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I volti del territorio: declino e rinascita di una comunità maremmana

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Gente di Suvereto (ph. Bertelli)

di Rossano Pazzagli

Tra Sette e Ottocento due rappresen- tazioni cartografiche, distanti sessant’anni tra di loro, testimoniano un periodo di cambiamenti territoriali per la comunità di Suvereto e indicano al tempo stesso gli elementi centrali della vita di un piccolo paese. In entrambe le mappe, realizzate per motivi diversi, si vede la chiesa (il campanile), le fonti (l’acqua), i mulini (il pane), il camposanto (i morti). Nelle carte disegnate e non ancora standardizzate del Settecento i nuclei delle case raccolte attorno ai campanili si stagliano netti nella campagna ancora vuota di abitazioni ma piena di alberi; piante spontanee come i boschi di querce da sughero, che caratterizzano la macchia mediterranea, o coltivate come gli ulivi, che costituivano dopo il grano la principale ricchezza agraria. Poi si vedono le poche strade, essenzialmente nella forma di sentieri e viottoli, che collegavano i punti nodali di un’economia rurale, agro-silvo-pastorale, e rimasta a lungo di tipo seminaturale, come diceva Sereni a proposito della Maremma [1].

La pianta eseguita a china e acquerello tra il 1765 e il 1770 per identificare le boscaglie attinenti agli edifici siderurgici granducali di Caldana, facenti capo alla cosiddetta Magona del ferro, è centrata sul territorio di Campiglia, ma si allarga anche al territorio di Suvereto che pure restava fuori dai confini toscani, essendo parte del Principato di Piombino [2]. Buona parte del verde era coperta dalle sughere, che qui chiamano ancora più dolcemente suvere e dalle quali deriva lo stesso toponimo Suvereto. Nelle parti strappate alla selva dominavano gli ulivi, sebbene i secoli XVII-XVIII avessero rappresentato un periodo di arretramento delle coltivazioni.

Nel corso della prima età moderna, infatti, la situazione della Maremma, alle prese con le difficoltà ambientali, la malaria e lo spopolamento, tese a peggiorare. Ma gli ulivi furono uno degli elementi più resistenti del territorio e del paesaggio. In parte si inselvatichirono, ma non morirono e restarono al centro del patrimonio vegetale locale. Verso la metà del Settecento il naturalista fiorentino Giovanni Targioni Tozzetti nei suoi resoconti dei viaggi fatti in diverse parti della Toscana scriveva che «Suvereto era una volta assai popolato, ed aveva all’intorno una campagna benissimo coltivata, particolarmente a uliveti, da’ quali i paesani ricavavano gran copia d’olio, sicché una volta ne poterono prestare alla comunità di Siena un grosso numero di barili, conforme si ricava dai ricordi che vi sono.… Presentemente, la campagna è deserta, piena d’ulivi incolti e inselvatichiti…» [3] .

Anche la toponomastica non lascia dubbi sulla storica presenza di olivi: in particolare il toponimo “costia” (che qui significa oliveta) è diffuso nella documentazione storica e ancora oggi nella realtà. Emerge un paesaggio che rispecchia il fecondo e incessante rapporto tra uomo e natura, frutto di un processo di territorializzazione di lunghissimo periodo e ancora in corso, ricco di elementi materiali e simbolici, griglia di lettura della mutevole identità locale.

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Carta del territorio, sec. XVIII

Tra ‘700 e ‘800 la situazione agraria e paesaggistica cominciò a cambiare in direzione di una ulteriore affermazione dell’ulivo nei colli che fanno da corona al centro abitato, in particolare tra Suvereto, Belvedere e Santa Croce. Si ebbe un processo di allivellazione e di pri- vatizzazione delle terre demaniali o appartenenti a enti religiosi. L’archivio storico comunale documenta una serie di contratti con i quali si concedevano a privati appezzamenti di terre boschive o incolte con l’obbligo di dicioccare, sterpare, piantare [4]. Fu avviata così un’opera di disboscamento e si realizzarono nuove piantagioni, specialmente di ulivi, mentre nuove terre furono messe a coltura con la tecnica del debbio, e poi dicioccate, assolcate, sistemate. Attorno all’olivo si veniva dispiegando il paesaggio nuovo dei poderi e dell’agricoltura promiscua con viti, frutti e ulivi associati ai seminativi e alla persistenza del pascolo; così le colline di questa parte della Maremma assomigliavano sempre più a quelle della Toscana classica e anche i centri urbani, come l’infrastrutturazione del territorio, ne risentirono positivamente.

