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«Il campo accomunar, la casa e il prato». Cirese e attualità delle comunanze

 

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Il Monte Vettore veduto da Castelluccio, dipinto di Matteo Tassi, 1889 (Collezione privata)

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di Cristina Papa

I primi scritti di Alberto Cirese, pubblicati in riviste a carattere principalmente politico (Socialismo, Avanti) sono quelli meno conosciuti e discussi. Si tratta di articoli brevi ma con spunti molto interessanti, sia riguardo al ruolo dell’intellettuale e più in particolare dello studioso del folclore, sia riguardo agli sviluppi successivi del pensiero di Cirese. Certamente il più denso è un articolo dal titolo Il volgo protagonista in cui l’autore si pone quattro domande chiave, a cui dà altrettante risposte, sulla concezione del folclore, tema che animerà il dibattito antropologico in Italia nei decenni successivi. Ne voglio sottolineare due.

 La prima: «Il folclore è davvero un mondo esclusivamente arcaico? La risposta è no. Il proletariato è dunque capace di muovere dal seno stesso delle forme tradizionali per toccare in modo autonomo forme di cultura nuovissima». E l’ultima: «è possibile considerare come soddisfacenti ed accettabili integralmente i giudizi borghesi sul mondo del folclore, ed accontentarci dei risultati storiografici da esso raggiunti? Credo che no. Il mondo borghese non ha superato affatto il folclore: non lo ha, in altre parole, pienamente assunto come elemento essenziale del suo orizzonte storico: se ha analizzato le vicende del mondo culturale subalterno, lo ha fatto non storicamente, ma classisticamente: ha cioè cercato di rendere simile a sé ciò che si prestava a tale assimilazione, ed ha respinto fuori della storia umana ciò che a tale assorbimento si ribellava» (Cirese, 1951).

Delle due questioni si può dire che la seconda riassuma anche la prima, portandola alle sue ultime conseguenze. Se il folclore non può limitarsi alle “sopravvivenze”, ma comprende anche forme culturali anticipatrici, la considerazione che ne è stata data dal “mondo borghese” non ha colto pienamente le sue potenzialità e anzi ha rifiutato consapevolmente quanto riteneva inconciliabile con l’assetto di classe che aveva costruito.

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Castelluccio, balle di lana in attesa di essere caricate sul camion, 1980 (ph. Paolo Lollini)

Nel rispondere all’appello di Pietro Clemente che ha chiesto di dare un contributo sul Centro in periferia in omaggio ad Alberto Cirese, mi sono domandata quale potesse essere in una realtà periferica umbra un esempio di queste forme anticipatrici, che in quanto tali, possano diventare centrali nella nostra riflessione sull’oggi e sul futuro e nello stesso tempo siano state avversate consapevolmente, perché non conformi alle regole e agli assetti sociali dominanti. Nella citazione, Cirese nel folclore include le “costumanze” e dunque anche quelle consuetudini giuridiche, di cui in molti casi i proverbi costituiscono la sintesi, che erano stati oggetto di interesse della demologia nei primi decenni del secolo scorso (Corso, 1907; 1909).

Mi è sembrato che le comunanze, termine più in uso in Umbria (chiamate altrove anche università agrarie, partecipanze, domini, comunità, ademprivi) e con un termine giuridico domini collettivi, diffuse soprattutto nei territori montani in Italia e in diverse parti d’Europa (Guidetti, Sthal, 1977), potessero costituire un valido esempio per rispondere all’appello.

