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Il cielo stellato del bene. La metafisica del negativo in “True Detective”

a1pvkouyd7l-_ac_uf10001000_ql80_di Enrico Palma 

Das Böse ist der Sternhimmel des Guten

(Il male è il cielo stellato del bene).

Franz Kafka 

Sempre su questa rivista, anni fa, è stato pubblicato un testo in cui mi soffermavo sulle serie-tv e sulla loro struttura [1]. Mi dicevo che in questa particolare forma d’intrattenimento, o d’arte e di pensiero come cercheremo di vedere in queste pagine, c’è da ravvisare – abbracciando, per ricordare Eco, un approccio apocalittico nei confronti delle altre forme estetiche, in primis quelle letterarie in tutte le loro diramazioni – uno dei fattori maggiormente esplicativi e caratterizzanti della serializzazione, con cui potrebbero intendersi le modalità attraverso le quali la società contemporanea ha organizzato se stessa. Forse ero davvero eccessivamente apocalittico, perché alcune di queste serie rappresentano fenomeni di raffinatezza estetica di primario rilievo, lasciando da parte naturalmente quelle storie interminabili e sfiancanti il cui unico intento è inghiottire temporalmente al loro interno lo spettatore, producendo in lui quell’effetto compagnia che la psicologia conosce molto bene.

In altri termini, la capacità di una serie, con lo strutturarsi di un’abitudine e dell’affezione verso i suoi luoghi, personaggi, vicissitudini, di costituire un’efficace parentesi di evasione dalla penuria quotidiana, soprattutto quando a essere luoghi e tempi della narrazione seriale sono modi d’esistenza inarrivabili per la gente comune, in cui si fa sfoggio di ricchezza, potere o privilegio (penso alle serie newyorkesi come Gossip Girl o, più recentemente, Suits). Guardando la serie si vive perciò molto spesso nell’illusione di essere partecipi di questo circo fantasmagorico, almeno fin quando non arriva al termine.

Anche un romanzo, benché diversissimo nell’impostazione e nel medium, può essere ascritto a questo genere di fenomeni d’intrattenimento, ma non per questo ci si sognerebbe di gettare al macero il romanzo come genere. Come le eccezioni che confermano la regola, possono essere allora individuati dei casi virtuosi di serie-tv, in cui avviene una seria proposta artistica e, come vedremo, una fondata concettualizzazione teoretica. È il caso, a dieci anni dalla sua uscita, della prima stagione di True Detective, serie ideata da Nic Pizzolato con protagonisti Matthew McConaughey e Woody Harrelson. Una serie fortunatissima, studiata e commentata che ha rappresentato e continua a rappresentare un fenomeno culturale tra i più rilevanti degli ultimi anni [2]. Cos’ha allora di interessante questa serie, tanto da poter scampare virtuosamente alla taccia di vacuità in cui incorrono tutte le altre? Rispetto infatti alle serie effimere, superficiali e confezionate per rispondere alla dinamica ricorsiva dell’intrattenimento fine a se stesso, True Detective propone una narrazione certamente coinvolgente ma radicale nei contenuti, soprattutto con il suo protagonista, il demone buono Rustin “Rust” Cohle, interpretato dall’attore premio Oscar di Dallas Buyers Club. 

sa True detective

da True detective

L’indagine filosofica 

L’opinione critica che si è ormai consolidata su True Detective è pressoché uniforme nel sottolineare la tonalità nichilistica delle ambientazioni, dei temi, dei caratteri e dei personaggi. Rispetto agli Stati Uniti culla del capitale moderno e post-moderno, delle feroci transazioni finanziarie che avvengono nella West e nella East Coast, i fatti narrati in True Detective si svolgono nel cuore più agreste e, per così dire, anche più elementare e tenebroso del Paese a stelle e strisce, laddove appunto la grancassa mediatica e i riflettori del progresso non battono come altrove, che siano Massachusetts o California [3]. I fatti sono ambientati in Louisiana, in mezzo a lamiere, baracche nel bosco, paludi, corruzione, chiese bruciate o itineranti, criminali spacciatori e tossico-dipendenti, miscredenza religiosa e fanatismo esoterico. Un posto in cui la vita dovrebbe scorrere indisturbata senza improvvise fluttuazioni di sorta, sicché quando accade un evento fuori dall’ordinario risuona con ancora più volume.

Tutta l’impostazione di True Detective, ormai giunta alla quarta stagione, benché con attori, trame e tematiche diverse le une dalle altre, vede protagonisti due investigatori, due partner, l’uno il Don Quijote o il Sancho Panza per l’altro. Di certo, è il sistema investigativo della più parte degli Stati della Federazione a essere strutturato in tale maniera, ma la relazione tra Rust e Marty incrocia analogicamente i sentieri del mito e della grande letteratura. Il loro, infatti, come nei grandi romanzi cavallereschi, di formazione o simil-polizieschi, è un viaggio volto alla scoperta del concetto.

