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I fili del tempo e della vita nei tappeti dell’Alto Atlante marocchino

 Archivio Annassim

Archivio Annassim

 di Lella Di Marco

Eravamo convinte che il perfetto e prezioso tappeto fosse soltanto quello orientale, proveniente dalla Persia soprattutto. Su tale fenomeno culturale è stato scritto tanto. Anche a Bologna gli immigrati iraniani, tutti intellettuali e di famiglie agiate emigrati per motivi politici, continuano a definirsi persiani, sia per rivendicare le loro radici culturali, sia per prendere le distanze dalla realtà politica dell’Iran.  Alcuni di loro, rimasti in Italia dopo l’Università, hanno aperto negozi per la vendita di autentici tappeti persiani. Per noi il riferimento è stato Massud, da Teheran,  archeologo del tappeto.  Li vende, li restaura  ne divulga la conoscenza ne spiega i segreti in una bottega-bazar, nel centro storico di Bologna, ove si può provare anche la gradevole sensazione di sdraiarsi su pile altissime di tappeti. Come dire  provare l’ebbrezza di  sdraiarsi sulla storia dell’antica Persia.

Noi abbiamo scoperto  la bellezza e il valore dei tappeti marocchini, con le donne marocchine immigrate con le quali siamo entrate in contatto. È difficile trovare in Italia testi sulla materia, ne abbiamo recuperati in lingua francese in una libreria specializzata a Casablanca, redatti e stampati a cura di studiosi e accademici francesi, corredati da foto di manufatti tessili raccolti in collezioni d’arte e musei a Parigi  o in manuali editi da Ibis Press et Editions Unesco.

Non da accademiche né da studiose specialiste della tematica, intendiamo proporre una lettura e una riflessione sui tappeti marocchini, a partire dalla significativa esperienza di relazione fra donne, in considerazione dell’ascolto dei racconti e delle storie della loro vita, dei passaggi esistenziali determinanti non solo dal punto di vista affettivo ma  anche per la formazione della loro identità, del loro carattere, delle loro scelte. In ultima analisi anche per il riconoscimento del “proprio valore” di donna. L’arte del tessere, imparata dalle mamme e dalle nonne, secondo antichi saperi, conserva una sua sacralità, essendo un lavoro inventato dalla figlia del Profeta e riservato esclusivamente alle donne.

Conosciamo donne  del sud del Marocco, nate e cresciute nelle zone rurali  di  Tata  e  Uarzazate   e ai loro racconti ci riferiamo. Humhoeni era stata indirizzata alla nostra Associazione Annassîm per  frequentare il corso di lingua e cultura italiana. Da alcuni anni immigrata  in Italia, non era mai uscita da casa. Non conosceva il territorio, non andava a fare la spesa né accompagnava i figli a scuola. Timida, taciturna ma con una gran voglia di imparare a leggere a scrivere, è arrivata consigliata da una amica tunisina che ci conosceva. È giunta a noi con dolci marocchini  preparati da lei e datteri della sua zona, ma noi avevamo già il tè alla menta pronto. Fa parte della nostra metodologia d’insegnamento praticare un’accoglienza “mediterranea” e proporre qualcosa nell’arredamento della sala, dove ci riuniamo,  che richiami i Paesi di provenienza delle corsiste,  in genere del Maghreb.

Avevamo appeso alle pareti tappeti tessuti a mano che ci avevano portato altre donne marocchine. Grande è stata la gioia di Hum Hoeni: in pratica ha imparato l’italiano sulla decifrazione simbolica dei tappeti, nominando quello che vedeva, che decifrava, riconosceva. Poi ha cominciato a raccontarci del suo paese Quarzazat, della tradizione della tessitura a mano dei tappeti, della tecnica, del telaio unitamente ai suoi desideri, alla meraviglia dei datteri che con il tè alla menta sono solite offrire sotto il palmeto, alla bellezza, a cinque chilometri dal suo paese,  delle ceramiche di Zagora pari solo a quella dei gioielli e dei tappeti berberi del magnifico suq di Rissani. Dove ci si riconosce ancora per famiglie e tribù.