Sopravvissute, nonostante le pressioni per cancellarle fino ad oggi e amministrate dalle comunità degli abitanti di un territorio, costituiscono istituzioni fondate su diritti d’uso consuetudinario di proprietà collettive. Mi soffermerò su quella esistente a Castelluccio in Umbria, la più grande tra le 16 comunanze del comune di Norcia per estensione territoriale, 1.136 ettari di cui la metà a pascolo (Medori, 1977). La Comunanza venne  costituita  formalmente nel 1895 regolamentando, secondo la normativa dello Stato post unitario, un uso delle terre comuni che si fa risalire al 1275, quando il comune di Norcia assegnò cumulativamente a coloro che avevano «continua dimora» a Castelluccio e agli «altri tutti che vorranno venire in detto Castello» (al tempo chiamato Castel de’Senari o Castel Precino), la quasi totalità degli edifici e delle terre circostanti, il cosiddetto Pian grande, riservando a sé la proprietà, ma non l’uso (Coccia, 1980: 39). All’accordo tra Norcia e Castelluccio sull’uso dei beni allude il titolo, verso di un’ottava di un poemetto di un ignoto autore (Pirri, 1972: 51)

 Se soggettaro poi Castel Precino
 (quello che fu dai zéncari fonnato)
E facendo tra lor tutto un bottino
  Il campo accomunar, la casa e il prato:
Tra lor, levati termini o confino,
 Si contava già più d’ un parentado:
  E ne stavìa ciascun contento e lieto,
  Ché non se ne sentìa più nessun fieto [1].
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Castelluccio, cataste di legna per l’inverno, 1980 (ph. Paolo Lollini) 

Boschi e pascoli restavano indivisi mentre i coltivi erano assegnati a sua volta dalla Comunanza in uso alle singole famiglie e tornavano alla Comunanza se queste si estinguevano e se ne andavano dal paese. A questi diritti si aggiungevano gli usi civici (pascolo, legnatico, spigolatura) che la popolazione esercitava sui beni comunali, su quelli della comunanza e secondo regolamenti e statuti locali su quelli privati. Una combinazione di diverse modalità di uso delle risorse finalizzate ad ottimizzarle, di cui abbiamo minute descrizioni (Proni, 1933, Coccia, 1980).

Nel tempo questo regime fondato sul modello del bene comune è stato via via ridimensionato e aggredito per favorire un altro progetto politico ed economico di tipo illuministico, fondato sull’iniziativa e la proprietà individuale “perfetta” e dunque libera da vincoli e “servitù”, con l’unico obiettivo del profitto economico. Quello del bene comune costituisce, come sostiene Paolo Grossi, un assetto normativo “reicentrico” fondato sulle cose e non sui soggetti titolari di diritto su di esse. Le stesse cose possono essere utilizzate da diversi soggetti a partire da utilità e diritti diversi (Grossi, 1992).

Situato su un rilievo in un grande altipiano, all’interno della catena dei Monti Sibillini, Castelluccio rappresenta certamente il paese più periferico e tra i più piccoli della regione, oggi luogo turistico apprezzato per i suoi peculiari caratteri paesaggisti. La zona era, fin dal Trecento, meta delle escursioni di pellegrini provenienti da tutta Europa diretti al lago di Pilato e alla grotta della Sibilla, luoghi difficilmente accessibili, abitati da creature fantastiche, narrati nella letteratura quattrocentesca (Giacchè, 2017). A fine Ottocento tratteggia una vivace descrizione di Castelluccio il perugino Giuseppe Bellucci, rettore dell’Università di Perugia, folclorista e studioso dagli interessi molteplici, che vi pernotta in una delle soste delle sue molte escursioni al monte Vettore (Bellucci, 1886).

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Castelluccio, Gregge di pecore all’abbeveratoio in Val di Canatra, 1980 (ph. Paolo Lollini)

Oggi i suoi abitanti risiedono per lo più a Norcia, di cui Castelluccio è frazione, perché gli edifici sono inagibili dopo il terremoto del 2016 e di giorno si spostano nel paese per gestire in costruzioni provvisorie attività turistiche in forma privatistica, e le attività agricole e della pastorizia in forma privatistica e comunitaria attraverso la comunanza. Anche alla comunanza di Castelluccio si può applicare la periodizzazione in tre fasi principali dell’erosione dei diritti delle proprietà collettive formulata per tutta l’area appenninica umbra (Scardozzi, 1977).

