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I figuranti del Quadraro e gli esordi di Cinecittà

cinecittadi Giovanni Isgrò 

Cinecittà che abbiamo in mente è un’“industria dei sogni” fondata su una poderosa quanto razionale macchina organizzativa animata da eccellenze nelle arti della cinematografia; una delle più importanti imprese del Ventennio, legata alla strategia del consenso, non isolabile dal complesso di intrecci e di interessi economico-politici che caratterizzarono Roma in quel tempo.

Al di là di quanto è stato ampiamente studiato in proposito, esistono tuttavia ancora spazi di indagine e argomenti di riflessione utili a meglio comprendere alcuni aspetti di questo straordinario fenomeno che va collegato più in generale alle problematiche della storia del teatro della prima metà del ‘900, oltre che contestualizzato nel panorama della politica del regime applicata alla promozione dello spettacolo di ampia fruizione. In questo senso è possibile trovare collegamenti fra cinema e altre forme di rappresentazione, soprattutto quelle di massa e en plein air che si affermarono con grande successo di pubblico in quegli anni; mentre è mancata finora una esplorazione più ravvicinata di alcuni aspetti organizzativi di Cinecittà degli inizi in particolare, quelli riferiti alla politica di ingaggio delle migliaia di cittadini emarginati distribuite dal regime stesso nelle borgate romane, in buona parte afflitte in quegli anni da povertà e disoccupazione.

In questo senso spostandosi sul piano socio-antropologico l’indagine non può non evidenziare la configurazione del complesso architettonico della nostra fabbrica del cinema come tempio assoluto della settima musa, luogo separato dal resto dell’urbe e riferimento “sacro” per masse di diseredati ed emarginati alla ricerca di un lavoro e di una identità.

Volendo trovare un punto di partenza di questo percorso esplorativo da compiere su più livelli, esso può essere individuato nella programmazione degli sventramenti del centro storico di Roma attuati proprio negli anni Trenta, al fine di restituire al mondo l’immagine di città suprema, erede di un glorioso passato che tornava a risignificarsi, exemplum di ordine e di bellezza, in un contesto di memorie antiche, ma anche di metropoli in movimento, moderna ed efficiente, da mostrare al turismo e alla cultura internazionale.

Borgata romana (ph.

Borgata romana (ph. Rodrigo Pais)

Si trattò di un processo radicale, quanto rapido, che coinvolse archeologi, urbanisti, architetti, imprese, economisti, tra interessi e accordi politici, in un intreccio di pubblico e privato. Gli sventramenti operati nel centro storico in realtà sconvolsero il tessuto di piccole attività di antica tradizione, soprattutto a carattere artigianale, ma anche agglomerati popolari sistemati in baracche malsane e fatiscenti. E non fu un caso che, dopo i primi interventi effettuati nel 1927 [1] in occasione del quinto anniversario della rivoluzione fascista, il regime cercò di avviare un’azione regolarizzatrice a partire dal 1931 in preparazione delle celebrazioni per il decennale della presa del potere. Così si legge fra i documenti dell’Archivio Centrale dello Stato: 

«Nel primo X annuale della Rivoluzione Fascista occorre:1) isolare il più possibile il colle Capitolino a destra e a sinistra del monumento; 2) ultimare i lavori dei fori dell’Argentino; 3) ultimare veramente tardigradi lavori del teatro di Marcello; 4) ultimare i lavori dei fori imperiali; 59 sistemare l’ultimo tratto di via Cavour verso il Foro; 6) sistemare il colle Oppio; 7) iniziare l’isolamento del Mausoleo di Augusto.[…] Da troppo tempo via della Marmorata è – a sinistra – fiancheggiata da baracche catapecchie impossibili. Si può provvedere, come spesa modesta». 

L’azione di sbaraccamento non era motivata soltanto dalla necessità di eliminare i poveri alloggi del centro di Roma nocivi all’immagine della “città eterna” ma anche dal bisogno di snidare e di tenere sotto controllo un notevole numero di immigrati e di gente di malaffare che vi si trovava imboscata. Si procedette così, come è noto, alla realizzazione delle cosiddette “casette comunali”, alloggi provvisori costruiti con materiale e servizi scadenti, intanto che la periferia di Roma continuava a popolarsi di altre baracche temporanee, in particolare nelle campagne ad est della città. In questo quadro le borgate presentarono subito difficoltà di spostamenti, impraticabilità delle strade, scarsa illuminazione, assenza di scuole. Ai reali problemi di queste borgate al margine del perimetro urbano faceva tuttavia da contrappeso la propaganda del regime a favore dei disagiati.