La mappa del 1839 è una raffigurazionepolicroma della cinta muraria di Suvereto, con l’indicazione dei torrioni, delle vie adiacenti, della chiesa e del cimitero [5]. A quest’epoca la popolazione sta crescendo e la Comunità sta pensando di vendere a privati gli otto torrioni ubicati sulle mura castellane (la mappa è infatti allegata a una perizia sul valore dei torrioni). Tra le vie che escono dal paese, ci sono quella che va alla fonte e quella che va al nuovo camposanto, che in linea con l’editto napoleonico sulle sepolture fuori dai centri abitati era stato realizzato verso nord ai primi del XIX secolo, sebbene l’antico cimitero sia ancora indicato a lato dell’antica pieve, subito fuori la Porta a mare [6].

Nel complesso, a quest’epoca l’assetto urbano stava conoscendo ampliamenti e trasformazioni: gli spazi vuoti posti all’interno delle antiche mura o anche immediatamente fuori della cinta castellana tendevano a riempirsi di nuove abitazioni; le strade, fino ad allora soggette al fango e alla polvere, venivano lastricate o selciate. Verso la metà del secolo arrivò l’acqua potabile nella piazza centrale del paese grazie a un condotto che partiva dalla sorgente di Belvedere [7].

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Mappa del 1839

Il territorio si distendeva, come oggi, intorno al borgo di impronta medievale, ancora cinto di mura, situato sui morbidi rilievi che dalla valle del fiume Cornia salgono verso le Colline metallifere. Da qui si scorgono il Mar Tirreno, il Golfo di Follonica e l’Isola d’Elba, mentre verso l’interno si snodano strade e sentieri in direzione delle storiche città di Massa Marittima e Volterra. Le querce da sughero, gli ulivi e le viti, riflettono i caratteri dell’economia locale, basata tradizionalmente sull’agricoltura, le attività forestali e l’allevamento e oggi anche su artigianato e turismo. L’insediamento sparso delle case coloniche, eredità dell’organizzazione mezzadrile dell’agricoltura, carat- terizza sia la parte pianeggiante adiacente il corso del Cornia che i primi rilievi collinari che fanno da corona al capoluogo; mentre le pendici del Monte Calvi e la zona di Montioni sono quasi interamente coperte di boschi e macchie, ricche di molte specie di fauna e flora selvatiche. Un sistema di poggi, sui quali si snoda un’articolata rete di sentieri, rende il vasto territorio di Suvereto ancora più vario, pieno di scorci paesaggistici, di ambienti naturali e di valori storici in parte ancora da scoprire e valorizzare.

È il frutto di una lunga storia, che a partire dagli antichi insediamenti etruschi sul territorio circostante, vede svilupparsi il castrum medievale già prima del Mille, conoscendo la sua età dell’oro nel Dugento, quando nacquero il Palazzo Comunale e il Chiostro di San Francesco, che insieme alla Rocca Aldobrandesca e alla Chiesa di San Giusto rappresentano i cardini della morfologia urbana di Suvereto, i simboli architettonici della sua importanza nel trascorrer dei secoli. L’età moderna non portò bene a Suvereto, con un progressivo declino economico e sociale che prese piede a partire dalla metà del Cinquecento, in linea con una tendenza allo spopolamento e al peggioramento delle condizioni ambientali nell’intera Maremma, a cui si cercò di reagire fondando piccoli villaggi come Belvedere e con altre misure nella speranza di attrarre “novi habitatori” in una terra senza uomini che tentava, a volte disperatamente, di ripopolarsi accogliendo per secoli pastori, taglialegna, carbonai e poveri braccianti in cerca di fortuna, che giungevano fin qui dal lontano Appennino e da altrove, dalla stessa Toscana e da altri Stati. Tanti odierni suveretani sono figli loro, di questi antichi migranti. Nel Cinquecento il nuovo borgo di Belvedere fu popolato grazie all’arrivo di persone dall’alta Garfagnana e dalle montagne di Parma e di Modena [8], alcuni scesero fin qui da Barigazzo, località dell’Appennino modenese tra Emilia e Toscana, e di loro resta ancora il ricordo toponomastico di Via della Bella Ragazza che corre lungo le mura di Suvereto.

