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Ibridazioni mediterranee tra ritualità religiose e percorsi migratori

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Napoli, preghiera in piazza Mercato (ph. Ciro Di Luca)

di Annalisa Di Nuzzo

Una difficile definizione

È noto che il Mediterraneo sia una fucina ed un crogiuolo di percorsi culturali stratificati e complessi. Un arcipelago (Cacciari, 1997) – per alcuni una linea di confine estremo dell’Europa – che tuttavia contiene L’Europa e ne offre al contempo un’interpretazione “eccentrica”.  La ricerca che in breve presento in queste pagine ha inteso indagare alla luce delle indicazioni teoriche fornite dall’antropologia delle società complesse e postcoloniali (cfr. M. Augè, J.P. Colleyn, 2006) le nuove identità nomadiche e quanto l’Europa sia, ancora una volta nella sua lunga storia, un continuo crocevia di nuove riplasmazioni culturali.

Bisogna ripensare e costruire soggettività europee transculturali, attraverso nuovi modelli di vita, nuove forme di cittadinanza e di diritti. Un possibile laboratorio in tal senso emerge da questo case study relativo alla città di Napoli. Attraverso le storie di vita e le interviste raccolte sul campo, si delinea una nuova religiosità e una nuova devozione al sacro che coniuga antiche pratiche devozionali della città di Napoli con il fenomeno delle conversioni all’Islam plasmato in relazione ai modelli di vita della città.

A differenza dei grandi centri europei in cui spesso esplodono conflitti etnici e religiosi, Napoli integra e dà vita a nuove identità glocali. I napoletani, pur così legati ai loro culti soprattutto in zone marginali e periferiche della città, sembrano ritrovare attraverso la religione musulmana i propri valori di appartenenza appannati dal degrado socio-economico e una nuova possibilità di convivenza pacifica. Il fenomeno delle conversioni è rilevante e in costante crescita: ne è ulteriore prova la presenza in città di Imam nati a Napoli che guidano i centri di culto. Queste nuove creolizzazioni sono il frutto dell’incontro tra chi accoglie le diversità e chi ne è portatore, dando vita a nuove soggettività protagoniste della nuova Europa (cfr. Allievi, 2003)

In tal modo si realizzano cosmopolitismi vernacolari (cfr. Sen, 2006) e «politiche della collocazione» (Braidotti, 2002: 177) – ovvero un nuovo spazio sociale  europeo /mediterraneo, perché il Mediterraneo più di ogni altro luogo diventa terreno di una costruzione sociale  in un’ Europa post-Europa,  fatta di europei post-europei,  in cui centro e periferia, differenza e identità  si mettono in relazione in modo da sconfiggere le modalità del pensiero dualistico  e oppositivo e individuano  invece articolazioni più sottili, dinamiche, inclusive.  Il cosmopolitismo vernacolare s’interseca con queste nuove e dinamiche collocazioni mutuando soggettività, passioni, cittadinanza, relazioni interetniche e interreligiose in forme di ibridazioni post-moderne. A partire, dunque, da una definizione del Mediterraneo si esaminerà la realtà napoletana e i mutamenti che Napoli e la Campania stanno attraversando da qualche decennio in relazione ad un paradosso che le trasmigrazioni attuali stanno realizzando.

La Campania, pur continuando ad essere terra di emigrazione, è sempre più allo stesso tempo terra di immigrazione. Questa duplicità la rende un campo sociale transnazionale privilegiato, nel quale avvengono significative definizioni identitarie.  Il lavoro sul campo che conduco da molti anni sulle migrazioni in Campania (Di Nuzzo, 2009-2014) pone l’accento sulle trasformazioni che i processi migratori hanno prodotto sulla società di accoglienza e sulle identità dei napoletani e dei campani. Cambia la radicale dicotomia tra inculturazione/acculturazione nell’incontro tra culture per dar vita a forme di transculturalismo in cui non esiste una cultura che recepisce passivamente l’altra, ma piuttosto una contaminazione reciproca di prestiti e rielaborazioni (Lanternari, 1974:12).