Mussolini sul set di Scipione l'Africano (@Istituto Luce)

Mussolini sul set di Scipione l’Africano (@Istituto Luce)

Nel settembre del 1930 la visita di Mussolini alla borgata Prenestina fu accolta dagli abitanti con atteggiamento di esaltazione e gratitudine dei benefici e sussidi, in un bagno di folla. Al tempo stesso continuava a mancare quel supporto economico stabile che, al di là dell’assistenzialismo, potesse garantire lavoro al popolo di Roma, essendo carente soprattutto la componente industriale. La stessa Viscosa, uno degli stabilimenti più importanti della capitale, non sembrava potesse garantire significative prospettive occupazionali.

Per quanto riguarda l’efficienza dei pubblici servizi nelle borgate, come pure la solidità e praticabilità delle “case popolari”, ancora nel 1935, nonostante le ripetute erogazioni di nuovi fondi per la medesima ristrutturazione per le nuove opere non si registrarono effettivi progressi, essendo il sistema operativo attraversato da pesanti speculazioni, intanto che gli ispettori di zona nelle relazioni sulle borgate registravano preoccupanti diffusioni di malattie infettive.

Le borgate continuavano a essere ricettacolo di disoccupati, venditori ambulanti, lavoratori saltuari, ma anche di ladruncoli e di gente poco incline al lavoro, anche se non mancavano artigiani, piccoli esercenti, commessi, facchini, provenienti da mestieri tradizionali, esercitati, come si diceva, negli angusti spazi del centro storico prima della deportazione e del ricollocamento delle famiglie.

Subito dopo la metà degli anni Trenta si assiste al graduale passaggio delle “casette minime” alle case a 3 o 4 piani, dove iniziarono a prendere alloggio disoccupati e sfollati. In questo modo si andò consolidando il potere del regime sostenuto da sempre più concreta azione di propaganda. Tuttavia ancora nel 1936, nonostante il tentativo di attuare una politica assistenzialista, le prospettive economiche, soprattutto quelle riguardanti il ceto popolare, non facevano registrare miglioramenti significativi; anzi, una crescente inflazione, la diminuzione dei salari conseguente alla depressione degli anni 30, il costo della vita non facevano ben sperare.

mussCi avviciniamo così a quello snodo all’interno del quale si colloca la realizzazione di Cinecittà; uno snodo importante che si rivelerà essere la risultante di diverse componenti, una delle quali assolutamente occasionale, ossia l’incendio che distrusse nel 1935 gli stabilimenti cinematografici CINES. E fu proprio a seguito del disastro di CINES che nacque o meglio si accentuò in Mussolini l’idea di puntare sull’industria del cinema come unica veramente in grado di aprire prospettive di consenso verso il regime e di profitti economici non riscontrabili nelle altre imprese industriali di Roma, quasi a bilanciare le fiorenti industrie del nord d’Italia.

A questa moderna configurazione artistico-industriale si accompagnò un forte rilancio delle borgate che non a caso nella seconda metà del 1936 crebbero di numero e di qualità urbanistico-architettonica. Fu quello l’effetto di una vera e propria euforia stimolata dai proclami imperiali di Mussolini che spinse diversi istituti di credito a concedere mutui per portare a compimento la realizzazione di numerose borgate, da Garbatella a Pamphili, da Tiburtino III a Pietralata.

Si cominciarono a questo punto a costruire case classificate come ultrapopolari e popolari, ma anche alloggi popolarissimi distribuiti a Primavalle, Val Melaina, Acqua Traversa, Quadraro, quest’ultimo in particolare, direttamente coinvolto nella grande avventura di Cinecittà. Il rilancio delle borgate corrispose al ritorno dell’Istituto Case Popolari alla gestione del quadro abitativo delle periferie di Roma, dopo la crisi degli inizi degli anni Trenta [2].

Il principio economico-disciplinare che stava alla base delle opere di rieducazione sociale programmata dall’IFCAP, esteso anche ai ceti meno abbienti, portò all’obbligo di pagamento, anche a carico di quest’ultimi, di un canone bassissimo a confronto di quello stabilito per i ceti superiori.

Tuttavia il peggioramento delle condizioni di vita di diversi strati sociali e i continui reclami sul pessimo stato delle condizioni igieniche delle borgate continuarono a costituire per l’IFCAP un grande problema, di fronte al quale l’istituto fu costretto ad intensificare le migliorie pur con grande difficoltà. Il malcontento, in particolare nei quartieri popolari, si faceva crescente, ed era divenuto evidente la disillusione presso gli strati più disagiati sulle prospettive di crescita economica propagandate dal regime.