Suvereto-centro-storico.

Suvereto, centro storico

Ancora ai primi dell’Ottocento, quando contava appena poche centinaia di abitanti, il granduca Leopoldo definiva Suvereto “il più povero dei paesi di Maremma”. Ma da questo momento si mise in moto un processo di sviluppo e di riorganizzazione territoriale, con il miglioramento della viabilità, il consolidamento urbano, la messa a coltura di nuove terre e l’appoderamento della campagna. Fra ‘800 e ‘900, con la diffusione della mezzadria e i primi barlumi di industrializzazione, prosegue la ripresa demografica. Così anche a Suvereto la prima metà del Novecento è il periodo con la popolazione più numerosa: 3.300 abitanti nel 1901, più di 4.000 nel 1951, poi per una quarantina d’anni un costante declino. L’imminente boom economico avrebbe fatto conoscere anche qui le contraddizioni della cosiddetta età del benessere: con la crescita dell’industria siderurgica nella vicina Piombino il paese diventa sempre più operaio, si diffonde la televisione, aumentano le automobili che cominciano a intasare i vicoli e le vie del centro urbano, si allacciano i primi telefoni. Si intacca la consolidata ed equilibrata immagine urbanistica del paese, mentre l’esodo rurale, accelerato dalla vicinanza del polo industriale che offriva il miraggio di una vita più comoda e sicura, apre una nuova fase. L’abbandono delle campagne e l’attrazione dell’industria e della città erano due facce della stessa medaglia.

Contemporaneamente, dalla fine degli anni ’60, comincia un recupero delle tradizioni locali, prima in sordina, quasi aggrappandosi a un mondo che sfuggiva rapidamente di mano, come un naufrago che cerca il relitto; poi in modo sempre più consapevole, collegandosi al turismo e a nuove forme di economia centrate sulla ruralità e sugli aspetti ambientali. Attraverso il “cantar maggio”, le sagre (come la Sagra del cinghiale, istituita nel 1968) e le feste paesane [9], si è cercato di dare voce ad una identità spezzata, a quel mondo rurale che era stato da sempre la naturale cornice della vita a Suvereto e che oggi cerca di riconquistare una nuova dignità, rispecchiandosi nella qualità del paesaggio e dei prodotti, così come nella fierezza dei suoi abitanti.

Oggi possiamo dire di trovarci in una stagione nuova, iniziata sul calar del secolo. La crisi del modello industriale e l’idea di un nuovo sviluppo rurale sono gli elementi che hanno rimesso al centro il territorio e il patrimonio ambientale e culturale: la riconquista del centro storico, i prodotti del bosco e dell’agricoltura, la gastronomia, le tradizioni, l’ospitalità degli abitanti, le pietre e il paesaggio; soprattutto attorno al vino, all’olio d’oliva e all’agriturismo ha preso sostanza un terreno di riflessione, di approfondimento culturale, forse anche di coesione sociale e di comunicazione. Ha preso corpo, dunque, un processo di riqualificazione territoriale, alimentando l’intreccio operoso fra la persistente agricoltura contadina e le architetture tecnologiche della nuove cantine; si è mantenuto vivo il tessuto sociale, come dimostrano le tante associazioni di volontariato e le molte iniziative culturali, ricreative e sportive. Anche la popolazione ha ripreso lentamente a crescere: Suvereto conta oggi più di 3.100 abitanti, metà dei quali residenti nel capoluogo comunale e i restanti sparsi nelle case di campagna o nei piccoli nuclei di San Lorenzo, Montioni, Forni, Prata e Belvedere. Un territorio abitato e vivo. Le case del centro storico, oggetto di decenni di restauro, hanno assunto il color della pietra; una pietra viva come lo spirito della gente di Maremma, abituata a vivere a contatto diretto con la natura, aperta al nuovo e accogliente per necessità, più che per indole.