Costantino Esposito, nella sua riflessione sul nichilismo contemporaneo, si è soffermato teoreticamente sulla serie, facendone emergere il contenuto filosofico che è molto di più di un banale citazionismo, bensì un pensiero all’opera, per cui la trama, i personaggi e gli eventi sono di per sé una manifestazione dell’idea. True Detective sarebbe dunque filosofica già nella forma: 

«Non sono tanto le suggestioni o le fonti filosofiche richiamate direttamente o indirettamente nella storia e nella sceneggiatura ad attirare la mia attenzione, quanto il fatto che vengano rappresentati tipi umani che sono, essi stessi, la loro filosofia. Intendo dire che i due celebri detective […] non sono semplicemente esempi o applicazioni di determinate teorie filosofiche. Certo, è evidente il riferimento alla teoria nichilista che denuncia la mancanza di un perché ultimo della vita, con la connessa dottrina dell’eterno ritorno dell’eguale, entrambe ispirate da Nietzsche, o un tono di angoscia e disperazione richiamantesi al pessimismo delle filosofie esistenzialiste, fino a considerare un disvalore la stessa nascita degli esseri umani. Ma al di là di questo, e più a fondo, i due protagonisti nella mia visione sono piuttosto dei casi emblematici di come la ricerca di una consapevolezza di sé e della possibilità di un senso del mondo – e quindi la stessa filosofia – nascano sempre come un’urgenza dell’esperienza. Anzi, quanto più l’esperienza sembra aver bruciato questa consapevolezza, a motivo degli errori degli uomini, del male del mondo, dell’orrore di una violenza insensata, tanto più la sua urgenza esplode, con la stessa insistenza e violenza del nulla che sembrava averla estinta» [4]. 

nikUna filosofia quindi che tracima dall’esperienza diretta del negativo del mondo, del suo orrore e del suo nulla, che se rettamente compreso dovrebbe salvare la circostanza esistenziale e rendere la vita qualcosa di dignitoso e sensato. Le azioni contano per il modo in cui dispongono nella matassa dell’esserci, e costituiscono il principio di rifrazione della luce nella quale siamo venuti a essere, della vita.

Si tratta allora di un epico attraversamento metafisico del male, una continua interrogazione motivata nel senso dell’indagine su come continuare a vivere nonostante la vita sia questa trappola, questa casa di tortura. Le indagini dei due protagonisti, soprattutto nelle intenzioni del più filosofico dei due, Rust, tendono al male in quanto ciò che nega la vita. La concettualizzazione del male che si rinviene nella serie è ciò che nega la vita conducendola al nulla. Ed è su questo crinale che si muove anche Rust, intriso di convinzioni filosofiche nichiliste ma coinvolto attivamente nell’esperienza mondana per incrinarne il dominio, arginare l’ondata nullificante della tenebra. Un personaggio dunque paradossale, o quanto meno ambiguo, poiché pur convinto dell’inanità del tutto agisce al suo interno per difendere la luce, diradare l’oscurità del crimine, le nefandezze e l’abominio di coloro che attentano alla radice della vita, e dunque ancora una volta della luce. I criminali, gli assassini e i cospiratori di cui i due si mettono a caccia hanno come Rust l’obiettivo di raggiungere il nulla attraverso pratiche nichiliste, ma non sono razionali, geometriche, filosofiche come quelle del vero detective. Se per Rust la lettura, lo studio dei libri e delle opere di filosofia sono il grimaldello che consente di svelare enigmi altrimenti indecifrabili, come del resto lo è la vita in sé, per i cospiratori Tuttle, Ledoux e il labirintico e incestuoso Childress la via per giungere al nulla sono l’esoterismo e il misticismo: il sacrificio, compiuto in rituali, di donne e soprattutto di bambini, ovvero coloro che per ultimi sono arrivati alla vita, coloro che in potenza ne hanno più di tutti gli altri.

