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Gli spettacoli della rivoluzione russa: il teatro urbano di massa da Kerzencev a Ejzenstejn

coverdi Giovanni Isgrò

Bisogna riconoscere l’importanza del ruolo avuto dalla Russia sovietica nella storia primonovecentesca del teatro urbano di massa, in particolare in riferimento agli spettacoli commemorativi della Rivoluzione del 1917. Dopo che la ricerca tecnico-artistica avviata all’inizio del Novecento si è già con­sumata alle soglie del primo conflitto mondiale, aspettative e curiosità attraversano buona parte di coloro che sono impegnati nella fondazione di un nuovo teatro e di una nuova società, e che, anche al di là degli orientamenti politici, si volgono a ciò che accade nella stagione della Rivoluzione come a verificare possibilità di concrete trasformazioni.

È così che il Teatro creativo di Kerzencev diventa un riferimento importante: «vero e proprio “manuale” – come scriveva Cruciani – per gli operatori culturali che debbono organizzare il “nuovo” teatro in una riflessione che incrementa il proprio progetto verificandosi con la discussione e la prassi quotidiana»[1]. Ed è proprio nel saggio di Kerzencev (non a caso tradotto in tedesco nel 1922), come nei suoi numerosi interventi nel campo dell’organizzazione dell’arte, che lo spettacolo all’aperto assume una parte determinante nella politica teatrale legata agli orientamenti del nuovo regime. Proposto come vero e proprio sfogo di una straordinaria energia improvvisamente liberata dalla grande Rivoluzione, lo spettacolo en plein air si caratterizza come teatro di massa orientato dal nuovo potere dei Soviet con l’obiettivo di rigenerare il popolo russo. E se nei centri rurali riferimenti importanti diventano i riti, i giochi, i balli campagnoli, nelle città i club operai offrono materiale umano addestrato da utiliz­zare nei grandi progetti di teatralizzazione urbana.

Quello che sembrò essere espressione di un bisogno globale di un popolo affamato e tormentato dal freddo, e al tempo stesso attraversato dall’ebbrezza del cambiamento, fu in effetti il frutto di una grandiosa concertazione organizzata, volta a creare una enorme forza sociale alla quale parteciparono, insieme agli apparati dello Stato, intellettuali, e teorici, oltre che artisti di regime. Al primo congresso del teatro operaio e contadino tenutosi nel no­vembre del 1919, Kerzencev, indicava in questo modo il ruolo che le feste popolari potevano avere nel processo di educazione delle masse:

«Nell’epoca della rivoluzione socialista le feste popolari sono più di un mezzo di educazione delle masse; sono un mezzo per avvicinarle all’arte in tutte le sue manifestazioni: poesia, pittura, musica e teatro. Le feste popolari debbono fondarsi sulla attività creativa delle masse. I lavoratori non debbono solo partecipare attivamente ai cortei solenni e alle riunioni ma prodursi anche come cantanti e oratori, scenografi e artisti, improvvisatori e registi.
Le feste popolari, che in quanto tali contengono in sé tutti gli elementi del teatro, sono una buona scuola per le grandi masse popolari e risvegliano in loro l’istinto drammatico creativo; insegnando i princìpi dell’arte, i movimenti armonici, l’azione ritmica collettiva, ecc.
Le feste popolari, educando le masse all’amore dell’arte e del teatro ed elaborando i metodi di creazione collettiva, preparano la strada al teatro socialista in cui scompare il confine tra spettatore e attore e in cui l’azione drammatica sarà sostenuta da tutta l’assemblea dei lavoratori che improvvisa uno spettacolo grandioso.
Le feste popolari, soprattutto nella campagna, sono lo strumento più efficace di lotta contro la religione. L’influenza della Chiesa in tutti i paesi è dovuta in gran parte ai sontuosi spettacoli, a volte perfino con la partecipazione dei fedeli, che essa offriva.
Per l’ulteriore incremento dell’organizzazione di feste popolari è necessario: oltre al 25 ottobre e al Primo Maggio, creare molte grandi giornate di festa, per esempio la Festa del lavoro (in autunno), che coincidano con il periodo del raccolto e che sarebbero un simbolo dell’unione tra città e campagna; poi una serie di giornate festive locali; creare sezioni permanenti e commissioni speciali allo scopo di studiare teoricamente e praticamente i problemi connessi alle feste popolari; fare largo posto nella scuola unica all’istruzione teatrale; preparare le masse all’attività teatrale per mezzo di feste scolastiche; abbandonare, nell’organizzazione delle feste popolari, la consueta monotona disposizione dei cortei che si incontrano tutti a uno stesso punto, e creare un programma più individuale, dando maggior risalto all’attività dei singoli distretti e alle aspirazioni creative delle masse stesse»[2].