Tutto questo rendeva ancora più palese la situazione di segregazione sociale e di isolamento urbanistico rispetto al quale il Regime sentì la necessità politica di trovare soluzioni di consenso. Fu, questa, una motivazione che diede ulteriore significato alla nascita di Cinecittà, in quanto destinata a diventare, fra le altre cose, luogo di lavoro e spazio di riferimento per migliaia di romani collocati proprio nella borgata del Quadraro, oltre che in altre borgate limitrofe.

luigi-freddi-19-lPer comprendere il significato del rapporto fra la massa dei borgatari e Cinecittà sin dai primi anni di vita degli stabilimenti cinematografici non si può non considerare, seppure velocemente, la complessità di questa straordinaria “macchina dei sogni” e le ragioni primarie che ne determinarono la nascita. Fermo restando la rilevanza degli aspetti tecnici e organizzativi della articolazione degli spazi destinati a dar forma alla nostra impresa cinematografica sui quali più avanti sarà opportuno soffermarsi in breve, occorrerà partire da due considerazioni di base. Da un lato, al di là delle diverse incombenze burocratico-amministrative e di programmazione generale delle attività di Cinecittà, Luigi Freddi che ne fu instancabile direttore, nel sostenere la necessità di cercare gli attori per il cinema, si rese conto delle opportunità di prediligere «l’avvento della massa che conferisce al film un’etica corale, suggestiva e potente, facilmente asservibile al concetto moderno di una nuova cinematografia italiana» [3]. Su un altro piano ci fu la posizione di Mussolini che contestualmente alla richiesta di un intervento decisivo e risolutivo dello Stato nel campo della cinematografia, affermava la necessità di fare del cinema uno strumento di propaganda e di consenso che esaltasse la qualità delle direttive del regime.

In questa prospettiva un obiettivo tutt’altro che secondario fu quello di attivare una forma di assistenza ai lavoratori delle periferie, specialmente a quelli che, sradicati dal contesto sociale ed economico nel quale erano vissuti, non avevano potuto trovare occupazione. Né meno preoccupante era la presenza fra i borgatari di disoccupati, emarginati, ladruncoli e gente di malaffare che occorreva stanare e sorvegliare proprio attraverso una forma di occupazione direttamente controllata dal governo.

L’incendio che aveva distrutto nel 1935 gli stabilimenti della CINES, la più grande casa di produzione cinematografica del momento, aveva aggiunto ulteriori problemi occupazionali nel settore della cinematografia. In questo senso la disponibilità di personale addestrato e ampiamente collaudato nel campo della scenografia del cinema quale fu quello costituito da stuccatori, decoratori, muratori, carpentieri, falegnami provenienti dalla CINES, sembrò facilitare il percorso di addestramento al mestiere dei tanti artigiani delle botteghe del centro di Roma ormai dismesse.

foto-evidenza-1Rimaneva da risolvere invece il problema dell’inquadramento e della gestione delle masse di figuranti, ossia della parte più consistente dei borgatari. E questo fu un aspetto non secondario dell’impegno organizzativo di Cinecittà. A questo punto, per rendere più comprensibili le difficoltà che si dovettero affrontare per rendere efficiente una struttura realizzata in appena quindici mesi dal 1936 al 1937, è opportuno ricordare come essa si presentò al momento del primo ciak. La razionalizzazione della gestione della fabbrica del cinema e della configurazione architettonica dell’intero complesso fu conditio determinante per garantire a Cinecittà un percorso efficiente e di lunga durata. Né fu da meno l’assetto logistico di questa struttura rispetto al resto della città e di altre aree al di fuori dell’urbe, paesaggisticamente funzionali alla invenzione di tutti i set possibili. Così Luigi Freddi ricorda le ragioni che determinarono la scelta dell’area dove si pensò di costruire gli stabilimenti di Cinecittà: 