Rust si oppone a tutto questo, dedicando l’intera sua esistenza, come sarà chiaro dopo il fatidico 2002, anno della lite con Marty e del licenziamento dalla polizia, a catturare i responsabili di simili atrocità. Sarebbe scorretto parlare di morale nel contesto della serie, e tuttavia Rust appare con tutta evidenza il personaggio eticamente migliore di tutta la vicenda. Leale verso il partner, strenuo difensore dell’integrità della vita contro i loro sabotatori, impegnato a conoscere il male ma a restare nella luce. All’inizio si direbbe che tra i due sia proprio Marty il più solido e regolato della coppia, con i suoi fermi principi familiari, ligio al suo dovere di poliziotto e controllato in ogni situazione, diversamente invece da Rust che pare esibire sì metodo ma in una maniera del tutto opinabile. In realtà, il tipo umano che Marty incarna è un continuo fallimento: dove Rust manifesta sicurezza di convinzioni sulla vita, finanche una maggiore maturità raggiunta dopo atroci sofferenze e il dolore insopportabile della perdita di colei che si è messa al mondo, carne della propria carne, Marty è smarrito, nell’orlo di una crisi in cui dubita della vita che ha condotto fin lì. Marito infedele, quando afferma che il matrimonio è l’ancora di salvezza di un uomo, augurando per la salvezza di Rust che anche lui trovi qualcuna con cui sposarsi, opera invece nella direzione opposta, intrattenendo una relazione rischiosa con una giovane donna conosciuta al lavoro. Padre tirannico e dispotico, fedifrago, impulsivo, è lui a uccidere Ledoux non appena scoperti i cadaveri e i corpi a un passo dalla morte dei bambini, privandosi dunque della possibilità di fare maggiore chiarezza nella fitta rete di relazioni della setta legata al Re in Giallo e a Carcosa. Nel corso della vicenda, i ruoli finiranno per invertirsi, divenendo Marty lo scudiero di Rust. Al suo temperamento sanguigno, da vedersi quasi come il precipitato del senso comune e della morale tradizionale che si oppone con ogni mezzo alle apparentemente strampalate elucubrazioni del partner, troviamo dall’altro lato la fredda, distaccata e matematica razionalità di Rust, l’unica disposizione esistenziale in grado di pervenire alla soluzione del caso e più in generale per affrontare sensatamente la vita. 

land_16_9Metafisica del male 

True Detective soltanto nel finale svela il suo tema di fondo, che è stato ben visibile lungo tutte le otto puntate ma che nelle battute conclusive tra Rust e Marty emerge esplicitamente: la lotta infinita tra luce e tenebra, bene e male, essere e nulla. Naturalmente, non è a un banale manicheismo che si riduce la mechané della serie. Traspare però in questo caso l’essenza del trovarsi alla vita, nel durare doloroso e affannato dell’esistenza, in quella che, per dirla con Heidegger, potremmo ricondurre alla Befindlichkeit, al modo in cui la vita è trovandosi nel mondo, una volta pervenuta alla sua forma e comparsa nell’essere, un dispositivo a carica finita il cui limite che lo definisce si spezzerà con l’irrompere della morte e il sopraggiungere del niente in quanto soglia di trasformazione in un altro ente.

Insistendo nella metafora letteraria, Rust è quel cavaliere della luce che vive per comprendere sino alla radice più fonda delle cose, lì dove le cose sono cose e il nulla è nulla, a toccare il palpito più segreto dell’esistere. In questo, si mostra un filosofo in azione, bramoso di conoscenza, la cui vita vibra e tocca l’autenticità e ciò che le è proprio, ma soltanto a condizione di agire per e verso la verità. È un asso negli interrogatori, a tirar fuori insomma ciò che nascondono. Oltre a essere, ovviamente, un abilissimo detective.

La maieutica, l’esplorazione e la perizia nell’indagare si uniscono e convergono in un talento cristallino per la verità. È la consapevolezza che la vita è un nulla, che anzi è il frutto ignominioso dell’errore, una brusca e immotivata accelerazione nell’evoluzione delle specie che ha generato un essere troppo conscio di se stesso, e quindi aperto alle fustigazioni del sapere, il primo dei quali è certamente il sapere di dover morire, che se esiste un senso è indisponibile e al di là delle nostre facoltà, pur grandi, di comprensione. In altri termini, intollerabile. La vita, per Rust, è anzi l’intollerabile. Che lo dica in macchina con Marty o nell’interrogatorio delle prime puntate in cui, tramite i racconti suoi o del partner, si ricostruisce la storia del loro caso più difficile e famoso, Rust condensa in poche, esatte e acuminate battute un intero filone della riflessione filosofica occidentale, coniugando la sensibilità gnostica, il nietzscheanesimo del disincanto e dell’eterno ritorno, e un laicismo controllato e iper-razionalistico.

benatarI monologhi di Rust trovano un’eco notevole in David Benatar, uno dei maggiori pensatori dell’antinatalismo e della necessità della non-nascita per gli umani [5]. Le riflessioni di Rust si collocano esattamente in questo solco: in buona sostanza, nascere è sempre un male, poiché ci si immette in una dimensione di fatica, dolore, sofferenza, lutto, morte, in cui si presentano occasioni di gioia e di benessere ma che per il filosofo sudafricano, secondo il principio dell’asimmetria, sono insufficienti per giustificare la vita e la procreazione. Se la felicità è soltanto eventuale e probabile, il dolore di essere-alla-vita è invece irrefutabile, generando quindi una sostanziale asimmetria di fondo per cui una gioia plausibile risulta illegittima a confronto di una sofferenza certa. Più esattamente 

«l’asimmetria riguarda varie questioni, tra le quali: l’inconsistenza, pochezza e incertezza della gioia e la densità, vastità, certezza della sofferenza; il dovere di ridurre o di evitare il venire al mondo di persone sofferenti e l’insussistenza invece del dovere di generare persone felici; il fatto evidente che l’animale divorato soffre e perde qualcosa di definitivo che invece a chi lo divora serve soltanto per continuare a vivere sino al successivo pasto; l’errore dell’argomento di Lucrezio che consiste nel ritenere giustamente che la non esistenza pre-vita non sia un male ma nel credere per questo che neppure l’inesistenza post-mortem lo sia» [6]. 