kerzenevCollegato alle idee di Kerzencev, il Laboratorio Teatrale dell’Istituto per la Storia delle Arti di Leningrado analizza e descrive le feste popolari. E si avviano studi dei riflessi delle masse, esami statistici utili alla sistematica organizzazione e al controllo dei movimenti scenici del nuovo teatro del popolo. Nasce una nuova scienza, l’Eortologia, orien­tata a separare l’idea del teatro di massa dal professionismo dell’attore, mentre lo spettatore cesserà di avere un ruolo passivo per assumere quello di partecipante attivo all’azione. Non si tratta più di rappresentazione caratterizzata dalla finzione teatrale, ma di azione “reale”, direttamente collegata alla quotidianità per quanto sublimata dall’evento. Goduto nel doppio della sua eccezionalità che sfiora l’idea dello spettacolo, esso è vissuto quale adatta­mento della realtà, elevata alla soglia estrema dell’epopea sociale.

La stagione più significativa delle feste della rivoluzione russa si colloca nell’anno 1920. In questo anno si assiste ad una rapidissima evoluzione del teatro urbano di massa che si libera definitivamente da­gli ultimi richiami all’effimero e alla scenografia del teatro al chiuso per legarsi agli impianti monumentali, alle architetture e agli spazi reali della città, siano essi le strade, le piazze, i ponti o i fiumi che la attra­versano. In questo modo gli elementi che configurano il paesaggio ur­bano diventano a loro volta parti attive dell’azione, ricoprendo essi ruoli che la comunità intera riconosce. I contenuti del resto sono quelli tratti dalla storia e sono volti ad alimentare un sentimento civico e na­zionale attraverso l’obbligo della partecipazione collettiva all’evento scenico. In questo modo viene superato lo schema ripetitivo dei ceri­moniali e delle adunate di massa a favore di drammaturgie composite basate su rapide successioni di quadri in movimento di forte tensione espressiva, con lo scopo di trascinare tutto il popolo in un’unica azione corale conclusiva. Per questa ragione, oltre ai registi che dovevano dirigere le diverse azioni, un gruppo di funzionari in veste di “direttori di scena” avevano il compito di osservare l’effetto che ogni movimento, ogni suono, ogni luce aveva sulla folla e di rendersi conto di quanto la folla stessa potesse intendere, vedere, capire, dai vari punti dove era dislocata.

La rivoluzione russa e il cinema

La rivoluzione russa e il cinema

Il primo spettacolo di massa all’aperto, dal titolo II mistero del la­voro liberato, fu messo in scena il primo maggio 1920 a Pietroburgo sotto il colonnato della Borsa Valori. L’opera fu il risultato di un lavoro collettivo, essendo diretta da tre registi con l’intervento di tre pittori-scenografi e con la partecipazione di alcune orchestre della Marina militare [3]. L’azione prevedeva la presenza di 4 mila soldati dell’Armata Rossa, mentre per le azioni di massa che richiedevano movimenti espressivi (ad esempio quelli degli schiavi) furono impiegati gli allievi delle scuole d’arte drammatica. Attori professionisti operanti nei teatri di Pietrogrado ricoprivano invece ruoli più impegnativi. La componente scenografica che, come si è detto, sarebbe stata interamente eliminata nelle rappresentazioni all’aperto successive, consisteva in grandi tele di­pinte, sistemate fra le colonne del Palazzo della Borsa, raffiguranti una grande fortezza, mentre al centro si ergeva un enorme portale dorato.