Una iniziale opera di privatizzazione è già presente nella regolazione della assegnazione delle terre a Castelluccio da parte del comune di Norcia nel 1275, poiché prevedeva sia la distribuzione di parte dei terreni alle famiglie seppure non come proprietà perfetta, sia l’affitto dei terreni collettivi a proprietari esterni qualora fossero soddisfatti i bisogni degli abitanti, pratica che soprattutto nei periodi successivi divenne fonte di controversie.

Una seconda fase inizia nel 1518 che si trascinerà per tutto il Settecento e che vede il peso crescente di allevatori e commercianti provenienti dalla Maremma e dall’agro romano a cui il Comune di Norcia cerca di dare in affitto i pascoli per acquisirne i proventi, limitando il numero dei capi degli abitanti di Castelluccio. Parte dalla fine del Settecento una terza fase di privatizzazione dei beni collettivi coincidente con il trionfo delle ideologie liberiste anche nello Stato della Chiesa a partire dalle vendite di parte delle terre della Comunanza da parte della Repubblica Romana, fino alle norme dello Stato unitario  di fine Ottocento come quella del 1888: «Abolizione delle servitù di pascolo, di seminare, di legnatico, di vendere erbe, di fidare o imporre tasse a titolo di pascolo nelle ex provincie pontificie» che rendeva obbligatoria l’affrancazione di tutte le servitù.

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Vista di Castelluccio dal «Deltaplano», 2021  ( ph. Luciano Giacchè)

A questi attacchi, che venivano sia dalle istituzioni, sia dai privati interni alla comunità ed esterni che cercavano a proprio vantaggio di erodere la proprietà comune (Sobrero, 1975), le comunanze hanno risposto con controversie legali e con varie forme di resistenza che hanno consentito la loro permanenza fino ad oggi. L’approvazione in Italia della legge 168/2017, che sostituisce quella del 1927, e che riconosce i domini collettivi «come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie (…) dotati di capacità di autonormazione» di fatto sancisce l’esistenza del pluralismo giuridico nel nostro Paese (Papa 2020).