Una volta nati non ha senso uscire dalla vita, benché il suicidio, o la sua idea come sosteneva Cioran [7], possa essere un pensiero confortante per durare in questa caduta temporale che chiamiamo esistenza umana. Pensando al Leopardi delle Operette, in particolare al Dialogo di Plotino e di Porfirio, anche se la vita è una sciagura ed esistere troppo doloroso, non si può prescindere dall’orizzonte di alterità nel quale ci troviamo, sicché darsi la morte significherebbe peggiorare, con la sofferenza che si causerebbe, le condizioni di coloro che ci sono cari. In ogni caso, come Rust afferma nelle sue prime battute, lo scenario più sensato è quello dell’estinzione, in cui la possibilità stessa della sofferenza viene eradicata.

Ripercorriamo il primo dei dialoghi tra i detective (tratto dal primo episodio La lunga luminosa oscurità), in cui emerge tutta la carica dirompente, sovversiva, delle convinzioni di Rust: 

«Marty: Tu sei cristiano vero?
Rust: No.
M.: Allora perché c’è un crocifisso nel tuo appartamento?
R.: È una forma di meditazione.
M.: Come sarebbe?
R.: Rifletto sul passo del giardino del Getsemani, sull’idea di permettere la propria crocifissione.
M.: Però non sei cristiano: e allora in che cosa credi?
R.: Credo che non dovremmo parlare di queste cose sul lavoro,
M.: Aspetta, aspetta un momento. Sono tre mesi che lavoriamo assieme e non mi hai ancora raccontato niente. E oggi, dopo quello che abbiamo visto, adesso, ti chiedo una cortesia. Dai, non sto cercando di convertirti.
R.: Io mi considero una persona realista, ma in termini filosofici sono quello che si considera un pessimista.
M.: Ok… Che cosa significa?
R.: Che non sono uno spasso alle feste!
M.: Uhm… Lascia che te lo dica, non lo sei neanche in altre situazioni.
R.: Credo che la coscienza umana sia un tragico passo falso della dell’evoluzione. Siamo troppo consapevoli di noi stessi. La natura ha creato un aspetto della natura separata da sé stessa: siamo creature che non dovrebbero esistere per le leggi della natura.
M.: Mi sembra una gran bella stronzata…
R.: Siamo delle cose che si affannano nell’illusione di avere una coscienza. Questo incremento della reattività e delle esperienze sensoriali è programmato per darci l’assicurazione che ognuno di noi è importante, quando, invece, siamo tutti insignificanti.
M.: Io non andrei in giro a sparare queste stronzate, la gente da queste parti non la pensa così, io non la penso così.
R.: E io credo che la cosa più onorevole per la nostra specie sia rifiutare la programmazione: smetterla di riprodurci. Procedere mano nella mano verso l’estinzione. Un’ultima mezzanotte in cui fratelli e sorelle rinunciano a un trattamento iniquo.
M.: Allora che senso ha alzarci dal letto la mattina…
R.: Io dico a me stesso che sono un testimone. Ma la risposta giusta è che sono stato programmato così, e mi manca la disposizione al suicidio.
M.: Che fortuna aver scelto oggi per conoscerti meglio. Sono tre mesi che non sento una parola da te e…
R.: Lo hai chiesto tu!
M.: Sì, e ora ti supplico di chiudere quella cazzo di bocca». 

ligottiÈ uno scambio di battute densissimo. Intanto, Rust non è così disumano da privarsi del contatto con qualcuno. Come si vedrà, è forse il personaggio con il maggiore attaccamento all’esistenza e alla luce di tutta la vicenda. In ogni caso, i punti fondamentali toccati da Rust sono riassumibili in almeno tre passaggi: la tragedia della vita umana; l’errore che essa è in sé; il perché continuarla. La dimensione cristiana della visione esistenziale di Rust è tale nella misura in cui si accetta la vita pur sapendo di essere posti nella croce del tempo che è l’esserci, di essere “gettati”, per dirla con Heidegger, nel male del mondo, e nonostante ciò permettere questo male con il coinvolgimento in esso, durando, patendo, soffrendo, vanamente sperando. Intuiamo che l’esistenza è il dolore della croce, da portare e da reggere, affissi alla quale alla fine moriremo, ma accettiamo comunque di viverla, in preda a una forza inconoscibile, la muta e cieca zoé esprimibile nietzscheanamente anche come volontà di potenza, che ci trattiene legati a essa, vittime di una cospirazione.