L’azione si svolgeva in parte sui gradini della larga scalinata sotto­stante il colonnato; lì prendevano posto schiavi in catene che fra gemiti, imprecazioni, canti disperati, urla, di tanto in tanto sospendevano il la­voro attratti da musiche armoniose (le melodie del Regno della libertà) che provenivano dall’interno del Palazzo della Borsa, per poi essere costretti dai sorveglianti a riprendere il tormento della schiavitù. Al contrario, un corteo di padroni schiavisti, famosi sfruttatori e regnanti di tutti i tempi, prendevano posto su una piattaforma collocata in alto sulla gradinata, per partecipare ad una grande festa animata da musi­che, danzatrici e danzatori, in un crescendo da baccanale.

Il risuonare improvviso di un colpo fortissimo che scuoteva l’in­tera piazza metteva fine a questa festa, seminando panico fra i potenti. Era il segno della rivolta. Gli schiavi davano l’assalto alla mensa dei signori, mentre altre scene storiche di rivolta degli oppressi (dagli schiavi dell’età romana ai servi della gleba del Medioevo, al proletariato della rivoluzione francese) animavano lo spazio sottostante il palazzo. Il tutto portava al trionfo degli schiavi, mentre gli oppressori fug­givano da tutte le parti. E quando venivano abbattute le porte della for­tezza, l’Armata Rossa faceva il suo ingresso tra musiche di vittoria e rulli di tamburo. A quel punto la folla degli spettatori si univa alla massa in azione nel segno dell’entusiasmo collettivo, intanto che un unico coro di 35 mila persone intonava il canto dell’Internazionale e l’Armata Rossa deponeva le armi cambiandole con gli strumenti del lavoro pacifico, fra lo sparo dei fuochi d’artificio nel segno della pace, della libertà e del lavoro gioioso.

Il successo di questa rappresentazione e l’entusiasmo che accese l’intera città di Pietrogrado spinsero l’organizzazione a realizzare un nuovo spettacolo monumentale e di massa negli stessi spazi, ma con un coinvolgimento più ampio del paesaggio urbano, con una attenzione maggiore ai dispositivi luminotecnici, alla articolazione delle azioni e alla realizzazione delle musiche, questa volta in buona parte originali, e ancora con la partecipazione di comparse provenienti da settori diversi del quadro sociale, operai e operaie, marinai e soldati dell’Armata Rossa, scuole teatrali, membri dell’unione e della gioventù comunista, per un totale di circa 4 mila unità.

Pietrogrado, 1917

Pietrogrado, 1917

L’immagine di Pietrogrado città-teatro si estese questa volta oltre il portale, il peristilio e la gradinata del Palazzo della Borsa, coinvol­gendo i due ponti e gli argini della Neva, i fanali dei rostri e le acque della Neva stessa da dove navi da guerra ancorate sul fiume sparavano cannonate a salve e illuminavano la scena con i loro fari. Lo spettacolo, dal titolo Verso una Comune mondiale, proponeva la storia del movi­mento operaio dal 1848 alla rivoluzione russa e si protrasse per circa sette ore (fino alle quattro del mattino) coinvolgendo un pubblico partecipante di circa 80 mila persone [4].