L’interesse per la legittimazione di un assetto normativo “reicentrico” va oltre la piccola realtà di Castelluccio e riguarda un punto centrale anche per il nostro futuro. Le contraddizioni di un assetto globale come quello attuale che aumenta le disuguaglianze, crea nuove povertà e cancella diritti che sembravano acquisiti ci interroga nel cercare nuovi equilibri a partire dai diritti sulle risorse necessarie ad assicurare la vita. Il dibattito aperto sull’uso del vaccino contro il covid ha rilanciato la questione dei beni comuni incentrandola sui beni della conoscenza e della salute e intrecciando i destini della “periferia” con quelli del “centro”.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Note
[1] L’ ottava è tratta da un poemetto di tradizione orale raccolto dal sacerdote, studioso di storia locale ed archivista Pietro Pirri (1881-1969) originario di Cerreto di Spoleto, che esercitò a lungo la sua attività pastorale in Umbria nell’area della Valnerina. Il poemetto, pubblicato in una prima edizione nel 1914, narra la battaglia tra Norcia e Castelluccio (in Umbria) da un lato e Castel Sant’Angelo, Ussita e Visso (nelle Marche) dall’altro per la conquista di una parte dell’altipiano, utilizzato da Castelluccio in origine e chiamato Pian perduto, in seguito alla vittoria della battaglia nel 1522 da parte dei marchigiani.
Riferimenti bibliografici
Bellucci, Giuseppe,1886, Al monte Vettore, Perugia, Tipografia Vincenzo Bartelli.
Cirese, Alberto, 1951, “Il volgo protagonista”, L’Avanti, 8 maggio.
Coccia Vespina/ Seppilli Tullio (relatore),1980, Le Comunanze agrarie nel Comune di Norcia: analisi socio anagrafica dell’utenza e saggio di inchiesta sui livelli di integrazione sociale e di partecipazione istituzionale fra gli utenti della comunanza di Castelluccio, tesi di laurea, anno accademico 1978/79, Università di Perugia.
Corso Raffaele,1907, “Proverbi giuridici italiani”, Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, vol. XXIII: 484-506; vol. XXIV, 1907: 41-53. Vol. XXIV, 1909: 109-130.
 Corso Raffaele,1909, “Proverbi giuridici italiani”, Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, Vol. XXIV, 1909: 109-130.
 Giacchè Luciano, 2017, Castelluccio ritrovato. Matteo Tassi, Il Monte Vettore veduto dal Castelluccio. Un dipinto ricreato, un luogo da ricostruire, Perugia, Volumnia.
 Grossi Paolo, 1992, Il dominio e le cose. Percezioni medievali e moderne dei diritti reali, Milano, Giuffrè.
Guidetti Massimo, Sthal Paul, 1977, Il sangue e la terra. Comunità di villaggio e familiari nell’Europa dell’Ottocento, Milano, Jaca Book.
 Lollini Paolo, 2011, Castelluccio di Norcia cento anni di immagini, Città di Castello, Petruzzi Editore.
 Medori Caterina,1977, Le comunanze agrarie nel comune di Norcia con alcune considerazioni generali sulla proprietà collettiva in Umbria, “Nuova Economia. Rassegna mensile”, n.2, anno LXXXIX: 9-25.
Papa Cristina, 2020, “Pluralismo giuridico e antropologia” in Dimpflmeier Fabiana (a cura di), Il lungo viaggio e le storie piccole. Scritti in onore di Sandra Puccini, Viterbo: Sette città: 173-182.
Pirri Pietro, (a cura di), 1972, La battaglia del Pian perduto. Poemetto storico, Norcia, Editrice S. Benedetto.
Proni Giovanni,1933, INEA Monografie di famiglie agricole. V. Mezzadri e piccoli proprietari coltivatori in Umbria, Milano, Treves.
Scardozzi Mirella, (a cura di), 1977, Elementi storici intorno ai “beni civici” dei comprensori della dorsale appenninica umbra, in CRURES, Le ricerche per l’elaborazione del progetto pilota per la conservazione e la vitalizzazione dei centri storici della dorsale appenninica umbra, CRURES, Perugia: 317-332
Sobrero Alberto, 1975, Privilegi degli originari e condizione subalterna dei forestieri in alcune comunità rurali dell’Italia centrale (sec. XV-XVIIII), in “Sociologia”, 1: 47-170.

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Cristina Papa, già professore ordinario del settore M-DEA/01, insegna a contratto Antropologia dell’ambiente e del paesaggio presso l’Università di Perugia ed è presidente della Fondazione Angelo Celli per una cultura della salute. È stata presidente dell’ANUAC (Associazione Nazionale Universitaria degli Antropologi Culturali), dirige la collana ITACA (Itinerari di Antropologia Culturale) per l’editore Morlacchi ed è membro della redazione di LARES e di Antropologia Medica. Le sue aree di interesse riguardano la questioni di genere, la condizione contadina, l’antropologia dell’ambiente, l’antropologia economica e dell’impresa. I terreni di ricerca sono l’Italia, la Romania, la Francia. Tra le sue pubblicazioni recenti in collaborazione con altri Antropologia delle imprese (Carocci 2020). Quale femminismo e quale soggetto politico? in Pompili Roberta Adalgiso Amendola (a cura di), La linea del genere ,(Ombre Corte, 2018). Ha curato Letture di paesaggi (Guerini 2012) e con Alexander Koensler il numero del Journal of political ecology, 2013, dedicato a After anthropocentrism? Environmental conflicts, social movements and power.

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