, nell’arco dell’anno, da Nord Ovest a Nord Est per il versante settentrionale, e da Sud Est a Sud Ovest per quello meridionale. Se lo Scaro Maistro offre un buon riparo ai venti meridionali, altrettanto adatta come riparo ai venti settentrionali è l’ampia baia della Conca, sul lato di mezzogiorno. Se si aggiunge che anche in questa zona, proprio sopra la Conca, a qualche decina di metri di altezza, si trova una sorgente d’acqua, l’Acqua Angrara, si può pensare – sotto l’ipotesi che l’andamento delle condizioni meteorologiche di oggi sia pressoché analogo a quello di duemila anni orsono – che, nel passato, ai naviganti in transito si offrisse un’alternativa valida alla Scaro Maistro-Pipa. Non sarebbe, poi, tanto improbabile che anche in questa zona si pervenisse a qualche interessante rinvenimento. Si aggiunga che, fino ad alcuni decenni orsono, i pescherecci provenienti dai banchi nordafricani e la mitica Posta, imbarcazione adibita al trasporto di merci e persone, agevolmente “facevano operazione” in questa area costiera, ‘u Curtigghiu, quando il Maestrale o a Tramontana non davano tregua. 

Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
Note
[1] La scrittura fenicia, attestata già dall’XI secolo a.C. presso i popoli fenici, ebbe grande diffusione in tutto il bacino del Mediterraneo. I segni fenici si presentavano inizialmente tutti con la stessa altezza, ma successivamente si evolvevano verso una forma più elegante, caratterizzata dai lunghi tratti verticali, leggermente obliqui, e dalle piccole dimensioni degli occhielli. Questa scrittura prevalse in tutto il mondo fenicio e punico, sottolineando il ruolo egemonico di Tiro, e convenzionalmente è indicata come scrittura fenicio-punica. Intorno al VI-IV secolo a.C. nell’Africa settentrionale e presso le colonie occidentali sottomesse a Cartagine, la scrittura fenicio-punica subì ancora alcuni cambiamenti, dando origine alla scrittura neo-punica, che si affermò definitivamente in seguito alla caduta di Cartagine avvenuta nel 146 a.C. Oggi la paleografia fenicio-punica conferisce l’attributo “neopunico” alle iscrizioni puniche delle colonie occidentali che presentano alterazioni ortografiche, lessicali e grammaticali rispetto al fenicio-punico antico, con uno stile marcatamente vocato al corsivo, e fa ricadere il neopunico tra l’inizio del II secolo a.C. e la fine del I secolo d.C. 
[2] La pattern recognition è una metodologia informatica che, su basi statistiche, viene finalizzata al riconoscimento di forme, figure, caratteri comunque complessi. 
[3] Benedetto Rocco. La Grotta del Pozzo a Favignana, in “Sicilia Archeologica”, V, 1972:17. 
[4] Nella seconda metà degli anni ottanta l’edizione definitiva sui testi delle pareti della Grotta della Regina, portava Sabatino Moscati ad affermare (vedi: S. Moscati L’arte della Sicilia Punica, Jaca Book, Milano, 1987: 187-188) che l’attestazione del nome di Iside poteva limitarsi solo a una delle iscrizioni esaminate da Rocco e che, sulla base delle indagini di Piero Bartoloni, la Grotta non poteva avere carattere religioso di santuario in quanto la nave raffigurata sulla parete presentava caratteristiche militari. Conclusione un po’ dubbia, secondo chi scrive, viste le cattive condizioni del disegno rupestre, dovute al tratto discontinuo del disegno e alla marcata irregolarità della superficie rupestre.