Da un’alta torre alzata sul ponte della Neva venivano dati gli ordini di regia con l’aiuto di segnali elettrici. L’azione utilizzava gli spazi in prossimità del Palazzo della Borsa con una impostazione simile a quella del precedente spettacolo, con la festa orgiastica della ricca bor­ghesia in alto e gli operai (anziché gli schiavi) in basso. Nella prima parte una successione di combattimenti e sparatorie legate alle vicende della Comune di Parigi portava all’abbattimento del monumento al potere borghese e alla festa gioiosa dei comunardi. Nella seconda parte, dopo la reazione della borghesia e la disfatta dei lavoratori, la bandiera rossa della II Internazionale si alzava di nuovo per essere travolta, fra il terrore e la disperazione degli operai, dagli imperialisti trionfanti che davano inizio alla guerra mondiale fratricida. Nella terza parte, quella dedicata alla Comune russa, lo scenario si apriva con gli ordini dello Zar che dall’alto del suo trono mandava al massacro lunghe schiere di lavoratori-soldati fra le proteste e il pianto delle loro donne. Il ritorno dei feriti e degli invalidi scatenava l’inizio della rivoluzione operaia con l’abbattimento del trono dello Zar. Attacchi ripetuti dei lavoratori, dopo il temporaneo successo sul governo provvisorio, venivano successivamente contrastati dalla controrivoluzione borghese, dato che imperialisti di altri Paesi inviavano truppe per abbattere il regime della Russia Sovietica.

A questo punto entravano in scena i soldati dell’Armata Rossa che si producevano nell’eroica battaglia a difesa dei lavoratori e per la causa dei proletari del mondo intero. Si giungeva così al trionfo della bandiera della III Internazionale, mentre colpi di cannone annunciavano lo sfondamento del blocco della Russia e la vittoria del proletariato di tutto il mondo. L’inno della Comune mondiale, tra lo sventolìo degli emblemi del proletariato internazionale portati da lavoratori del mondo occidentale che comparivano sulle navi da guerra ancorate sulla Neva, univa tutti i partecipanti allo spettacolo e l’immenso pubblico della piazza di Pietrogrado.

Si capì a quel punto che i tempi erano ormai maturi per la messin­scena di una rappresentazione fuori dall’ordinario, eccezionale per im­pegno organizzativo, partecipazione di massa e coinvolgimento delle architetture-simbolo nel ruolo di protagonisti di una realtà storica che aveva posto la Russia Sovietica all’attenzione di tutto il mondo. Lo spettacolo, come è noto, ebbe come titolo La presa del Palazzo d’inverno, e rimane ancora oggi testimonianza esemplare di teatro urbano [5].

Al di là di ogni considerazione politico-sociologica, il salto di livello di questo spettacolo rispetto alle pur significative realizzazioni precedenti fu determinato innanzitutto dalla straordinaria estensione e articolazione dello spazio scenico. Nelle messinscene dei mesi appena trascorsi e testé descritte, in un certo senso era stato confermato, pur con la variante dell’apertura verso la Neva, lo schema standard del tea­tro monumentale urbano con la grande struttura architettonica dominante (il Palazzo della Borsa) e la gradinata sottostante, utile a meglio evidenziare il movimento di attori e comparse al di sopra della quota del palcoscenico ad essa attiguo. Un assetto, questo, osservato come si è visto da Reinhardt a Salisburgo e in un certo senso annunciato da Fuchs per la cerimonia di inaugurazione della Colonia degli Artisti a Darmstadt nel 1906.

Pietrogrado, 1917

Pietrogrado, 1917

Per La presa del Palazzo d’Inverno, nell’ex piazza Alessandro, i 100 mila spettatori presero posto fra due monumentali palazzi, quello dello Stato Maggiore Generale e il Palazzo d’inverno, appunto. Ac­canto al primo, due terrazze di trenta metri ciascuna unite da un ponte praticabile destinato alle azioni dello scontro avevano il ruolo di rappresentare la contrapposizione tra il proletariato (sul palco illuminato di rosso) e il governo provvisorio (sul palco illuminato di bianco). Il secondo assumeva invece le caratteristiche di un gigantesco dispositivo scenico, ma al tempo stesso di architettura/simbolo e protagonista dell’azione rivoluzionaria, dalle cui finestre illuminate nella seconda parte dello spettacolo giungevano agli spettatori le immagini delle drammatiche sequenze della storia.