Humhoeni aveva provato a Bologna a tessere in casa, ma ha dovuto smontare il telaio e portarlo in cantina perché i vicini si lamentavano del rumore. Così invitata ad allestire il telaio al centro interculturale Zonarelli, per un periodo ha potuto tessere, insegnare ed esporre i suoi tappeti. Nel conversare fa sempre riferimento alla sua provenienza berbera, alla tribù o “famiglia” di appartenenza, ai prodotti naturali di cui poteva disporre. Quella zona, assieme ad altri villaggi sperduti nel medio e basso Atlas, ha subito poche contaminazioni esterne, poche invasioni turistiche e di mercanti, sempre pronti a comprare e commissionare i manufatti tessili per fare profitto sfruttando le donne. L’unicità dei prodotti artistici  è assicurata dall’inventiva delle risorse artigianali messe in campo che, pur nel ripetersi di geometrie, colori e simboli, offrono nel gioco impercettibile delle varianti formali l’opportunità di coniugare disegni moderni con soluzioni plastiche e immagini stilistiche della tradizione.

Mostra di tappeti presso il Centro Zonarelli (foto Schicchi)

Mostra di tappeti presso il Centro Zonarelli (foto Schicchi)

I tappeti  di Humhoeni  ripropongono l’iconografia classica della tessitura,  che come in un libro converte la parola in immagine, la narrazione silenziosa in un sistema di simboli che va decifrato. Allora si scoprono allegorie della natura, piante, uccelli in volo, spighe, segni dell’infinito e della vita,  nonché di tutte le fasi dell’esistenza di una donna.  Usando la stessa metodologia  si possono avere varianti per un  tappeto moderno. La nostra amica, come da tradizione, comincia la sua attività dalla ricerca della materia prima, della lana ricavata dalla tosatura dei montoni, del lavaggio e pulizia in acqua, e poi dalla tintura  realizzata con polveri naturali: erbe, semi, insetti essiccati al sole da polverizzare. Segue la filatura  con il fuso e, infine, sistemato il telaio e organizzati trama e ordito, Humhoeni tesse a memoria, non ha figure cui ispirarsi, è bravissima ad organizzare le proporzioni, a valutare i numeri per le figurazioni e la distribuzione dei colori. È, quello della tessitura  un lavoro riservato alle donne, mentre gli uomini sono impegnati a portare i tappeti ai mercati o comunque gestiscono la parte economica, il cui guadagno  verrà messo a disposizione della famiglia.

Nel parlare di tappeti marocchini stiamo facendo riferimento alla produzione delle zone dell’Atlas popolate tradizionalmente da tribù berbere, correndo il rischio dal punto di vista lessicale di creare ambiguità o confusione tra l’essere berberi e marocchini. A tal proposito, così mi corregge Antonella/Fatima, studiosa di cultura e storia del Marocco, mia amica e consulente storico-culturale: «mia cara, rassegnati: “berbero” e “marocchino” sono praticamente sinonimi. Non c’è una “cultura” berbera diversa da quella marocchina. C’è la lingua amazigh, che non ha niente a che vedere con la lingua araba, ma per il resto è un’astrazione. È più sensato, se proprio si vogliono fare delle divisioni, individuare una contrapposizione tra campagna e città, tra cultura rurale e urbana. una certa contrapposizione (un po’ artificiale, certo) si può individuare tra “tradizione” e “modernità”, sicuramente non in termini etnici. I tappeti fatti in Marocco da donne rurali che sono cittadine del regno del Marocco sono indubbiamente “marocchini”, sono anche “berberi” in quanto espressione di una vasta cultura materiale plasmata sulla civiltà contadina originariamente amazigh, ma è posibile e anche frequente che le tessitrici siano di lingua araba e non amazigh. Negli anni ’20 del ’900, quando gli antropologi francesi scoprirono i tappeti, essi si potevano distinguere per “tribù”, oggi non più, gli esperti possono ancora individuare qualche debole caratteristica regionale ma i colori, i disegni e el tecniche si sono mischiati».