«I terreni dovevano essere abbastanza vicini alla città da permettere l’accesso anche con i comuni mezzi senza che il viaggio richiedesse un tempo eccessivo. Cinecittà dista 35 minuti di tram e circa 18 minuti di automobile dalla stazione di Roma. Gli stabilimenti dovevano sorgere in una zona disabitata, per ragioni che si son dette sopra, ma anche non eccessivamente lontana da zone abitate, per motivi che è troppo facile comprendere.
Le popolosissime borgate del Quadraro e della via Casilina sono a circa cinque minuti di distanza dagli stabilimenti che tuttavia permangono isolati. Si doveva essere certi che con il continuo ampliarsi di Roma, la città non sarebbe arrivata a soffocare nelle sue spire gli stabilimenti come era già successo a San Giovanni: e Cinecittà sorse, infatti, ai margini del piano regolatore. Dagli stabilimenti doveva essere facile, per ovvie ragioni, raggiungere zone di esterni svariate e pittoresche.
Su questo particolare elemento mi sia consentito di soffermarmi brevemente, poiché ancora non è stato compiuto un esame serio della ubicazione di Cinecittà in confronto alle esigenze di ogni tipo. Esame che è opportuno fare qui per dare l’esatta sensazione della natura particolarmente favorita dal punto di vista cinematografico delle zone che attorniano Roma e che da Cinecittà è particolarmente facile raggiungere.
A soli 12 kilometri è posta Frascati, con le sue magnifiche ville, Aldobrandini, Torlonia, Falconieri, Borghese, luoghi meravigliosi che solo secoli di altissima civiltà monumentale hanno potuto far sorgere. A 18 kilometri ecco Rocca di Papa da un lato con i boschi di Monte Cavo, le rocce, le gole, le strade montuose, ed ecco Albano dall’altro lato con la magnifica zona dei laghi in cui gli specchi di Albano e Nomi offrono le più stupende visioni di incanti lacustri. E a 40 kilometri è Tivoli con Villa Adriana e Villa d’Este, con le sue cascate, i suoi parchi, le sue strade pittoresche. A circa 10 kilometri il Tevere e l’Aniene, fiumi a diversissima conformazione. A 30, 40, 46 e 50 kilometri, sul Tirreno, sono Ostia, Fiumicino, Fregene, Nettunia, Ladispoli, spiagge eleganti, villaggi di pescatori, pinete, porti fluviali e, lungo il litorale, zone di sabbie e dune. A 90 kilometri circa è il Monte Circeo, con i suoi strapiombi sul mare, le sue rocce aspre e movimentate; ai suoi piedi è Sabaudia col suo grande lago, con le sue dune desertiche, con la sua oasi di palme, con il suo litorale magnifico. E tra Albano e Sabaudia è tutta la magnifica zona della bonifica, le nuove cittadine, scenografiche e interessanti, le macchie di Quarto: Bassano, la selva di Terracina. A soli 80 kilometri il porto di Civitavecchia con il suo importante traffico marittimo di merci e passeggeri; e a poco più di 100 kilometri ecco le montagne del Reatino e dell’Abruzzo che offrono, con circa 2000 metri di altezza, tutti i panorami di alta montagna, sport invernali, campi sci, piste tobbogan e tutto il complesso di elementi “neve” che sono così spesso chiamati a far da sfondo a scene cinematografiche. I Monti Cimini sono a 70 kilometri, i rustici ambienti di Ronciglione a 60, le montagne rocciose di Castel San Pietro a 45, a 40 il Gennaro con i suoi meravigliosi panorami alpini e via via, riavvicinandosi a Cinecittà, a soli 9 kilometri dagli stabilimenti è la zona della Esposizione di Roma e ad appena 3 kilometri, lungo la via Appia Antica è uno dei più completi e pittoreschi campi di golf del mondo.
Pochi stabilimenti cinematografici possono vantare in un raggio così breve e servito da una rete stradale eccellente e completa, gli esterni più diversi, dalle nevi perenni alle zone desertiche, dalla montagna al lago, dalla spiaggia balneare alla selva. E questo raggio consente a rigor di termini la realizzazione di esterni senza permanenza, il che significa in pratica un notevole risparmio per la produzione»[4]. 

In un certo senso si crearono in questo modo le condizioni per garantire un processo osmotico in grado di accogliere tensioni e modi rappresentativi diversi, come in un unico grande scenario nazionale all’aperto nel quale, oltre a centri  grandi e piccoli, paesaggi montani, lacustri, marini, fluviali contribuirono a creare una straordinaria visione d’insieme di forte impatto spettacolare attorno ad un centro, quale fu l’architettura del “tempio”, con i suoi spazi al chiuso ed en plein air, dove diverse migliaia di uomini e donne si trovarono ad operare, testimoni/attori di quell’edifico simbolo trasformato in una sorta di luogo di culto da dove si intendeva fare alimentare il sentimento nazionale; una delle tante iniziative di regime votate alle arti dello spettacolo aperte alla fruizione delle masse. E proprio a Cinecittà il binomio spettacolo /massa trovò attuazione attraverso quella forza centrifuga dal centro verso i luoghi più diversi dell’Italia dove le proiezioni cinematografiche portarono quanto veniva prodotto a beneficio di centinaia di migliaia di spettatori. Da questo punto di vista la realizzazione del film Scipione l’africano, come meglio si vedrà più avanti, raddoppiò il significato del binomio aggiungendo specularmente all’idea dello “spettacolo di massa” quello di “spettacolo per le masse”.

Sul piano urbanistico la collocazione di Cinecittà, oltre a rispondere all’esigenza strategica di una sia pur contenuta distanza dal perimetro esterno del centro di Roma volta ad evitare per il futuro il pericolo del “soffocamento” edilizio dovuto all’ampliarsi della città, di fatto venne a determinare il configurarsi di una nuova centralità territoriale.

La definizione del nuovo centro rispose alla aspirazione alla modernità da parte del regime rispetto all’esaltazione di Roma antica, testimonianza risignificata dell’antico fasto imperiale. Fu così che il centro territoriale del progresso legato alla rinascita dell’industria cinematografica dopo il disastro della CINES vide anche la realizzazione del Centro Sperimentale di Cinematografia. In questo caso si trattò di attivare una scuola di eccellenza in grado di formare i futuri protagonisti di una realtà artistica nuova rispondente alle esigenze espressive del cinema. In questo senso il Centro Sperimentale di Cinematografia, realizzato nel 1935 da Antonio Valente, uno degli artefici della nuova architettura non soltanto dello spettacolo, ideatore dei Carri di Tespi, di cui si parlerà più avanti, assunse il ruolo di spazio modernamente attrezzato per la didattica, ma anche di luogo dove allievi e docenti potessero confrontarsi per contribuire ad una reale crescita della cinematografia italiana.