COVER_ULTIMA_BOZZASi può leggere nel paesaggio attuale questo lungo percorso e riflettere su di esso e su come potrà proseguire, senza cedere passivamente alle categorie del fatalismo, del destino, del mercato? Certo, si può. Parlo di un paesaggio fisico e di un paesaggio umano, che insieme illustrano la biografia e la calligrafia di un paese. Non solo le mappe del territorio, ma anche i volti delle persone che abitano un luogo riflettono la storia e esprimono il bisogno di futuro. Lo dimostra ora Gente di Suvereto, il bel libro nel quale Pino Bertelli, fotografo di ascendenza pasoliniana, ha raccolto 200 immagini in bianco e nero selezionate tra mille scatti seminati lungo le quattro stagioni di un anno trascorso a osservare e studiare gli abitanti [10]. Si tratta di volti e di storie che possono essere considerate rappresentative, appunto, della biografia di un paese, un placetelling che mette in scena le specificità e si contrappone all’omologazione imperante dei non-luoghi contemporanei. Qui il luogo c’è, forte e chiaro, pesante e leggero, quasi impalpabile a volte; ma c’è. Vecchio e nuovo si mescolano negli sguardi delle persone ritratte, combinando, non senza conflitti, un senso forte delle radici con l’apertura verso l’esterno e l’innovazione, l’accoglienza, lo spaesamento e la ricerca di un futuro.

Entro le mura dell’antico borgo, nel suburbio che sfuma nella campagna maremmana e verso la macchia mediterranea si muovono commercianti e contadini, qualche artigiano, vecchi e bambini, uomini e donne con sguardi d’orgoglio incastonati tra le pietre, colti in mezzo agli ulivi o sullo sfondo di un vigneto. Una memoria piena che non è solo ricordo. Dalle fotografie di Bertelli emerge il paese come socialità e come complessità, il sentimento del vicinato, la dimensione rurale e quella urbana che si raccolgono in un gomitolo, le mura amiche e il mondo che ci precipita dentro. Gli uomini e le donne di Suvereto, come quelli di tanti altri luoghi dell’Italia interna, sembrano sentirsi al tempo stesso centro e periferia di qualcosa, ai margini della stanca modernità dei nostri tempi, ma proprio per questo in cerca di rinascita, quasi di una rivincita [11].

Un piccolo mondo aperto al mondo: potrebbe essere questo il motto che identifica Suvereto in questo inizio di secolo che ci costringe a ripensare modelli economici e stili di vita, a cercare la rotta mentre navighiamo nell’incertezza, «spaesati» come dice Antonella Tarpino, nella «geografia commossa dell’abbandono», come echeggia Franco Arminio [12]. Non si deve navigare a caso nel mare grande delle aree rurali italiani, nei territori interni marginalizzati dal modello di sviluppo contemporaneo. Occorre una ritrovata consapevolezza di quello che c’è, seguendo l’immaginazione e studiando, ma scansando le chimere di quello che non c’è. Ora è il tempo delle specificità, delle differenze, di ridare spazio alla complessità del locale per sconfiggere la banalità del globale. Così anche l’eredità storica, il patrimonio culturale e ambientale, il paesaggio, le filiere corte dello scambio e del cibo, i prodotti della terra e del bosco sono tracce, direzioni verso le quali andare, sentieri sui quali una comunità antica può incontrare il futuro. Non è l’invito a coltivare un’antitesi tra locale e globale, ma l’esortazione a stare da protagonisti nell’orizzonte più vasto, a tornare al paese, alla campagna, anche al campanile se vogliamo; non per starci sotto in rassegnata attesa, ma  per salirci sopra e guardare lontano. È locale, non localismo.