Le informazioni ci vengono confermate da Fatima, originaria di Agadir, stessa latitudine, città bagnata dall’Oceano a sud di Essaouira, diventata famosa per le cooperative di donne che producono l’olio di Argan, sia per uso estetico che alimentare. Oggi questo olio ricavato da una spremitura a caldo della bacca tipo oliva è anche oggetto di attenzione da parte di ricercatori universitari bolognesi per il potere che ha nella ricostruzione delle cellule nell’organismo. È una specie protetta nella biodiversità contro la inoculata distruzione che ne stava avvenendo. Fatima ci ha portato un lavoretto che sua mamma le ha dato da fare quando aveva otto anni: un tappetino di cm 15 per 30, con la esemplificazione di tutti i disegni e i fili sottili stretti a mano. I colori particolarmente brillanti sono ricavati da una tintura vegetale ottenuta anche con polvere di hennè che riesce a rendere tutte le gradazioni del rosso. È un compito che anche da noi molti decenni fa veniva assegnato alle adolescenti, soprattutto quando chiudevano le scuole, credo prendesse il nome di imparaticcio, però tendeva a riprodurre per esercitarsi con l’ago ed il cotone tutti i punti del ricamo. Del resto, miti, favole ed anche regali rivolti alle bambine e preadolescenti riguardavano oggetti del mestiere: il fuso, la spola e l’ago, corredati di ditale, forbicine e tamburello per inserire la tela da ricamare. Lavori per educare a diventare donne, appropriandosi di un sapere prettamente femminile.

Tappeto prodotto da esercitazioni giovanili

Tappeto prodotto da esercitazioni giovanili

Non c’è dubbio che la tessitura è da annoverare fra i saperi eminentemente femminili, competenze e abilità non accademiche ma iscritte nella genealogia della donna: come fare il pane, coltivare l’orto, cuocere e cucinare. Però tale arte è diversa nella pratica, nei tempi, in quanto ha bisogno di una maggiore e silenziosa concentrazione. Si impara fin da bambine con un assiduo e tenace esercizio educativo, un tirocinio fondato su un fare destinato a temprare il carattere femminile.

Se la tessitura del tappeto è nata in Oriente, facile è stata la sua diffusione nel Mediterraneo con caratteristiche però comuni ad altri gruppi etnici, che non avevano alcun contatto fra di loro. In questo orizzonte trans-culturale è possibile spiegare la credenza secondo la quale “una donna che non sapeva tessere non sarebbe mai diventata una moglie”. E stranamente tale avvertimento alle ragazze ricorreva anche ad Erice, dove la tessitura, pur se in modo diverso, è stata largamente e lungamente praticata dalle donne locali. La storia della tessitura e della sua iconografia è affascinante in quanto ci riporta alle comuni origini dei popoli almeno dell’area mediterranea, a cominciare dai simboli iconografici che riconducono alla cultura della Dea Madre, così come è documentata nei graffiti dentro grotte o sulle ceramiche ritrovate in siti archeologici di decine di migliaia di anni fa.

Ma di tutto questo come della storia, nessuna delle nostre amiche ha “conoscenza riflessa”. Chi sa tessere e proviene dalle zone rurali lo considera un pezzo fondamentale della sua vita, ne riconosce il valore da quando si sono presentati i primi acquirenti: turisti o mercanti che hanno monetizzato il frutto del loro lavoro, riconoscendo così un valore ai manufatti prodotti. Per il resto, quando noi tentiamo di spiegare il valore simbolico dei segni geometrici rimangono stupite e incredule. È facile riconoscere il significato di quanto è presente nell’ambito domestico: dalla teiera al centro del tappeto, gli elementi floreali, sentieri, montagne, la porta di casa, gli animali o la mano che, oltre a richiamare la ben nota “mano di Fatima” come portafortuna, se indicata aperta vale ad allontanare gli influssi negativi sulle persone o sulla casa, a proteggere dal malocchio. Ma può simboleggiare anche i cinque pilastri della religione islamica o le cinque preghiere quotidiane.

Ceramiche su tappeto berbero di Quarzazat

Ceramiche su tappeto berbero di Quarzazat

Capire la stilizzazione della partoriente o il significato della losanga è più difficile. C’è pudore ma anche difficoltà per la eccessiva astrazione. La losanga detta anche rombo è il più antico simbolo femminile presente nelle antiche culture, vuole rappresentare la vulva come fonte di vita. Riconosciuta in epoca preistorica, è una costante dei tappeti prodotti da ogni tribù berbera, pur in presenza di diverse varianti. Segno per prefigurare e propiziare la fecondità, ma anche un modo per diversificare le tribù e determinare la provenienza del tappeto, nella sua forma allungata, la losanga rappresenterebbe l’unione dei due sessi ma anche il contatto e la congiunzione del cielo e della terra, dentro il mondo superiore e quello inferiore. La losanga chiusa rinvia figurativamente alla donna vergine, quella aperta  alla donna pronta ad essere fecondata.