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Napoli, preghiera durante il Ramadan

Il Mediterraneo dall’antica alla nuova koinè

Il Mediterraneo è uno spazio a più dimensioni, in cui devono vigere regole di convivenza in grado di far emergere la diversità delle voci che lo compongono e soprattutto gli apporti costanti che un transculturalismo postmoderno (cfr. Grillo, 2000) può e deve dare alle identità plurime e nomadi che attraversano il mondo globale. Esso rappresenta la frontiera meridionale di un’Europa che non rinuncia alla sua complessa definizione. Il prospettivismo dell’idea di frontiera come di margine estremo del Mediterraneo nei confronti di un cuore mitteleuropeo di forte definizione e appartenenza ha lasciato spazio da qualche tempo alla dimensione di un pensiero meridiano (cfr Cassano, 1996) che, piuttosto che delineare il filo sottile di una marginalizzazione, costituisce invece la capacità di una liquidità duttile, propositrice e non dissolutrice dell’identità europea (cfr. Braidotti, 2002). «Un pensare che non è riscoperta di una tradizione da ripristinare nella sua integrità, ma la capacità e la forza di ri-guardare i luoghi nel duplice senso di avere riguardo per loro e di tornare a guardarli» (Cassano, 1996: 87). L’ideologia socio-politica ottocentesca aveva identificato il Mediterraneo come centro della costruzione europea, lo aveva investito dei valori delle radici europee e ne aveva fatto il territorio in cui l’apollineo e il dionisiaco si riconciliavano.

É nella sua storia più recente, ovvero tra il secolo XVII e il XIX, che si è andata formando l’idea di una civiltà mediterranea come di una civiltà contraddistinta da una particolarità culturale rispetto a quella di un’altra parte dell’Europa più avanzata.

 «Di qui si è radicato un duplice atteggiamento che persiste tuttora: da un lato,  un senso di superiorità nordica verso un Sud pigro, superstizioso, arretrato; dall’altro lato una mitizzazione di un mondo in cui si conservano valori elementari e antichissimi che rappresentano il frutto di una sapienza insuperata in cui natura e storia sono intimamente fuse tra loro, in cui tutto è a misura d’uomo» (Galasso, 2006: 24).

Persiste al contempo una narrazione immaginaria dell’Europa che ha fondato la sua costruzione sull’omogeneità culturale (cfr. Waklzer, 1992), cosi come è avvenuto col mito del multiculturalismo per gli Stati Uniti. Ovviamente, la storia europea ha fornito e fornisce in ogni momento la prova del contrario. Ciononostante, il mito dell’omogeneità culturale resta un elemento cruciale per la narrazione immaginaria (cfr. Matera 2017) del nazionalismo europeo di cui la radice cristiana, in quanto unica vera religiosità portatrice di valori contro un Islam estraneo, risulta elemento fondante di questa narrazione unificante e condivisa.

Ma la reciprocità e la specularità continua che il Mediterraneo di fatto produce e rielabora non smette mai di dare risultati diversi e inaspettati. Napoli ne è uno degli archetipi più significativi, soprattutto se compariamo il bisogno attuale di religiosità diffuso, una sorta di rivincita di Dio, rispetto alla laicizzazione delle società postmoderne. Per i napoletani le ritualità religiose hanno a che fare da sempre con la rappresentazione di una vita fatta di appartenenze e di speciali dialoghi con il divino. Un immaginario di relazioni salvifiche immerse nel tessuto quotidiano che non smette mai di costruire relazioni sociali nella comunità.

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Napoli, Iman (ph. Ciro Di Luca)

Etnicismi, religiosità, identità

Negli ultimi decenni, i conflitti internazionali hanno delineato una possibile polarizzazione basata sull’alternativa Occidente/Terzo mondo, mondo moderno/società tradizionali, secolarizzazione/religione, Cristianesimo/ Islam, riproponendo il tema della diffusione/opposizione relativo all’Islam e  al suo essere o meno  parte dell’identità europea.  Negli ultimi anni, la religione è diventata un elemento significativo, un nuovo fondamento per la definizione dell’identità, un elemento importante della ridefinizione di se stessi, legato com’è ai fenomeni di «indigenizzazione» (cfr. Caponio, Colombo, 2005) che attraversano le attuali società complesse.