[5] L’esistenza di un santuario dedicato a Iside è confermata dal rinvenimento di un’iscrizione a caratteri greci su un frammento di colonnina marmorea. Tale iscrizione, databile intorno alla seconda metà del II sec. d.C., è stata ricomposta nella sua interezza grazie all’individuazione di un secondo grande frammento, perfettamente combaciante con il primo, ritrovato un secolo prima e custodito dal 1903 nei magazzini del Museo Whitaker nell’isola di Mozia. Alla fase più antica del culto sono riferibili alcune fosse votive contenenti, oltre a numerose lucerne, resti di combustione, bucce di pinoli e nocciole di pesche. Queste testimonianze si affiancano al ritrovamento di un frammento di statua marmorea a grandezza naturale, raffigurante una figura femminile, i cui connotati iconografici indirizzerebbero alla figura di Iside-Fortuna. Nel mondo romano – così come presso altre civiltà del Mediterraneo – Iside era stata, infatti, accostata a un’altra divinità affine, la dea Fortuna Primigenia di Preneste, la cui immagine ricorrente e immutabile è quella di una donna vestita di chitone e himation, che regge a volte una cornucopia, altre il timone o un globo, simbolo del suo dominio sul mondo e sul fato. Altri elementi pertinenti alla presenza di un Iseum e di un Serapeum sono un frammento di mano reggente la cornucopia e un volto barbuto in marmo confrontabile con l’iconografica di Serapide (cfr. Rossella Giglio Cerniglia; Paola Palazzo; Pierfrancesco Vecchio; Emanuela Canzonieri, Lilibeo (Marsala). Risultati della campagna, 2008: 225-237; Rossella Giglio Cerniglia, Attività della Soprintendenza BB.CC.AA. di Trapani: triennio 2007-2009: 179-206, in Atti delle sette giornate internazionali di studi sull’area elima e la Sicilia occidentale nel contesto mediterraneo. Worshop “G. Nenci” diretto da Carmine Ampolo. Erice, 12-15 ottobre 2009. vol. II, Scuola Normale Superiore Pisa, 2012; Rossella Giglio, Capo Boeo: traffici, naviganti e divinità alla luce delle ultime ricerche nel parco archeologico di Marsala: 71-88, in La devozione dei naviganti. Il culto di Afrodite Ericina nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Erice 27-28 novembre 2009 (a cura di Enrico Acquaro; Antonino Filippi; Stefano Medas), Lumières Internationales, Lugano, 2010. 
[6] Tra le tante si ricordano la chiesa di Santo Stefano a Bologna e la Cattedrale di Notre Dame a Parigi, edificate sui resti di templi dedicati a Iside. 
[7] Secondo i primi cristiani Cristo si identifica con Horos e continui paralleli sono tracciati tra la sua storia, la sua morte, la sua resurrezione e l’epopea della maggiore divinità egizia. L’accostamento è basato sulla leggenda della resurrezione di Osiride (sposo di Iside), che s’innesta su quella della scoperta del suo cadavere, in seguito alla quale il dio, richiamato in vita da Iside, diventa re e giudice dei morti. Il cristianesimo, insomma, presentava tali conformità con il culto di Iside e Osiride che l’Imperatore Adriano chiamava i cristiani adoratori di Serapide (figura strettamente legata a Iside e Osiride). 
[8] Sull’accostamento Bonagìa- Panaghìa vedasi: G.M. Columba, I porti della Sicilia, Accademia Nazionale di scienze lettere e arti di Palermo, Palermo, 1991: 50. 
[9] Molte chiese ortodosse orientali consacrate alla Vergine Maria sono chiamate Panaghìa. La denominazione comune delle chiese cristiane occidentali “Santa Maria”, es. Basilica di Santa Maria Maggiore, raramente si riscontra nell’Oriente Ortodosso, in quanto Maria è considerata la “più santa” di tutti gli esseri umani, posizionandosi, pertanto, su un livello superiore a quello dei Santi; non può essere solo “Santa Maria”. 
[10] Jurgis Baltrušaitis. La Quête d’Isis: essai sur la légende d’un mythe.  Flammarion, Paris, 1985. 
[11] Polibio (1, 60, 3); III secolo a.C. 
[12] Plinio (N.H. 3, 92); I secolo d.C. 