La nascita è un evento duro, ma è ancora più duro privarsene. Il mistero dell’essere forse sta tutto qui, ravvisare un senso in questo mondo di nulla e buio onnipotente. Intercettando una probabilissima eco di Ligotti, la vita, per Rust, è uno sbaglio ab origine, un’evoluzione avvenuta con troppa accelerazione che ci ha separati dalla natura e dalle sue ragioni, dotandoci di qualcosa, la coscienza, che non avremmo dovuto possedere, qualcosa che ci rende animali metafisici, nel senso di essere oltre la fisica, oltre l’istinto del biologico, capaci di intendere lo sbaglio che siamo. Una coscienza che ci fa agire egoisticamente per la sopravvivenza, ci fa credere a un feticcio astratto e auto-costruito corrispondente al Dio unico, volto a giustificare l’errore delle potenti capacità di calcolo e di percezione da cui è scaturita, tenendoci nell’illusione che noi valiamo, quando invece siamo colpevoli e peccaminosi, e quindi inferiori all’inorganico che nella sua potenza smagliante e mutevole costituisce l’universo.

Come vittime di questo sbaglio cosmico-naturale, l’indicazione di Rust è di ribellarsi alla programmazione, all’errore originario che ci ha resi questo grumo di materia colpevole, sparire in una mezzanotte dell’estinzione in cui l’oscurità sarà totale. Ma perché allora non farlo? La ragione più plausibile è una soluzione di medietà, rispetto a cui anche i più avveduti dell’errore come Rust si mantengono. La medietà della consapevolezza raggiunta che però non riesce ad avere la meglio sulla zoé fondamentale che tiene alla vita, la quale non è altro, in fondo, che la condizione del filosofo che pensa tutto questo e allo stesso tempo è invischiato nel mondo, posseduto da quella forza vitale che vorrebbe estinguere con ogni energia. Riguardo agli altri, al senso comune, ai non-filosofi come Marty, si può replicare intensificando la riflessione di Rust con le parole di Cioran: 

«Essi non potranno capire il nostro desiderio di sfuggire al sovraffaticamento dell’io, di arrestarci sulla soglia della coscienza e di non penetrarvi mai, di acquattarci nel più profondo del silenzio primordiale, nella beatitudine inarticolata, nel dolce stupore in cui giaceva la creazione prima del frastuono del verbo. Questo bisogno di nasconderci, di farla finita con la luce, di essere gli ultimi in tutto, questi accessi di modestia in cui, rivaleggiando con le talpe, le accusiamo di ostentazione, questa nostalgia del non nato e del non nominato – sono tutte modalità per liquidare l’esperienza dell’evoluzione e ritrovare, con un balzo all’indietro, l’istante che precedette l’inizio del divenire» [8]. 

Rust, come si auto-definisce, è un testimone, altrimenti un eretico rispetto al senso comune rappresentato dalla resistenza di Marty al sentire così duramente la sentenza nichilistica sull’esistenza e sull’essere da parte del collega. Una testimonianza che si discosta dalla vita priva del sapere, priva della filosofia, ponendosi nell’atteggiamento esistenziale che unico e solo consente di pervenire alla consapevolezza della verità. L’essenza della testimonianza è spiegata d’altra parte dallo stesso Rabbi cristiano, il quale, al cospetto di Ponzio Pilato, pronuncia queste parole: «Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18, 37). Testimonianza che si spinge fino al sacrificio, che Rust nel finale a Carcosa è stato molto vicino a realizzare: «Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà» (Mt 26, 42).

Quella di Rust, infatti, è una vita che si tiene a sé tenacemente. Ogni traccia di consonanza affettiva con il mondo pare scomparsa in lui dopo l’incidente in cui aveva perso la vita sua figlia e il divorzio dalla moglie. Gli anni trascorsi sotto copertura nei traffici di droga avevano confermato il suo distacco. Per compiacere Marty e Maggie, inizia una relazione che però avrà un esito infelice. Si sviluppa sin dal primo invito a cena, al quale si presenta per altro ubriaco fradicio, una tacita intesa con Maggie, culminante molti anni dopo in un rapporto fuggevole, a cui Rust non riesce a esimersi in preda all’istinto, quando la donna apprende dell’ennesimo tradimento del marito e si rifugia in Rust alla ricerca di vendetta e di commiserazione.