L’identità, almeno in alcuni gruppi, comincia ad essere definita non più o non solo da criteri etnici, ma proprio dalle appartenenze religiose. È in quest’ottica che si comprende il fenomeno sempre più frequente delle conversioni che sta investendo la società italiana e Napoli in particolare. Esse danno una risposta a bisogni sociali e domande simboliche lasciati insoddisfatti dalle organizzazioni sociali e dagli apparati di governo e creano situazioni nuove che possono mettere in crisi le più consolidate categorie della politica. La rinascita religiosa determina forti ambivalenze. Per un verso, le religioni assorbono e mediano le tensioni politiche e sociali e contribuiscono a smorzarle e sdrammatizzarle. Esse collocano su un orizzonte di solidarismo interclassista le aspirazioni dei ceti deboli e affidano agli strumenti della diplomazia e alla predicazione della pace le rivendicazioni degli oppressi e la soluzione dei conflitti politici e tribali. Per un altro verso il fideismo religioso può rendere inconciliabili le differenze di cultura e di stili di vita, trasformare i conflitti in guerre sante, legittimare gli estremismi e perfino alimentare il terrorismo. Tuttavia, le aggregazioni religiose – non conoscendo confini, né regionali né nazionali – contribuiscono in maniera rilevante alla creazione di identità transnazionali. I fenomeni di creolizzazione, i matrimoni misti, le abiure, i sincretismi culturali fanno ben sperare. È tra le maglie di queste relazioni di successo che è necessario indagare e riflettere a fronte di tensioni, conflittualità, resistenze e chiusure per trovare soluzioni dialogiche e propositive.

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Napoli (ph. Ciro De Luca)

Napoli e l’Islam

Napoli ha sempre rappresentato un importante elemento catalizzatore di flussi migratori per la sua capacità di offrire opportunità di lavoro specialmente nel terziario non qualificato e nei servizi alla persona, ma anche nelle piccole e medie imprese situate nelle zone industriali e agricole dell’hinterland.  Napoli rappresenta sotto quest’aspetto una realtà originale, che riesce a coniugare economia metropolitana e agricoltura tradizionale. In ogni caso, ad emergere è l’indubbia rilevanza della presenza immigrata: i mutamenti culturali che sta determinando evidenziano un legame sempre più complesso tra immigrazione, sviluppo del territorio e reciproca ridefinizione delle rispettive identità di appartenenza.

Il fenomeno della diffusione della religione islamica assume un carattere complesso come tutti i fenomeni relativi alla vita della città; è qualcosa di più: alcuni imam sono napoletani, altri, napoletani “veraci” convertiti, sono sia intellettuali vicini alla passione per l’Oriente trasmessa dall’Istituto Universitario Orientale, sia cresciuti nei quartieri popolari. Il fenomeno è documentato da fonti diverse tra cui assume un valore di forte etnografia riflessiva una serie di video che da qualche anno vengono realizzati da giornalisti e documentaristi, tra cui Cercavo Maradona, ho trovato Allah di Emanuele Pinto (2012), fino al più famoso cortometraggio del documentarista Ernesto Pagano (2015) Napolislam. Queste nuove fonti etnografiche offrono utili contributi oltre i dati statistici e le interviste sul campo, per ricostruire le modalità del fenomeno. A Napoli tutto entra a far parte di una dinamica endogena, nulla resta straniero.

A voler sintetizzare quello che emerge dal lavoro d’indagine e dalle numerose interviste effettuate in questo campo sociale transnazionale (Glick Schiller, 1992: 439) sono rilevanti alcuni elementi chiave che ruotano intorno a luoghi, conversioni, persone. Mi riferisco in particolare alle storie di vita degli imam Cozzolino e Gentile e ad alcuni convertiti e ai figli di immigrati nati a Napoli (seconda generazione).  La nascita e la collocazione spaziale dei luoghi di culto in città sono il frutto di una strategia di dialogo transculturale, una condivisione tra immigrati nordafricani e italiani convertiti o molto vicini al mondo islamico. La guida e la gestione del luogo di preghiera inizialmente affidate a immigrati algerini, sono state poi lasciate, come in un passaggio di consegne a Cozzolino e Gentile.  La loro conversione e successiva formazione rappresentano i primi elementi d’ibridazione e di confronto tra culture.