Sul set di Scipione l'Africano

Sul set di Scipione l’Africano (@Istituto Luce)

Il CSC diventò in questo modo una sorta di struttura complementare al complesso architettonico di Cinecittà che al momento dell’inaugurazione il 28 aprile 1937 presentava una estensione di 650 mila mq., dei quali 65 mila coperti da edifici, 40 mila articolati in strade e piazze, 35 mila in aiuole e giardini, 460 mila destinati a lavori in esterno. La razionalità del progetto architettonico rispondeva ai canoni di una realtà di primo livello rispetto al panorama dell’industria nazionale; struttura chiusa rispetto all’esterno dentro la quale ferveva stabilmente il lavoro di almeno duemila unità fra il personale degli uffici e quello di lavorazione, cui si aggiungevano da cinquecento a mille ulteriori unità nei momenti di maggiore produzione; tutte regolarmente registrate in appositi schedari e attive all’interno di un grande edificio centrale che portava il titolo significativo di “Masse”. Era quello il centro della produzione di Cinecittà dove masse di figuranti si aggiungevano ad operai, artisti ed impiegati che varcavano i cancelli della “fabbrica dei sogni “.

Sulla base delle disposizioni date dal servizio di lavorazione per conto dei produttori, la massa si distribuiva nei teatri e negli esterni di Cinecittà per dedicarsi alla realizzazione dei film. Erano attrezzisti, tecnici del suono, aiuti, macchinisti, manovali, giardinieri, ecc..; e poi squadre impegnate nei reparti di falegnameria e scenografia, ossia falegnami, pontaroli, lattonieri, stuccatori, fabbri, verniciatori, addetti al montaggio di strutture destinate ai teatri e nelle sedi esterne. Cento edifici, già attivi nel 1937, componevano l’insieme degli stabilimenti divisi in uffici della produzione e quelli destinati al servizio. L’edificio della direzione generale, vera e propria centralina di comando, prospettava sull’asse centrale dello stabilimento, configurandosi come motore immoto di un sistema produttivo in continuo movimento e razionalmente distribuito nello spazio di questo complesso artistico- industriale.

Siamo arrivati così alla prima produzione di Cinecittà, ossia Scipione L’Africano, il film che, girato subito dopo l’inaugurazione degli stabilimenti cinematografici, si configurò come uno dei più emblematici degli inizi, in quanto pienamente rispondente ai princìpi che ne avevano determinato la nascita. Direttamente prodotto dallo Stato italiano attraverso l’ENIC e il “Consorzio Scipione l’Africano”, la lavorazione del film fu iniziata il 3 agosto 1937 e ultimato nei primi di marzo 1938. Alla base del progetto c’era l’intento di celebrare la conclusione della guerra in Etiopia durata sette mesi (dall’ottobre 1935 al maggio del 1936) e di esaltare l’impresa dell’impero coloniale voluta da Mussolini.

Aschieri

Pietro Aschieri

La costruzione del film, diretto da Carmine Gallone, prevedeva un impiego straordinario di comparse e doveva avere uno sviluppo semplice e chiaro, che fosse alla portata delle più larghe masse. Al tempo stesso doveva colpire per la grandezza delle costruzioni scenografiche, ma anche per la messa a punto di effetti spettacolari. In questa prospettiva il ruolo di Pietro Aschieri nella veste di architetto-scenografo e costumista, fu determinante. Lungi dal lasciarsi condizionare da una visione archeologica, egli lasciò campo aperto ad un allestimento fantastico e creativo, cercando di appagare le esigenze emozionali di effetto che il pubblico istintivamente richiede ad un film. Aschieri dichiarò pertanto che nella creazione delle scene e dei costumi cercò di derivare dalla fantasia quella completezza di elementi emotivi che gli era impossibile attingere dalle fonti classiche.    

La lettera di incarico indirizzatagli dal Consorzio Scipione l’Africano testimonia la vastità dell’impegno progettuale e operativo cui egli dovette assolvere [5]: 