Rust nega la sacralità della vita, eppure lotta per mantenerla, a costo la sua stessa vita di perderla, come nella puntata più ricca di action in cui, per raggiungere Ledoux, si infiltra per una notte tra le fila degli Iron Crusaders. Quando la vita perde ogni significato e si esercita e si perfeziona il sapere in modo così profondo e trasformativo per l’identità di se stessi, si scosta il velo della falsa significanza dell’esserci, ottenendo dunque la vera visione del cuore delle cose, dell’Heart of Darkness, quel nulla che solleva, finalmente, e dà grazia e benedizione, per lasciare l’essere senza la stupida disperazione che invece vorrebbe l’esistenza insensatamente abbarbicata a se stessa. Cosa fare, allora, saputo tutto questo? Certamente avviluppare nella propria rete esistenziale fatta di gusti e teoresi le poche gioie che si presentano, ma più segnatamente continuare nell’attraversamento del nulla e dell’orrore, con il dovere di emanare luce, di essere una scheggia del felice che redime. 

cielo-stellatoLa vittoria della luce 

Viene allora in mente la formidabile massima kafkiana posta in epigrafe a questo saggio, come sempre estremamente ambigua e per questa ragione ricchissima di significati e di implicazioni. «Il male è il cielo stellato del bene» [9]. È con il cielo stellato che si conclude True Detective, con la preghiera di Marty a Rust di guardare la volta celeste e di ricordarsi della sua infanzia, di retrocedere a un attimo più felice del suo passato. In questo caso, il cielo è il grande specchio del mondo, è il luogo metaforico in cui il suo senso si raggruma per poter essere compreso con più facilità. 

«Rust: Ah, non dovrei nemmeno essere qui Marty.
Marty: In nome della nostra amicizia mi sento in dovere di farti notare che sei piuttosto ripetitivo.
R.: Non è tanto per dire. C’è mancato poco.
M.: Allora parlamene, Rust.
R.: C’è stato un momento, in cui ho iniziato a scivolare nell’oscurità, era come se fossi diventato un essere senza coscienza, con una vaga consistenza nell’oscurità. E sentivo che quella consistenza svaniva. Sotto l’oscurità c’era un’altra oscurità, un’oscurità che era… era più profonda, calda, era come se fosse tangibile. Riuscivo a sentirla. Marty! Ero certo, certo, che mia figlia mi stava aspettando, lì. Era così chiaro: lei era lì. E insieme, insieme a lei, sentivo come la presenza di mio padre. Era come se fossi parte di tutto quello che ho sempre amato. E a un tratto noi tre stavamo svanendo. Era così facile lasciarsi andare, e l’ho fatto. Ho lasciato che cadessi nell’oscurità. E sono scomparso. Ma riuscivo ancora a sentire il loro amore, anche più di prima. Nient’altro. Nient’altro che il loro amore. E poi mi sono svegliato».
[Dopodiché Rust scoppia in un pianto dirotto] 

Rust racconta all’amico del sogno di tenebra e amore in cui era immerso, nel lasso di tempo nel quale il suo essere era sospeso tra la vita e la morte, a dibattersi nella calda oscurità in cui si trovavano anche i suoi cari defunti, dissolti anch’essi nel buio indistinto dal quale però riverberava ancora amore. Rust sembra descrivere l’ottenimento da parte sua della pace, finalmente, del perdono consistente nella dissoluzione e nella morte. Scompare nella tenebra, divenendo lui stesso tenebra, amalgamandosi nella perfezione del nulla. Aveva perso la coscienza, era diventato una consistenza con un unico senso, capace soltanto di percepire la presenza amorevole della figlia e del padre. Non lotta, non tenta di resistere alla dissoluzione, cede e basta a quanto più avidamente aveva desiderato: scomparire. Era pervenuto a quell’oscurità, al nulla trionfante dal quale siamo caduti e in cui torneremo, quando la morte spezzerà la forma che ci appartiene liberandoci dalla colpa del limite e della negatività.

Vista in un’ottica orientale di liberazione, l’esperienza estrema di Rust lo consegna a un mondo in cui il tempo e la morte sono stati abbattuti: «Una volta risvegliatosi dal coma egli appare finalmente “liberato”, come se l’esperienza vissuta nell’Oltremondo cosmico ne abbia mutato il destino, liberandolo una volta per tutte dalle “maledizioni croniche” del mondo samsarico, in cui continua a vivere sebbene ontologicamente non ne faccia più parte, alla maniera dei “risvegliati” delle tradizioni orientali»[10]. Rust, come uno sciamano, dallo smembramento e l’immersione totale nell’oscurità, sarebbe risuscitato trasfigurato.

9788865427507_0_536_0_75Ma Rust si sveglia, torna alla vita, rinviene alla luce. E per questo piange. Ce l’aveva quasi fatta, a farla finita, a mollare tutto questo, a ricongiungersi con coloro che tra tutti gli altri erano indubbiamente i più fortunati, ovvero coloro che non sono più. La sua tragedia deve ancora perpetuarsi. Sembra avere tutto l’aspetto di un Cristo avvolto nel suo sudario, tornato alla vita per continuare la sua opera di testimonianza.