Ho trascorso con loro molte ore e molti sono stati gli incontri; ho respirato e sentito l’atmosfera dei luoghi, la tensione positiva, l’apertura al confronto, ma anche il valore della ritualità tradizionale coniugata con la napoletanità. Sia Cozzolino che Gentile sottolineano come il successo e la vitalità transnazionale del loro centro di preghiera siano dovuti prima di tutto all’efficace comunicazione linguistica che si è stabilita tra immigrati e italiani, ossia tra le diverse lingue di appartenenza: italiano, arabo e le lingue coloniali, inglese e francese.  Le stesse istituzioni italiane hanno avuto un approccio diverso con i nuovi fedeli musulmani per la chiarezza comunicativa che derivava da imam italiani che spiegavano in perfetto italiano le iniziative, i motivi della preghiera e le attività che si svolgevano nei centri di preghiera.

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Napoli, Basilica di Santa Maria del Carmine Maggiore

Nel 2004 si è realizzata una profonda riforma fortemente voluta dai nuovi imam napoletani, che ha portato alla parità interetnica nella conduzione del centro culturale.  Secondo le fonti della Comunità Islamica napoletana, sono circa cinquantamila i musulmani praticanti in Campania. Il risultato dell’ibridazione è percepibile nell’individuazione dei luoghi di culto e degli spazi dati alla comunità islamica, attraverso i quali si è realizzata una prossimità spaziale tra religioni monoteiste e spazi simbolici politico-sociali della città diversamente declinati e ipertroficamente vissuti. L’edificio messo a disposizione dal Comune per i musulmani è un antico convento nei pressi di quella Piazza Mercato, una delle piazze più antiche della città nella quale si sono stratificati  nel tempo più elementi simbolici e rituali oltre che di destinazione commerciale (ospita l’antico mercato del pesce). È anche luogo di forte religiosità cattolica che si coagula intorno alla chiesa dedicata alla Madonna del Carmine, e spazio civile nel quale nel corso dei secoli sono stati giustiziati aspiranti sovrani e capipopolo rivoluzionari. Ci troviamo tra la stazione centrale di Piazza Garibaldi, Corso Umberto I e il mare.

Come spesso accade a Napoli c’è un’ipertrofia di elementi che si stratificano. Coesiste infatti in questo stesso luogo una sacralità laica e uno spazio politico. In quella stessa piazza si sono compiuti macabri rituali di giustizia pubblica che hanno sancito l’evolversi delle istituzioni politiche europee. Corradino di Svevia e Masaniello, eroe della plebe napoletana e delle sue rivoluzioni mancate, sono stati uccisi a Piazza Mercato. Napoli offre alla post-modernità uno dei suoi spazi sacri, religiosi e politici, stratificati.  Un luogo di sangue e di martiri, sintesi di potere politico libertario e di devozione cattolica, viene abitato dai nuovi musulmani napoletani e dai nuovi napoletani immigrati per altre forme di religiosità. É n questa zona che ci sono diversi centri di preghiera islamici. I convertiti sono in continua crescita e la loro provenienza è sia dal mondo degli emarginati, che si sentono espropriati di valori e condivisioni, sia da gruppi più colti e borghesi che gravitano intorno alla realtà dell’Istituto Orientale di Napoli.