[13] È utile qui annotare che nulla si conosce sull’anonimo autore dell’Itinerarium, mentre sulla datazione esistono diverse ipotesi. Da un’analisi del documento, piuttosto rappezzato nella struttura, privo di una razionale organizzazione testuale, ripetitivo e disarticolato nella presentazione, emerge la figura di un compilatore alquanto modesto nella competenza e nella scrittura, molto probabilmente legato – come già altri hanno rilevato – all’ambiente militare, stimolato a raccogliere dati sugli itinerari più per iniziativa personale che per un ben definito disegno amministrativo. Alla terminologia utilizzata è da associare, pertanto, un carattere prevalentemente popolare, considerando le fonti costituite da informatori locali o da resoconti di ufficiali o soldati già impegnati sui percorsi stradali descritti. Il termine Maritima potrebbe essere stato generato dalla voce della gente comune piuttosto che da una formale decisione ufficiale. Secondo Giovanni Uggeri, dell’Università La Sapienza di Roma, la compilazione dell’Itinerarium sarebbe avvenuta subito dopo la fondazione di Costantinopoli avvenuta nel 330 d.C. 
[14] Qualcuno potrebbe obiettare che l’ipotesi mariana sull’etimo del nome Maritima non sia consistente in quanto alcuni storici farebbero partire il culto di Maria madre di Gesù dal Concilio di Efeso (431 d.C.), sul cui tavolo era stata messa una delle più importanti questioni cristologiche: la “natura di Cristo”. Il Concilio aveva stabilito che Gesù fosse una persona sola, non due entità distinte, completamente Dio e completamente uomo; e che la Vergine Maria venisse considerata la “Madre di Dio” perché aveva dato alla luce non un uomo ma Dio come uomo. La proclamazione del dogma riconosceva certamente il culto di Maria, ma ufficializzava soprattutto posizioni ben più antiche, che si erano andate consolidando sin dal primo cristianesimo riconoscendo in Maria l’eletta da Dio Padre, l’obbediente alla parola di Dio, la vergine immacolata, la madre addolorata. È da queste posizioni umane e spirituali che è partita la devozione privata e quindi il culto mariano. È riduttivo correlare l’inizio dell’adorazione di Maria a un evento circostanziato nel tempo, come un Concilio, dando anche credito a una certa vulgata (i protestanti) impegnata a far credere quello mariano come un culto tardivo e inventato per far fronte alle forti pressioni popolari che reclamavano la presenza di una “divinità femminile” nel Cristianesimo. Anche se nei “vangeli canonici” la presenza di Maria è molto sobria, non mancano, però, testimonianze sulla anteriorità del suo culto rispetto al concilio di Efeso. L’antifona Sub tuum praesidium, ritrovata su un papiro dall’inglese C. H. Roberts, e unanimemente oggi fatta risalire intorno all’anno 250, ci presenta la più antica preghiera mariana così umilmente e solennemente enunciata: «Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio Santa Madre di Dio, non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta». L’impiego del plurale nel testo (“noi” e non “io”) indirizza a un uso non solo privato, ma anche pubblico ed ecclesiale, dell’invocazione, mostrando – secondo le osservazioni di Vittorio Messori – «come la preghiera fosse già entrata già da tempo nella pratica religiosa, tanto da diventare qualcosa di tradizionale […]. Ed ecco che l’umile brandello egiziano sposta indietro addirittura di due secoli quella data di Efeso che era citata come fosse un termine perentorio» (V. Messori, Ipotesi su Maria, Ed. Ares, 2005). Alla testimonianza del papiro si affianca la testimonianza archeologica del padre francescano Bellarmino Bagatti, alla fine degli anni sessanta, che nella Basilica dell’Annunciazione di Nazareth ha rinvenuto una più antica basilica bizantina del V secolo, che a sua volta era stata costruita su una chiesa del III secolo. Sotto quest’ultima, ancora, si trovava una costruzione rurale, sui cui intonaci sono state trovate delle epigrafi in caratteri greci: un Kairè Maria, che è il saluto dell’Angelo nel Vangelo (la prima Ave Maria della storia); la frase «In questo santo