«Dr. Ing. Arc. Pietro Aschieri
Via Nicola Fabrizi, 11
ROMA 
A conferma degli accordi tra noi intercorsi, Le significhiamo e precisiamo quanto appresso:
Ella è con noi impegnata per la realizzazione di un n/ film dal titolo “Scipione l’Africano” quale architetto, scenografo e figurinista costumiere.
Ella avrà il compito di preparare bozzetti, disegni, piani e modelli per la costruzione del film, sia per le riprese in esterni sia per quelle in teatro (tanto a Roma che, eventualmente, fuori Roma=; fare bozzetti e disegni per i costumi sia degli interpreti principali che delle figurazioni e delle masse, per le armi, navi, cariaggi ed attrezzi vari; Curarne e sorvegliarne sia direttamente che a mezzo di suoi incaricati di fiducia l’esecuzione e l’attuazione; controllare nell’interesse del produttore i preventivi dei vari fornitori. Tutto ciò d’accordo e secondo le direttive del Consorzio.
Per tutte le Sue prestazioni, incluse tutte quelle dei Suoi collaboratori, nonché per il materiale come appresso viene precisato, Le corrisponderemo un onorario globale forfettario di lire
L. 100.000   = (centomila) pagabile come segue:
L.                                   20.000 = (ventimila) alla firma del contratto dandoLe atto che tale somma Le è stata già versata
L.                                   10.000 = (diecimila) all’inizio delle costruzioni
L.                                   15.000 = (quindicimila) dopo 30 giorni di lavorazione del film
L.                                   15.000 = (quindicimila) dopo 60 giorni di lavorazione del film
L.                                   15.000 = (quindicimila) dopo 90 giorni di lavorazione del film
L.                                   25.000 = (venticinquemila) all’avvenuta approvazione del film da parte della Censura. 
In caso di viaggi fuori Roma, Le sarà rimborsato il biglietto ferroviario di 2a classe e le sarà corrisposta una diaria di L. 90 (novanta).
Nella somma forfettaria di cui sopra sono compresi, come si è detto, tutti i compensi per i Suoi collaboratori, quali disegnatori, figurinisti, assistenti, ecc. che la coadiuveranno nella realizzazione del film, nonché tutto il materiale occorrente per i bozzetti, disegni, piani e modelli (esclusi i plastici). Si fa eccezione che per l’intendente ai costumi Sig.na Maria DE MATTEIS, il cui onorario sarà a n/ completo carico.
Ella si impegna di rimanere a n/ completa disposizione per tutta la durata della lavorazione del film, come pure si impegna d’impartire alla Sig.na De Matteis le direttive necessarie per tutto ciò che riguarda i costumi.
Noi ci impegnamo a fare apparire il Suo nome, come architetto, scenografo e figurinista, nelle forme che riterremo migliori, in tutte le pubblicazioni d’uso, come nel film stesso.
Ella si impegna di restare a n/ disposizione per la durata completa della lavorazione del film, come anche per quei rifacimenti che a film ultimato dovessero apparire necessari, sia per motivi artistici che di censura.
Il presente impegno, costituendo uno speciale contratto di prestazione d’opera professionale, non è sottoposto alle norme legislative emanate ed emendate in materia d’impiego, ed ogni eventuale contestazione sarà deferita all’Autorità Giudiziaria di Roma unica e sola competente, rinunciando sin d’ora le parti a sollevare ogni e qualsiasi eccezione.
Ad ogni effetto del presente impegno, mentre noi eleggiamo il n/ domicilio nel Consorzio per il film “Scipione l’Africano” S.A. nella sua sede di via Po, 50 – Roma -, Lei dichiara che il Suo domicilio è in Roma, via Nicola Fabrizi, 11.
È suo obbligo darci immediata comunicazione di ogni eventuale cambio di domicilio. Qualora n/ comunicazioni non dovessero pervenire e arrivassero in ritardo a causa di mancata o tardiva partecipazione del cambio di indirizzo, esse valgono come pervenute in tempo ai fini della Sua responsabilità.
Non esistono tra noi promesse o convenzioni verbali di qualsiasi natura, né in aggiunta né tanto meno in difformità del presente contratto, le cui eventuali modifiche saranno valide soltanto se rientreranno da uno scambio di lettere.
Voglia confermarci la presente in segno di Sua completa accettazione e frattanto gradisca i n/ migliori saluti». 
Set di Scipione l'Africano (@Istituto Luce)

Set di Scipione l’Africano (@Istituto Luce)

Il progetto di Aschieri prevedeva, fra gli altri, la costruzione di templi di 45 metri di altezza praticabili sino a 32 metri, la struttura del Campidoglio e della reggia Tarpea con un’estensione di mq 20 mila di pareti, mentre per le scene della partenza delle navi di Scipione, per le quali si impiegarono 15 giorni di lavoro intenso presso il porto di Livorno, si dovettero costruire interamente dieci navi romane realizzate dalla ditta Neri, sulle quali si imbarcarono più di 4.000 comparse. Lo stesso porto fu mascherato scenograficamente da sagome di navi, e si fece realizzare sul molo un Foro Romano. Nell’architettura effimera, in particolare quella riproducente il Foro Romano all’interno di Cinecittà, per la quale furono impiegati per 39 giorni 500 operai, emerse la funzionalità della scenotecnica di Pietro Aschieri, soprattutto in rapporto alla presenza delle masse figuranti. Si trattò di uno scenario essenziale nel quale, fatte salve le citazioni architettoniche della classicità, pur trattate con semplicità e sobrietà, Aschieri si misurò con una progettazione fatta di armonie di volumi e di piani. Questi ultimi dovevano essere solidi e resistenti al peso delle masse; per questa ragione egli ricorse, per la prima volta nella storia della scenotecnica cinematografica, all’uso di tubi di metallo a sostegno dei piani di calpestio.