Le seconde generazioni di immigrati, infine, sono un valido esempio di identità plurime di successo e danno un contributo determinante alla mediazione culturale, come nel caso di Haret Amar che è stato “responsabile” dei giovani musulmani napoletani. Figlio di palestinesi immigrati, nato a Napoli, è uno dei tanti nuovi italiani musulmani in un rapporto dialogico con la città e i giovani partenopei (cfr. Goody, 2004: 117) espressione di un’autentica visibilità oltre i pregiudizi. Haret Amar mi racconta con una semplicità disarmante perché Napoli è diversa:

 «È mai stata ad una fermata di un autobus, in una fila ad uno sportello di uffici pubblici, o nel traffico in un autobus? I napoletani sono curiosi, parlano, ti chiedono, vogliono sapere che fai, dove vai perché magari sei venuto a Napoli, insomma sei visibile, sei una persona e questo per un immigrato è fondamentale».
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Napoli, donne somale (ph. Ciro Di Luca)

Del resto, «L’integrazione, prima di essere un processo politico, è un processo sentimentale, empatico», come sostiene Rifkin (2010: 283) e a Napoli questo si avverte moltissimo. Il campo transnazionale è costituito così da diversi elementi. Protagonisti sono gli imam napoletani che hanno vissuto un processo di acculturazione / inculturazione al mondo islamico e sono ritornati poi a Napoli facendo un percorso inverso rispetto alle migrazioni attuali. Hanno imparato l’arabo e si sono formati con un’alta specializzazione alla religiosità islamica. Sono tornati e son diventati mediatori di ritorno, hanno aperto una relazione diversa con il territorio; hanno avviato una dimensione dialogica che ha cambiato il volto del luogo di culto dando spazio a tutte le comunità etniche coinvolte nei processi migratori insieme ai napoletani convertiti. La trasformazione delle reciproche identità passa per una contrattazione condivisa, una negoziazione proficua che non fa sentire il soggetto immigrato assimilato o acculturato, ma piuttosto riconosciuto fino a riflettersi nell’alterità, così come il soggetto che accoglie non si sente invaso, minacciato dallo straniero, ma piuttosto sollecitato a raccogliere e interiorizzare ciò che è diverso da sé.

Ho incontrato l’imam Agostino Yasin Gentile al centro di preghiera. Nato nell’hinterland napoletano, a Boscoreale, cittadina alle falde del Vesuvio, è musulmano dal 1996, da quando aveva 22 anni. Quasi un ragazzo di strada salvato dall’Islam. Lascia la scuola in terza superiore, e con la conversione, parte per l’Arabia Saudita, vi rimane per sette anni fino a diventare il primo italiano laureato all’Università islamica di Medina. A detta di alcuni fedeli, parla l’arabo meglio dell’italiano. Gentile ha scoperto l’Islam grazie alla lettura di un’enciclopedia e alla frequentazione di amici musulmani che l’avevano portato «a riflettere sulla figura del dio unico, sull’assenza di santi e dell’intercessione».  Il suo compito è stato da sempre di eliminare qualsiasi sospetto di connivenza con gli integralisti. A più di dieci anni di distanza si fa vanto del dialogo interreligioso e di aver aperto la moschea, oggi frequentata non più solo da maghrebini, ma anche da pachistani, senegalesi, bosniaci, uzbechi, albanesi kirghisi, ceceni, tagichi, siriani e napoletani.

Ad affiancarlo ancora oggi nel centro di preghiera di Piazza Mercato c’è Abdallah Massimo Cozzolino, convertito nel 1995. Ha studiato a La Mecca dopo essere stato un fervente marxista che ha vissuto anche un periodo di noviziato francescano. La sua biografia racconta molto delle conversioni e dei motivi che spingono i napoletani a convertirsi, sia che essi appartengano alle classi più emarginate, sia che si siano formati alla cultura intellettuale ed universitaria. Cozzolino ne è una prova. È arrivato all’Islam in una maniera a dir poco singolare: ricercatore universitario, ha fatto in tempo a passare per la federazione giovanile comunista italiana, a fare un post-dottorato all’Università Roma Tre e a trascorrere un periodo da ricercatore in Inghilterra, e a farsi perfino un anno di noviziato tra i francescani prima di convertirsi e studiare alla Mecca. Non è facile far comprendere una conversione così atipica, ma lui spiega che a traghettarlo dall’ateismo alla religione è stata la fascinazione per la Teologia della liberazione.