luogo di Maria ho scritto», incisa probabilmente da un devoto su una colonna; l’espressione armena “Vergine bella”, scritta su un pilastro. È provato che tutto quanto è stato rinvenuto in quel luogo sacro sia indiscutibilmente precedente al concilio “mariologico” di Efeso. Anche il dogma dell’Assunzione di Maria è del 1950, ma è accettato e creduto per secoli con la Dormitio Verginis, attestabile già nella prima metò del III sec. dopo Cristo. È interessante, nel contesto marettimaro, aggiungere qualche considerazione sui movimenti colliridiani. Nel primo quarto del primo millennio dell’epoca cristiana, questi movimenti, giudicati eretici da vari Padri della Chiesa, erano giunti anche ad adorare la madre di Gesù come una divinità. Epifanio di Salamina (315-403), nel suo Panarion, dissertando sui vari movimenti eretici di quel tempo, descrive le colliridiane come donne d’Arabia che, nell’adorare la figura di Maria con specifici riti, usavano offrire in devozione del pane a forma di ciambella [κολλύρα (kollura) in greco, colliridia in latino]. Tuttora, a Marettimo, in occasione della festività di San Giuseppe si offrono al santo protettore i cuddura (chiamati anche cucciddati), la cui espressione letterale è chiaramente una traslitterazione del greco κολλύρα in lingua locale. È possibile che l’antico culto per Maria si sia nel tempo esteso alla Sacra Famiglia, volgendosi prima alla figura di Sant’Anna madre di Maria − esiste la testimonianza scritta di una cappella dedicata a Sant’Anna fatta erigere nell’istmo di Punta Troia − e poi a quella recente di San Giuseppe, acclamato protettore dell’isola. Sotto l’ipotesi di un collegamento tra alcuni riti religiosi in Nord Africa e quelli delle isole occidentali siciliane, i cuddura, pertanto, rappresenterebbero la testimonianza di una pratica religiosa che fa capo al culto di Maria. 
[15] Sul ruolo cartaginese dell’Isola vedasi: E. Milana, Hiera fu Cartaginese?, Margana Editore. Trapani, 2020. 
[16] È interessante, nel contesto marettimaro, sottolineare come il ruolo di ponte tra il Nord-Africa e la Sicilia renda credibile l’esistenza di collegamenti tra i movimenti colliridiani della costa africana, già attestati da inizio III secolo, e il culto di Maria in Maritima Infatti, questi movimenti, giudicati eretici da vari Padri della Chiesa, erano giunti anche ad adorare la madre di Gesù come una divinità. Epifanio di Salamina (315 403), nel suo Panarion, dissertando sui vari movimenti eretici di quel tempo, descrive le colliridiane come donne d’Arabia che, nell’adorare la figura di Maria con specifici riti, usavano offrire in devozione del pane a forma di ciambella [κολλύρα (kollura) in greco, colliridia in latino]. Tuttora, a Marettimo, in occasione della festività di San Giuseppe si offrono al santo protettore i cuddura (chiamati anche cucciddati), la cui espressione letterale è chiaramente una traslitterazione del greco κολλύρα in lingua locale. È possibile che l’antico culto per Maria si sia nel tempo esteso alla Sacra Famiglia, volgendosi prima alla figura di Sant’Anna madre di Maria − esiste la testimonianza scritta di una cappella dedicata a Sant’Anna fatta erigere nell’istmo di Punta Troia − e poi a quella recente di San Giuseppe, considerato protettore dell’Isola. I cuddura, pertanto, rappresenterebbero la testimonianza di una pratica religiosa che fa capo al culto di Maria. 
[17] La concomitanza di elementi architettonici tipicamente nord-africani, quali muri costruiti con la tecnica a telaio, l’iconografia della chiesa e il fonte battesimale, rimanda ad ambienti della Bizacena (Tunisia). Da diverse fonti viene confermato che numerosi vescovi della Bizacena, cacciati dai Vandali alla fine del V secolo, si siano rifugiati in Sicilia e che uno di loro, di nome Rufiniano, abbia fondato un monastero “in una piccolissima isola vicino alla Sicilia”. Era Marettimo? Parrebbe di sì. L’attestazione da più fonti di un monachesimo insulare nel Mediterraneo occidentale, già a partire dal IV secolo, induce a ipotizzare nel sito Le Case un insediamento di tipo monastico basiliano. 