Proprio attraverso questa produzione, dunque, si mise in pratica il criterio del coinvolgimento di migliaia di borgatari prevalentemente assunti nel ruolo di comparse, in buona parte disoccupati, ai quali in forma assistenziale venne dato lavoro e possibilità di sentirsi in qualche modo beneficiari delle direttive del regime. Molte delle comparse venivano dalla vicina borgata del Quadraro, come pure dalla Casilina e così anche gli artigiani, gli stuntman, i barbieri, i sarti, i tagliatori di costumi; sicché ogni giorno una vera e propria folla si accalcava fuori dai set in cerca di un posto e non sempre si riusciva a capire di che gente si trattasse. Per aumentare il numero delle comparse, in particolare per la grandiosa scena della battaglia di Zama, e per consentire maggiore ordine alle fasi dello scontro fra romani e cartaginesi, furono messi a disposizione dallo Stato due reggimenti dell’esercito e uno squadrone di cavalleria, mentre sul piano della logistica un grande padiglione di servizio ospitò nella pianura di Sabaudia tutte le maestranze che restavano sul luogo, essendo le comparse trasferite quotidianamente sul set da Roma con lunghe colonne di camion.

Set di Scipione l'Africano (@Istituto Luce)

Set di Scipione l’Africano (@Istituto Luce)

In linea generale si può dire che, al di là del beneficio economico, ci furono altre ragioni che caricarono di senso la partecipazione della parte socialmente debole del popolo di Roma emarginata nelle borgate. Innanzitutto essa si appropriò, sia pure nella forma della ricostruzione scenica, di spazi della città antica che era stata costretta ad abbandonare; al tempo stesso, stante la nuova centralità dell’industria filmica, veniva a determinarsi una sorta di contrappeso territoriale rispetto al centro di Roma. Su un altro piano c’era il sentimento dell’“onore” inculcato da Mussolini di interpretare i fasti della potenza di Roma che tornavano a vivere attraverso la memoria dell’impesa africana del condottiero Scipione, nel quale il duce fascista si rispecchiava. L’idea dello spettacolare scontro in campo aperto della battaglia di Zama a sua volta doveva suscitare nel popolo sentimenti di partecipazione assimilabili a quelli di tante performances che portano in scena un nemico da abbattere. Vengono in mente le battaglie dell’opera dei pupi dove il pubblico popolare si entusiasmava immedesimandosi nel gesto eroico dei paladini, attualizzando il suo bisogno di giustizia e di riscatto dalla povertà quotidiana.

In questo modo in Scipione l’Africano, sia pur indirettamente, il popolo delle comparse assumeva il ruolo di protagonista dell’azione imperiale, vivendone, per così dire, l’attualità, pur non partecipando all’azione militare in Etiopia. Il sottile velo che separava la realtà dalla finzione si svelò proprio durante le riprese della battaglia di Zama, quando le migliaia di comparse impegnate sul set, all’apparire di Mussolini venuto ad assistere al movimento delle truppe romane e cartaginesi, abbandonarono i ranghi correndo a salutarlo festosamente; come dire che gli steccati della fiction venivano platealmente e inaspettatamente rimossi per dare sfogo a quella manifestazione di consenso popolare.

Le riprese della battaglia di Zama mostrarono un altro aspetto non secondario della produzione del film “africano”. Confrontando i documentari dell’Istituto Luce riguardanti l’assetto degli accampamenti delle truppe italiane impegnate nella guerra di Etiopia con le scene degli accampamenti romani a Sabaudia, si riscontra una netta somiglianza, dovuta al fatto che, come nell’ordine delle truppe in battaglia, ci fu un intervento diretto di consulenza alla regia di Gallone da parte di ufficiali del nostro esercito, ma anche di militari in ruoli di riferimento per l’ordinamento e il movimento delle masse al comando del colonnello Alberto Riggi. Da qui si comprende come non ci fu sostanziale differenza fra le riprese /propaganda della situazione storica e quelle della realtà contemporanea, essendo entrambe facce della stessa strategia del consenso.

La visita di Mussolini a Cinecittà (@Istituto Luce)

La visita di Mussolini a Cinecittà (@Istituto Luce)