Vite complesse, stratificazioni ed esperienze molteplici che confermano come la città da sempre nella sua lunga storia rimette in gioco collaudati meccanismi, coniugando ciò che è impossibile altrove, ricontestualizzando vecchio e nuovo, tra tensioni metropolitane ed antichi vissuti della tradizione popolare. «Per Napoli la tolleranza non è solo un modo per sopravvivere, ma costituisce una pratica originale di multiculturalismo» (Di Nuzzo, 2017: 10). Il fenomeno viene da lontano. Napoli è sempre stata tollerante nei confronti di qualunque diversità. Si pensi che la Napoli ducale, poco nota, se non agli storici del settore, tra il IX ed il X secolo, aveva già costruito una singolare relazione con l’universo islamico:

«Non ci sono solo Saraceni, ma anche e soprattutto napoletani e amalfitani, “mercanti dell’una e dell’altra sponda, affaristi onesti ed imbroglioni che mischiano tranquillamente Dio e Allah, Cristo e Maometto. I rapporti tra napoletani e saraceni non sono solo di basso livello, nei “ribat”, ce ne sono di alto livello, tra duchi ed emiri, inviati e ambasciatori, con protocolli d’intesa e mani che sfiorano le labbra e la fronte in gesto d’amicizia» (Cilento,1966: 85).
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Napoli, Piazza Mercato

La città porosa, come la definisce Benjamin (1980), dà prova delle sue capacità di spugna mediterranea, di luogo di continue ridefinizioni di senso. Una città nella quale l’Inquisizione del Cinquecento non riuscì ad imporsi, ma fu quasi obbligata ad andarsene per l’opposizione popolare. Un popolo che mantenne, però, durante il Settecento illuminista, uno stretto legame con il clero e con la religione, tanto da spingere il generale Championnet della Repubblica francese ad ossequiare San Gennaro; un clero che mantenne stretti legami con i lazzari (cfr. Scafoglio, 1999) dei quali conosceva le necessità e la cultura; un clero che in parte sposò la causa giacobina, cercando di renderla compatibile con Napoli, anche se il progetto fallì potenziando un’attitudine al confronto. Napoli, dunque, con un carattere di città-soglia, ultima città europea, prima città mediterranea, una città nella quale nulla avanza secondo linee nette; rotture, dove la cultura è trasversalmente condivisa tra le classi, come Pasolini ha mirabilmente sottolineato.

In questa città oggi cresce e mette radici la comunità di Maometto. Una comunità fatta di immigrati e di napoletani. Napoli rappresenta non più solo una tappa intermedia della transmigrazione: sono sempre più numerosi quelli che decidono di restare e di sistemarsi anche nei piccoli centri fulcri di nuove forme di reciproco riconoscimento. Sicuramente non mancano le tensioni e una conflittualità crescente, come lo stesso Cozzolino mi racconta, ma molte storie confermano le integrazioni di successo.

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Napoli, Associazione culturale islamica (ph. A. Di Nuzzo)

I luoghi di culto islamici si trovano nelle zone adiacenti alla Stazione centrale di piazza Garibaldi, spazi di arrivi, di porta d’ingresso della città, di quartieri multietnici e quindi ideali per realizzare una multiculturalità che non chiude le porte a nessuno (cfr. Di Nuzzo, 2013).  Il centro è situato in uno dei vicoletti del vecchio mercato napoletano, sull’ingresso c’è un’insegna verde con una scritta per metà in italiano e per metà in arabo. Qui ho incontrato più volte l’Imam Abdellah Massimo Cozzolino, sono salita con lui al piano superiore sopra la sala della preghiera dopo aver tolto le scarpe e coperto il capo.

Ogni mattina è nel suo ufficio napoletano a occuparsi dell’amministrazione e della politica del centro islamico. Oggi Cozzolino si trova a dover fare i conti con lo spauracchio degli estremisti dello Stato islamico: negli ultimi mesi ha lavorato con il Ministero degli Interni e con le altre comunità islamiche italiane, diventando un rappresentante di punta a livello nazionale al tavolo interreligioso, dando prova che la sua capacità di mediazione è stata recepita da tutta la comunità islamica italiana.