Un tempo, gli antichi pensavano che dietro la volta celeste ci fosse un mondo di luce infinitamente migliore del nostro, rispetto al quale ciò che per noi sono adesso le stelle per quella gente erano dei fori che facevano passare il barbaglio al di là [11]. Quei fori, quelle fessure così minute a confronto della maestà celeste, rappresentavano dunque il più concreto e affidabile incoraggiamento alla speranza. La luce esiste, e ce n’è più di quanta si possa meritare.

E tuttavia, questa è solo una chimera della ragione, la stessa che forse fa credere nelle religioni, in un Dio buono e amorevole reggitore di un mondo in cui si starà finalmente in pace, garante dell’essere a discapito del nulla; che fa credere anche alla fondatezza dei rituali compiuti dai criminali della serie, alla rigenerazione per mezzo del sacrificio. Non c’è niente dietro la tenebra, semmai c’è qualcosa accanto, ed è la luce fioca degli astri, segno della miserabile esistenza umana che lotta contro il suo finire, contro il suo stesso svilimento. Possiamo allora leggere, facendo nostro il gusto per il paradosso e l’assurdo che era di Kafka, la conclusione della serie con le categorie di bene e male?

Nell’enormità del male in cui la vita è immersa, emergono delle creature senzienti, che qualche volta, come in Rust, divengono anche consapevoli della loro vera condizione; lottano, spinte dal desiderio inaggirabile della conoscenza, per reggersi nella tenebra, per respirare nella tossicità dell’essere, di cui sono prova i paesaggi asfittici e velenosi in cui si imbattono i protagonisti lungo il loro percorso. Per continuare a stare nella forma che siamo, in altre parole per continuare a restare in vita, forse, come suggerisce il detto kafkiano calandolo nell’humus filosofica di True Detective, bisogna attribuire dei connotati etici, indicare un segno, positivo e negativo, da cui essere in grado di direzionare l’esistenza, di non sprofondare nel disagio e di attraversarla con lucida serenità.

Ammesso che l’enigma kafkiano abbia una soluzione, poiché come gran parte della sua letteratura le riflessioni sono volutamente equivoche e irrisolvibili, il bene potrebbe essere l’insieme delle stelle. Oppure, dall’altro lato, l’ammasso di tenebra, quella stessa oscurità che aveva inghiottito Rust, nella quale aveva percepito la calda e amorevole presenza dei suoi cari, suo padre e sua figlia, dal cui abbraccio è stato strappato e fatto sprofondare nuovamente nella vita desta, dove le coordinate di luce e buio, in quel momento per lui di quasi dissoluzione, possono essersi realmente invertite. Però, è ancora Rust a sciogliere il nostro dubbio, a decidere lo Zweifel di Kafka: 

«Rust: Sai, Marty. Sono stato sveglio a guardare fuori da quella finestra ogni notte e alla fine… c’è solo una storia, la più antica.
Marty: Quale?
R.: La luce contro l’oscurità.
M.: Ecco, so che non siamo in Alaska ma a me sembra che… l’oscurità abbia molto più spazio.
R.: Già. Sembrerebbe così.
[Marty sta per spostare Rust sulla sedia a rotelle verso l’ospedale]
R.: No senti, aspetta. Perché non punti in direzione dell’auto. Marty? Sono stanco di passare la vita negli ospedali.
M.: Cristo. Sai una cosa? Mi opporrei, ma inizio a convincermi che tu sia immortale.
R.: Credo che ti sbagli. Sul cielo stellato.
M.: In che senso?
R.: Una volta c’era solo l’oscurità. Adesso la luce sta vincendo». 
da True Detective, scena finale

da True Detective, scena finale

Si avrebbe in realtà ben ragione se in questa parvenza di happy end si restasse delusi. Un intenerimento di Rust che però dal mio punto di vista, specie dopo il suo pianto disperato e l’espressione più sincera della nostalgia del buio da cui è stato tirato, risulta coerente con lo sforzo di resistere alla prevaricazione del male, della maledizione di Carcosa, che altro non è che una distorsione anti-filosofica del senso stesso del suo nichilismo. Nel naufragio tenebroso che è la vita, adoperando il sapere e la conoscenza, si può dunque restare nella luce. E l’immortalità di Rust a cui con ilarità si richiama Marty è quella della filosofia che nonostante il male fa ancora essere nella vita. Se l’oscurità è il buio della morte, il sapere è l’idea per cui è sensato stare nella luce, nella vita.