Pur trattandosi di un numero più contenuto di comparse, l’effetto “massa” non mancò sin dalla scena iniziale del foro romano e in quelle all’aperto negli spazi esterni di Cinecittà fino alla campagna contigua. Nel primo caso, per dare spazio alla massa di tutto un popolo unito che inneggiava all’impresa sostenuto dalle musiche e dal coro di Ildebrando Pizzetti registrati nello studio 8; nel secondo, per la scena dei contadini che si apprestavano a partire e poi, per l’arrivo dei cavalieri e delle truppe di Scipione. Dal punto di vista della spettacolarità messa in campo, al di là delle sequenze di grande effetto dello scontro fra romani e cartaginesi, proprio all’interno di questo scontro, l’attrazione maggiore fu determinata dalla presenza degli elefanti. Per raggiungere il numero di 50 unità, dopo una lunga quanto infruttuosa ricerca presso numerosi circhi in Italia, il problema fu risolto mediante un accordo con un celebre fornitore straniero; e si dovette ricorrere comunque alla costruzione di alcuni elefanti in cartapesta per completare il numero. La straordinaria attrazione determinata da questi animali si prolungò anche al di fuori dal set, quando la produzione diede vita ad uno straordinario spettacolo circense in forma promozionale dell’evento filmico. Ciò confermò al tempo stesso che Scipione l’Africano fu un film di grande impatto volto a colpire emotivamente lo spettatore senza consentire margini di riflessione critica e di analisi dei contenuti, secondo lo stile appunto dello spettacolo di massa.

Il cinema nel fascismoIn questo senso il film di Gallone può considerarsi in assoluto il modello di cinematografia del ventennio a Cinecittà, anche se non va trascurata la contemporanea, coeva realizzazione di Condottieri, che impegnò sei mesi di lavorazione e tre di ultimazione del laboratorio, con l’impiego di mille comparse, oltre alla massa di attori, generici, tecnici, maestranze; il tutto articolato in set in località diverse: Torrechiara, Gradara, San Gimignano, Firenze, Roma, le Dolomiti.

In questo caso le scenografie furono affidate a Virgilio Marchi, uno dei maggiori architetti-scenografi del tempo, come lo furono Pietro Aschieri, Duilio Cambellotti e Antonio Valente. Ispirato alle vicende di Giovanni dalle Bande Nere, in ambientazione rinascimentale, altra fonte dell’orgoglio italiano riproposto dal regime, il film diretto da Luis Tenker, non mancò di mettere in risalto, come ha scritto Gianfranco Miro Gori, «la geometrica efficienza delle bande: perfettamente allineate, mirabilmente inquadrate ad indicare dal punto di vista iconologico il ristabilimento dell’ordine» (G. Miro Gori – Carlo Di Maria, a cura di, Il cinema nel fascismo, Bradypus editore, Bologna, 2017).

Anche per Condottieri, come per Scipione l’Africano, va sottolineato il ruolo delle masse secondo le dinamiche fin qui descritte. Il percorso di Cinecittà inteso come luogo deputato del cinema di massa, era stato dunque avviato con successo, anche se negli anni successivi sarebbero progressivamente aperte nuove prospettive che evidenziarono il livello artistico e tecnologico dell’industria cinematografica italiana prima dello scoppio del Secondo conflitto mondiale. 

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
Note
[1] Le operazioni di sbaraccamento del 1927 riguardarono principalmente le zone di Portonaccio e di San Lorenzo. Ad occuparsene fu incaricato l’Istituto Fascista Autonomo Case Popolari (IFACP) il quale dovette provvedere in poco più di un mese a reperire 1000 vani dove sistemare i baraccati, cosa che arrivò a compimento grazie alla creazione di ricoveri provvisori a Testaccio, in via Vanvitelli e a Porta S. Pancrazio, mentre altri vani furono ricavati in scantinati e persino in botteghe (cf. L. Villani Le botteghe del Fascismo, Ledizioni, Roma 2012: 41
[2] L’IFAP, come scrive Villani, (cit.: 131) «concentrò nei suoi mezzi tutte le soluzioni abitative che, in uno spazio venticinquennale, si erano concentrate in favore della popolazione meno abbiente. Le case economiche e popolari per famiglie operaie e di ceto impiegatizio, le ex casette comunali ereditate dall’epoca liberale-democratica, in attesa di essere demolite da quasi un ventennio, infine i nuclei di baracche e ricoveri ex governatoriali in cui dimoravano soprattutto poveri immigrati, saltuari e disoccupati».
[3] L. Freddi, Il cinema, il governo dell’immagine, Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma 1994: 23.
[4] Ivi: 273.
[5] Il documento di incarico, articolato in quattro pagine, è conservato presso il “Fondo Aschieri, Accademia Nazionale di San Luca, Roma.

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Giovanni Isgrò, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Palermo, è autore e regista di teatralizzazioni urbane. Ha vinto il Premio Nazionale di Saggistica Dannunziana (1994) e il premio Pirandello per la saggistica teatrale (1997). I suoi ambiti di ricerca per i quali ha pubblicato numerosi saggi sono: Storia del Teatro e dello Spettacolo in Sicilia, lo spettacolo Barocco, la cultura materiale del teatro, la Drammatica Sacra in Europa, Il teatro e lo spettacolo in Italia nella prima metà del Novecento, il Teatro Gesuitico in Europa, nel centro e sud America e in Giappone. L’avventura scenica dei gesuiti in Giappone e Il Teatro dei gesuiti sono i titoli delle sue ultime pubblicazioni.

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