Riprende il suo racconto a partire dai primi passi dell’Associazione Culturale Islamica Zayd IbnThabit  di Piazza Mercato:

«[…] esiste dal 1997 e fu fondata da un gruppo di studenti universitari dell’Orientale su impulso, insomma, per le esigenze che vennero manifestate dalla comunità algerina. In quegli anni‘90, c’è stata una forte presenza di algerini qui a Napoli, registrata anche dal punto di vista sociologico, statistico, tanto è vero che c’era il Consolato generale qui a Napoli. Oltre alla comunità algerina c’è stata poi una componente decisiva e fondamentale della comunità somala. Qui abbiamo una comunità somala, presente dagli anni ‘80. Insomma, per lo più, si è trattato di rifugiati, persone che sono scappate dalla guerra e si è avuto un fenomeno in un certo qual senso ambivalente per la comunità somala, perché da una parte si è assistito a quel processo di assimilazione schiacciante per cui è simpatico trovare persone di colore che, pur avendo origini e un’identità islamica, parlano tranquillamente napoletano, ma altri hanno mantenuto le proprie radici insieme a quelle napoletane».

Dunque giovani studenti napoletani aperti alla conoscenza di altre culture e con una forte coscienza civile si sono fatti inizialmente mediatori presso le autorità politiche della città per aprire un luogo di culto e di sostegno per gli immigrati.  Continua Cozzolino:

«Queste sono state le componenti che hanno stimolato la creazione di questo centro, ed è stato importante l’apporto dato dagli italiani. I primi italiani musulmani hanno dato questo apporto decisivo alla comunità islamica napoletana, potrei dire campana, perché il primo proprio nucleo proveniva dalla provincia. Tuttavia questa prima fase della vita del centro resta intrappolata in forme di integralismo più radicale. Nel 2004 Yasin ed io abbiamo dato vita alla trasformazione della moschea. Il centro culturale resta luogo di preghiera, ma diventa punto di riferimento per l’associazionismo delle donne, per le scuole di arabo, job center per immigrati, centro di consulenza medica, spazio d’incontro aperto ai non musulmani che vogliono conoscere l’Islam».
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Napoli (ph. Ciro Di Luca)

Ogni venerdì all’esterno della moschea va in scena un piccolo rituale: si chiude il vicolo, si smontano impalcature e si stendono teli, i negozi sospendono le attività e la preghiera si svolge per strada, perché l’edificio non riesce a contenere tutti i fedeli, che di regola superano il migliaio. Quello che è stupefacente è che per tutta la durata della cerimonia auto e scooter di passaggio fanno marcia indietro e per strada non si sente volare una mosca.  Pur nel caos urbano che ne caratterizza la vita, la città offre rispetto e silenzio all’alterità di un rito sacro che non appartiene alle sue più antiche tradizioni, ma che avverte come affascinante e potente. Esso si fa spazio nel tessuto sociale in silenzio, quasi di soppiatto, senza clamori, ma con intensità. Piazza Mercato diventa un luogo di preghiera islamica nel quale riescono a convivere l’Islam e la Madonna del Carmine.

Soggettività plurime e transnazionali condividono, anche attraverso le conversioni, uno spazio concreto e simbolico intriso di cultura europea laico-cristiana e Islam, per rendere possibile una muova Europa. Ancora una volta la città-spugna è capace di assorbire ogni cultura trasformandola in un continuo divenire. Tra i vicoli del Mercato non c’è apartheid, ma tutto si mescola, come dimostrano le rime new wave degli Annurà, che in arabo significa “la luce” – gruppo musicale napoletano-musulmano. Anche le abitudini alimentari si creolizzano in una efficace specularità, zeppole e sfogliatelle halal ne sono una concreta dimostrazione: un dolce tipicamente napoletano non disdegna di farsi halal per venire incontro sia al gusto napoletanizzato dei nuovi clienti musulmani sia a quello islamizzato dei clienti napoletani