Ne avevano fermati un paio nel 1995, ne hanno fermati altri nel 2012. Ma là fuori ce ne sono ancora molti, i più cattivi, quelli più potenti e messi al sicuro dalle reti di protezione abilmente costruite intorno alle loro posizioni di comando. Per questo la lotta al male non avrà mai fine. Il gioco di cui è costituita la realtà tra essere e nulla, luce e tenebra, sarà sempre provvisorio, alla ricerca costante di un equilibrio, in cui tentare di far stellare la notte un po’ più forte. L’oscurità non può essere abbattuta, senza di essa infatti nemmeno le stelle potrebbero brillare. Il mondo è consegnato all’essere così come al nulla. L’esito del conoscere teoretico, come Rust, ci fa essere dunque luce nella sconfinata tenebra del mondo, in cui alla fine si perverrà al nulla da fieri vincitori nella sconfitta. 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] Mi riferisco al mio La serie-tv come metafora della contemporaneità, in «Dialoghi Mediterranei», 55, maggio 2022: 244-250.
[2] Rimando ad alcuni lavori accessibili anche in italiano: A. Lucci, True Detective. Una filosofia al negativo, il melangolo, Genova 2019; M. Maculotti, Carcosa svelata. Appunti per una lettura esoterica di True Detective, Mimesis, Milano-Udine 2021. A sua volta, questi autori fanno emergere le fonti filosofiche di Pizzolatto, tra cui spicca Thomas Ligotti, l’autore de La cospirazione contro la razza umana (The Conspiracy Against the Human Race, 2010), trad. di L. Fusari, il Saggiatore, Milano 2016. Per un’introduzione al testo rinvio alla recensione di A. G. Biuso in «Discipline Filosofiche», 24 ottobre 2016, https://www.disciplinefilosofiche.it/recensioni/45-recensione-di-thomas-ligotti-la-cospirazione-contro-la-razza-umana-trad-it-di-luca-fusari-il-saggiatore-milano-2016-pp-214-alberto-g-biuso/ (consultato il 27 marzo 2024).
[3] In questo senso, i volumi di F. Costa aiutano a comprendere le contraddizioni e le caratteristiche degli Stati Uniti contemporanei. Cfr. allora Id., California. La fine del sogno, Mondadori, Milano 2022 e Frontiera. Perché sarà un nuovo secolo americano, Mondadori, Milano 2024.
[4] C. Esposito, Il nichilismo del nostro tempo. Una cronaca, Carocci, Roma 2021: 132. Rinvio anche, per un’ulteriore trattazione, al numero curato dallo stesso autore Il nichilismo contemporaneo. Eredità, trasformazioni, problemi aperti, in «Studium», sez. online «Studium Ricerca», anno 119, lug./sett. 2023, n. 3. Di questo numero, rinvio anche al mio contributo su Cioran, filosofo centrale per le riflessioni filosofiche sottese alla serie, La serenità del nulla. Il nichilismo come esercizio esistenziale in Emil Cioran: 414-441.
[5] Il testo centrale di Benatar è Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo (Better Never to Have Been: the Harm of Coming into Existence, Oxford University Press, Oxford 2006), trad. di A. Cristofori, Carbonio Editore, Milano 2018. Sulla filosofia di Benatar rimando a S. Dierna, «È il nascere che non ci voleva». Introduzione a David Benatar, in «Vita Pensata», XII, 26, gennaio 2022: 32-38. Sull’antinatalismo cfr. invece uno dei lavori più completi e più esaustivi che si possano trovare sul tema: A.G. Biuso, S. Dierna, Antinatalismo. Storia e significato di una filosofia radicale, in «Dialoghi Mediterranei», 64, novembre-dicembre 2023: 56-75.
[6] Ivi: 57.
[7] Idea che Cioran chiarisce soprattutto nelle interviste. Cfr. quindi E.M. Cioran, Ultimatum all’esistenza. Conversazioni e interviste [1949-1994], a cura di A. Di Gennaro, La scuola di Pitagora, Napoli 2020.
[8] Id., La caduta nel tempo (La chute dans le temps, 1964), trad. di T. Turolla, Adelphi, Milano 1995: 75.
[9] F. Kafka, Terzo quaderno, in Lettera al padre. Gli otto quaderni in ottavo, trad. di A. Rho e I.A. Chiusano, Mondadori, Milano 1988: 87.
[10] M. Maculotti, Carcosa svelata. Appunti per una lettura esoterica di True Detective, cit.: 184.
[11] Cfr. G. de Santillana, H. von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo (Hamlet’s Mill, 1969), trad. di A. Passi, Adelphi, Milano 1983.

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Enrico Palma è dottore di ricerca di ricerca in Scienze dell’interpretazione, con una tesi dal titolo De Scriptura. Dolore e salvezza in Proust. Ha pubblicato saggi, articoli e recensioni in numerose riviste di filosofia, estetica, ermeneutica, critica letteraria e fotografia. Nel 2022 ha curato il volume L’anima della collana del «Corriere della Sera» Greco. Lingua, storia e cultura di una grande civiltà a cura dei Proff. M. Centanni e P. B. Cipolla. Collabora con Il Pensiero Storico ed è fondatore e co-direttore de Il Pequod.

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