Pur richiamando gli studi di Kurt Rainer, le interpretazioni di questi simboli restano incerte e mai del tutto definitive. Sono diverse anche le decifrazioni di un altro elemento geometrico, il triangolo, da alcuni riconosciuto come allusione al  pube, mentre altri lo associano al numero tre o alla triade presente nelle religioni e nei riti divinatori connessi alle canoniche prescrizioni morali: “ben dire- ben pensare-ben fare” ovvero alle fasi del tempo e della vita (passato-presente-futuro; nascita-vita-morte) e altri ancora lo riconducono alla montagna cosmica, la montagna che collega il cielo alla terra. Nelle interpretazioni più frequenti si annoverano quelle sessuali. Così il punto in alto può essere interpretato come “il furore-la forza-l’energia” ovvero la sessualità maschile, mentre il punto in basso rappresenterebbe l’umore (liquido fisiologico) e il sesso femminile.

Studiare i tappeti berberi-marocchini significa studiarne anche i colori: così il bianco colore base è segno di purezza ma anche di morte e si può ben pensare che indichi la siccità della terra o la sterilità di una donna, mentre il nero è il colore dell’humus, della fecondità, elementi largamente usati in tale accezione nel Nord Africa e nell’antico Egitto. Il rosso protegge dalle disgrazie e dalle malattie, il verde allude alle piante, alla natura, alla fertilità della terra, alla speranza, essendo il colore preferito dal Profeta, emblema della salvezza e di buon auspicio. L’indico poi ha virtù benefiche, sinonimo di saggezza e memoria del viaggio di un sogno. Il giallo, infine, richiama la luce dorata, la forza del fuoco, il paesaggio della terra con le messi e quello dell’eternità. Tutti i colori nominati fanno risplendere i tessuti richiamando la primavera, la notte, il giorno, la luce, l’acqua. I segni sono gli stessi riproposti nei tatuaggi o nelle decorazioni hennè, spesso proprio ad indicare con una marcata visibilità sul corpo la tribù di provenienza.

Tappeto marocchino, part.

Tappeto marocchino, particolare

Osservazioni ai margini

Credo che le poche ricerche, gli articoli sparsi su riviste specializzate, gli stessi studi intrapresi dai colonizzatori francesi che hanno, per primi, riconosciuto il loro valore culturale e istituito un corpus nazionale dei tappeti catalogati, non possano essere sufficienti ad illustrare e restituire la ricchezza antropologica di tali manufatti. Ritengo più che mai urgenti una loro conoscenza più approfondita e una valorizzazione ufficiale, oggi che l’artigianato in genere è in piena mutazione come lo è la condizione umana delle donne, che cedono al mercato e non tessono più per il loro piacere ma per la necessità di avere un reddito.

Gli stessi riti e motivi tradizionali si perdono o sbiadiscono con l’evoluzione della moda e della vita quotidiana. Le richieste dei mercanti incitano alla semplificazione di tempi e di materie. Sul mercato si trovano filati misto-lana e colori sintetici già pronti all’uso, che attirano per una produzione in serie massificata: meno costi, meno tempo, meno fatica e maggiori guadagni, che poi significa perdita progressiva del patrimonio tradizionale dell’arte tessile. Si perdono i motivi, anche se si possono salvare la capacità manuali di riproduzione di stilemi e forme. Le mie amiche immigrate a Bologna, per esempio, sono cambiate nelle abitudini e nell’uso del tempo. Strette fra lavoro, casa e figli, sono le prime a capire che cambiando la situazione della donna la “modernità” si sostituisce alla tradizione inevitabilmente, avendo consapevolezza che anche nei loro Paesi, con la scolarizzazione, l’atteggiamento delle ragazze è cambiato, anche se la tessitura a mano è materia scolastica e si favoriscono progetti di imprenditoria femminile. Le loro mamme stanno invecchiando e se le dita sono doloranti l’intreccio dei fili è impossibile, come contare i fili avendo sempre più debole la vista.

Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016

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Lella Di Marco, laureata in filosofia all’Università di Palermo, emigrata a Bologna dove vive, per insegnare nella scuola secondaria. Da sempre attiva nel movimento degli insegnanti, è fra le fondatrici delle riviste Eco-Ecole e dell’associazione “Scholefuturo”. Si occupa di problemi legati all’immigrazione, ai diritti umani, all’ambiente, al genere. È fra le fondatrici dell’associazione Annassim.

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