L’Islam non è più il culto religioso in tv o praticato in una moschea visitata in vacanza. L’Islam è sotto casa nostra, ma soprattutto le conversioni all’Islam definiscono nuovi italiani e nuovi europei. Le storie di convertiti sono tante e tutte raccontano di quel prisma di culture che è Napoli. Rosanna ricercatrice all’Orientale, avellinese di nascita, indossa con disinvoltura il velo, mi racconta del suo percorso di conversione, dei suoi studi all’Orientale che la mettono in contatto con la religione islamica. Il suo percorso è contrassegnato da una forte ricerca di autonomia, di autenticità che non significa isolamento dalla famiglia, quella famiglia mediterranea che non la respinge, ma che condivide le sue scelte e cerca di realizzare concreti momenti interreligiosi e di condivisione. Mi parla dei suoi pranzi natalizi e di come la sua famiglia brindi con lei che beve del tè al posto del vino, rispettando il divieto di far uso dell’alcol, ma la sua fede è tutta dentro una tradizione di valori europei e campani, compreso i rapporti pre-matrimoniali e la possibilità di un femminismo islamico nel rispetto dei pilastri della fede.

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Napoli (ph. Ciro Di Luca)

Mi racconta della sua partecipazione ad un funerale di famiglia e di come abbia preso la parola dopo il prete e abbia parlato di un comune paradiso e una fede che avvicina sia i cattolici che i musulmani, condividendo così il dolore delle perdita e la commozione tra i presenti. Per altri convertiti anche la musica occidentale e napoletana diventa elemento di condivisione interreligiosa. Il rapper islamico-napoletano Danilo Maraffino coniuga la musica e il Rap con la tradizione melodica napoletana e i suoi testi sono intrisi di fede e di Allah.

Dai racconti dei convertiti emergono vicende di emarginazioni, di solitudini, di famiglie spezzate e di come bere alcol sia solo un modo per non rispettare se stessi e le donne nei sabati sera. In particolare Nur, (preferisce il suo nome in arabo) originario della penisola sorrentina, mi parla a lungo della sua ricerca di una dimensione religiosa autentica fin da bambino, del bisogno di condivisione e di essere accettato. Mi dice quasi all’improvviso:

«No, perché mi rendevo conto che erano tutte futilità. Uno diventa un musulmano quando si rende conto che nella vita c’è tanta futilità, tanta. Tanta vanità, tanta cosa che si deve mettere in mostra. Tanta cosa che si mette… ‘a cammis’ firmata… devi fare colpo sulla donna… tutte cose effimere. Tutte cose effimere. Anche io le ho fatte perché mi hanno insegnato delle cose sbagliate. Però poi uno si rende conto… una cosa che posso dirle che l’Islam porta nel cuore di una persona il non temere la morte. Questa è la parola “jihad”. Il vero senso della jihad è il dominare il proprio spirito da certe cose peccaminose».

Luoghi, persone, ritualità condivise: visto da Napoli il Mediterraneo è sempre più Europa transculturale. Secondo stime non ufficiali, un napoletano al giorno si converte all’Islam. L’identità post-europea si sta riscrivendo attraverso il Mediterraneo e oltre il Mediterraneo con il contributo di tutte le diverse voci che lo compongono: questa nuova koinè ha un cuore antico e una prospettiva globale.

Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
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Annalisa Di Nuzzo, docente di Antropologia culturale e di Geografia delle lingue e delle migrazioni presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli e l’Ateneo di Salerno, fa parte del gruppo di esperti del Laboratorio antropologico per la comunicazione interculturale e il turismo diretto da Simona De Luna della stessa università; ha conseguito il PhD in Antropologia culturale, processi migratori e diritti umani. È autrice di numerosi studi. Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano: La morte, la cura, l’amore. Donne ucraine e rumene in area campana (2009); Fuori da casa. Migrazioni di minori non accompagnati (2013); Il mare, le alici: il caso Cetara. Una comunità mediterranea tra ricostruzione della memoria, percorsi migratori e turismo sostenibile (2014).

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