[18] In questo periodo la scelta del luogo dove fondare un monastero spesso si orientava su un sito santificato da un preesistente edificio sacro. A volte venivano prese in analisi anche casi di preesistenze pagane. Il bios di Bartolomeo da Simeri racconta che il Santo, quando decide di passare dalla vita contemplativa a quella comunitaria, sceglie come sede per il cenobio le rovine di una “casa di preghiera” costruita molti anni prima da un monaco e poi abbandonata, ma di cui si conosceva la dedica originaria a Maria e al Battista (cfr. F. Ardizzone; R. Giglio; E. Pezzini, Insediamento monastico a Marettimo “Contrada Case Romane”. Nuovi dati, nota 53). 
[19] Durante tutta l’età islamica la Sicilia orientale ha mantenuto consistenti nuclei di popolazione greca e monasteri greci (cfr. V. von Falkernhausen, Il monachesimo greco in Sicilia, in La Sicilia rupestre nel contesto delle civiltà mediterranee, Atti del VI Convegno di studio sulla civiltà nel Mezzogiorno d’Italia. Catania, Pantalica, Ispica 7-12 settembre 1981, Galatina 1986: 135); mentre la Sicilia occidentale, incorsa in un processo di arabizzazione e islamizzazione più spinto, non lasciava intravedere, fino a poco tempo fa, la coesistenza di altri nuclei religiosi. Tuttavia nuovi dati archeologici farebbero intravedere per l’età islamica, anche per questa parte della Sicilia, territori abitati da una popolazione composita di cui faceva parte una comunità cristiana (cfr. F. Ardizzone; R. Giglio; E. Pezzini, Insediamento monastico a Marettimo “Contrada Case Romane”. Nuovi dati, nota 64). Sulla base di queste considerazioni è pensabile che ancora un piccolo nucleo di monaci basiliani, perseguitati dall’iconoclastia di Leone III ma tollerati dagli arabi, si siano rifugiati nell’Isola, tra la fase protobizantina e la fase normanna, e abbiano adattato la loro dimora sui ruderi della prima chiesa, organizzandola in celle, chiamate “laure”. All’ingresso di queste laure, di solito, veniva collocata un’immagine della Madonna, detta “Vergine Portinaia”, destinata, secondo i monaci, a custodire il rifugio. Terminata la persecuzione iconoclasta nell’843, i monaci cominciarono ad abbandonare i loro rifugi per trasferirsi sulla terraferma e numerosi sono i monasteri e le chiese in Sicilia dedicate alla Madonna. 
[20] I musulmani venerano Maria come una delle donne eccellenti del Corano. La Sua figura viene ricordata più volte nel “libro sacro”, oltre che nella Sura XIX a Lei intitolata e attestante il Suo concepimento verginale, anche nella Sura III dedicata alla famiglia. Viene chiamata Sayyida, il cui significato, “Signora”, conduce al termine cristiano “Madonna”. 
[21] Le Pilot charts sono delle rappresentazioni grafiche delle condizioni climatiche statisticamente più frequenti in un determinato luogo per un dato periodo
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Emilio Milana, egadiano, ingegnere optoelettronico, vive tra Bologna e Marettimo. Ha scritto opere sulla storia della cucina, dell’alimentazione e dell’archeologia dell’arcipelago. Tra le sue pubblicazioni: La scia dei tetraedri. Nel mare gastronomico delle Egadi, premiato al Premio Bancarella (Pontremoli 2009), Hiera fu cartaginese?, un’accurata analisi sui siti archeologici rinvenuti dall’autore a Marettimo, comprovante la frequentazione fenicio-punica dell’Isola come una  “stazione di servizio” nel mare Mediterraneo.
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