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Gente di Suvereto (ph. Bertelli)

In questo senso anche Suvereto può essere considerato uno spunto di rinascita territoriale, il racconto di una comunità che raccoglie il fardello non lieve del suo passato e delle sue vocazioni e li trasforma nell’immagine leggera di un domani migliore, nel quale natura e cultura, uomo e ambiente ritrovano un equilibrio e un dialogo, il teatro di un’agricoltura pulita e di un turismo saggio, di una buona gastronomia e di un paesaggio accogliente, tutti aspetti che compongono la sfaccet- tata identità mediterranea.

Quelle pietre che nelle mappe settecentesche già segnavano il paesaggio, rompendo il verde scuro e argentato dei boschi di sughero e degli ulivi, e che oggi attraggono l’obiettivo del fotografo sono lo sfondo nitido e solido di volti incerti, della memoria dei vecchi e delle speranze dei giovani del paese. «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. – scrisse Cesare Pavese –  Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Ecco perché c’è bisogno di raccontare i paesi e di scrivere le loro biografie, che comprendano anche la loro voglia di rinascita, le fughe e i ritorni, in una parola (abusata): la loro identità. Ed è bene ricordare che l’identità è anch’essa un processo storico: non è solo ciò che siamo stati; è anche ciò che siamo e, soprattutto, ciò che vogliamo o che vorremmo essere, l’aspirazione a un ritrovato protagonismo per approdare a nuove condizioni di libertà e benessere come risposta a un modello di sviluppo che ha soffocato le persone con crescenti richieste di prestazioni, con la sottrazione di tempo alle proprie vite, con la competizione al posto della solidarietà, con il totalitarismo pubblicitario che ha sostituito le relazioni sociali e con forme inedite di alienazione. Dai paesi può venire il riscatto del Paese? Forse è ancora solo una visione, un’utopia, ma un’utopia concreta [13].

Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
Note
[1] E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, Laterza, 1979: 440.
[2] Archivio di Stato di Firenze,Piante dei Capitani di Parte Guelfa, 26.
[3] G. Targioni Tozzetti, Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, vol. IV, Firenze 1770: 248.
[4] Archivio Comunale di Suvereto, Libro de’ contratti comunitativi dal 1760 al 1806.
[5] Archivio di Stato di Grosseto, Camera di Soprintendenza Comunitativa, 19.
[6] A. Kaupam Del Testa-E. Battaglini, Un camposanto nell’alta Maremma. Analisi e sviluppo del cimiero urbano a Suvereto, opuscolo a stampa, s.d.
[7] Suvereto. Una terra da vivere, Pisa, Pacini, 2000.
[8] I. Chabot, Una terra senza uomini. Suvereto in Maremma dal XVI al XIX secolo, Venezia, Marsilio, 1997.
[9] La bella storia. Suvereto negli ultimi 40 anni, Forenze, C.A. Grafica – Il Bandino, 2007.
[10] P. Bertelli, Gente di Suvereto. Biografia fotografica di un paese, Comune di Suvereto, Firenze, Cappelli Arti Grafiche, 2017.
[11] L’espressione è di CorradoBarberis.La rivincita delle campagne, a cura di C. Barberis, Donzelli, Roma, 2009.
[12] A. Tarpino, Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, Torino, Einaudi, 2012; F. Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna, Milano, Bruno Mondadori, 2013.
[13] A. Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Torino, Bollati Boringhieri, 2010: 175-182.
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Rossano Pazzagli, docente di Storia moderna e Storia del territorio e dell’ambiente all’Università del Molise, è esponente della Società dei Territorialisti e direttore del Centro di Ricerca per le Aree Interne e gli Appennini. Fa parte della direzione di varie riviste, tra cui “Ricerche storiche” e “Glocale”. Ha pubblicato e curato vari libri, tra cui Il sapere dell’agricoltura (FrancoAngeli 2008), Il mondo a metà (ETS 2013), Il Buonpaese (Felici, 2014), Aree interne. Per una rinascita dei territori rurali e montani (Rubettino 2017).
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