La grande piazza era a sua volta area di movimento scenico dei reggimenti di Kerenskij che, dopo aver abbandonato uno dei palchi, percorreva un lungo corridoio fra ali di folla per rifugiarsi nel Palazzo d’inverno. Né mancarono, a completamento dello spazio “totale” dello spettacolo, il coinvolgimento della quota aerea con il volo degli aero­plani da guerra e le cannonate a salve sparate dall’incrociatore Aurora ancorato sulla Neva, mentre l’estensione della città in scena arrivava a coinvolgere i campanili delle chiese e le sirene delle fabbriche chiamati a dare il loro contributo sonoro alla rappresentazione.

Per la prima volta, in questo modo, l’architettura e lo spazio ur­bano diventavano interpreti di sé stessi con la partecipazione di protagonisti veri del recente passato rivoluzionario inscenato nello stesso luogo in cui si erano svolti i fatti di appena tre anni prima. Lo spazio scenico diventava spazio sublimato dalla tensione commemorativa, e per questo doppiamente animato da emozione collettiva; non più luogo di rappresentazione, dunque, ma di relazione predisposta dalle accurate istruzioni date alla folla all’inizio dell’evento su come avrebbe dovuto comportarsi e in quali azioni avrebbe potuto prendere parte diretta alla rappresentazione.

Isaac Brodskij, Consegna della bandiera dei comunardi parigini agli operai moscoviti, 1933

Isaac Brodskij, Consegna della bandiera dei comunardi parigini agli operai moscoviti, 1933

L’ambiguità e il sottile confine tra finzione e realtà costituivano pertanto lo specifico di questa forma di spettacolo en plein air che la Russia stava sapientemente sperimentando nel rapido trascorrere di quel 1920. Quella tensione scenica di massa che aveva ispirato in d’Annunzio, prima il sogno espresso ne Il Fuoco e poi il teatralismo eroico negli anni legati al primo conflitto mondiale, che aveva trovato in Rolland un appassionato assertore, tuttavia ancora all’interno di “contenitori chiusi”, e che aveva acceso i tanti teatri proletari russi, contadini e operai che fossero, mentre Fuchs, insieme agli altri padri fondatori della rivoluzione del teatro, non era stato attraversato dal de­siderio di uno straripamento urbano, e Reinhardt proprio in quell’anno provava finalmente la spinta interiore per un dirottamento dell’arte nello spazio della città – quella tensione, dicevamo, portava ad un dop­pio risultato. Da un lato ci fu la definizione di una identità sociale individuabile anche attraverso la forma del teatro urbano che ebbe diffusione rapida su tutto il territorio della Russia liberata. Dall’altro, si mi­sero in atto, nella forma più articolata, dinamiche tecnico-organizzative che avrebbero caratterizzato la nascente cinematografia in una città-teatro che tanto somigliò ad una città-set.

L’articolazione della scena in tanti luoghi deputati, di volta in volta illuminati come veri e propri teatri di set attraverso un poderoso impianto luminotecnico, era concepita, del resto, in modo da garantire continuità all’azione come in un vero e proprio montaggio a vista. Per avere un’idea più ravvicinata di questa messinscena che sem­brò coniugare l’idea del teatro di massa con quella del kolossal cine­matografico, riportiamo la puntuale descrizione fatta da Kerzencev:

«Buio completo. Un colpo di cannone annuncia l’inizio della celebrazione. Sul ponte si accendono lampioni. Otto suonatori di fanfara vi sono schie­rati, dai loro strumenti ondeggiano veli rossi. Suonano e tutto piomba di nuovo nel buio. Ora si leva la sinfonia di Hugo Warlich che illustra la si­tuazione del governo provvisorio e del proletariato. Si chiude con la Mar­sigliese, durante la quale la piattaforma bianca di Kerenskij appare in una luce abbagliante. Mostra un enorme salone in stile impero in rovina. Ke­renskij riceve con una bandierina rosa in mano i dignitari e i banchieri con il “prestito della libertà”. Tutti marciano ritmicamente al suono di una musica di guerra e al grido: “guerra fino alla fine vittoriosa”.
Ora risuonano le sirene delle fabbriche e delle officine. La Kerenskiade si spegne lentamente. Dal buio compaiono i profili del palco rosso del prole­tariato. Ciminiere, macchine; si sentono pesanti colpi di martello. Al suono ancora incerto dell’Internazionale gruppi isolati di operai si muovono. Oratori. Si guarda nel buio e il grido «Lenin, Lenin!» si diffonde sul palco. Appare di nuovo la scena di sinistra e il bianco ritorna alla luce. Si nota già una certa insicurezza. Discussioni. Il parlamento provvisorio. Appare ora il palco di destra che risplende di rosso. C’è già una certa organizzazione.
Cosi l’attenzione del pubblico si rivolge di volta in volta al palco di Ke­renskij e a quello di Lenin. E via via l’unità dei bianchi si sgretola, la loro Marsigliese diventa sempre più insicura e sfumata.
Dai rossi invece l’Internazionale cresce sempre più; essi sembrano sem­pre più compatti e più numerosi. E l’unità delle masse proletarie diviene sempre più solida e minacciosa; bandiere rosse sventolano nell’aria. Sul ponte, turbamento e inquietudine, corse e confusione. Abbandono della piattaforma di Kerenskij e afflusso verso quella di Lenin.
Con la marea spaventata dai femminei reggimenti di Kerenskij e di una parte dei cadetti, che seguono il governo provvisorio e si trincerano nel Palazzo d’inverno, si spengono tutti e due i palchi e dal buio spunta fuori il massiccio scuro edificio del Palazzo, le cui 50 finestre prendono vita l’una dopo l’altra: è l’ultimo baluardo del governo provvisorio. Questo continuo baluginìo, l’accendersi e spegnersi delle finestre, dà un’immagine vivente del turbamento interno e dell’esperienza psicologica dell’immenso edificio. Intanto alle finestre illuminate si presentano scene isolate di combatti­mento. Crepitano le mitragliatrici. Rombano i cannoni. Salve dall’Aurora. Si odono sirene, lunghi fischi. Fuochi d’artificio. La folla dalle centomila teste canta l’Internazionale. Parata con fiaccole»[6].
Pietrogrado, 1917

Pietrogrado, 1917

Al di là dei limiti riscontrati dallo stesso Kerzencev (costumi spesso non appropriati e riciclati dalle opere e dai balletti dei teatri; difficoltà di percepire le musiche e le voci del popolo; recitazione e gestualità ancora legate alle forme del teatro tradizionale), e di uno stile di messinscena ancora elementare, se non rudimentale, quale l’andamento del rito rivoluzionario imponeva, gli spettacoli di Pietrogrado stimolarono tuttavia la programmazione di teatri urbani di massa in numerosi centri della Russia. E non si trattò soltanto di spettacoli commemorativi della rivoluzione sovietica, come accadde a Ekaterinodat, ad Astrachan, a Kuban, a Samara, a Kostroma [7]. A Kiev si mise in scena Il 14 luglio di Rolland, a Mosca un adattamento di Edipo Re; ma, ancora a Mosca, il progetto di una gigantesca rappresentazione del mito di Prometeo non fu realizzato per timore che la letterarietà del soggetto rimanesse estra­nea alla cultura popolare.

Il grande entusiasmo organizzativo che comunque accompagnò la scoperta e l’inarrestabile diffusione del teatro urbano è nelle parole di Kerzencev: «In Russia si lavora energicamente alla creazione di un nuovo teatro di massa [...] Il teatro di massa farà parte delle consuetudini di ogni città e di ogni grande centro abitato della Russia, come avveniva finora per il normale teatro. Lo sviluppo dello spettacolo di massa rappresenta la prima pietra del teatro socialista» [8]. L’affermazione di Kerzencev che associa il teatro di massa al teatro urbano nel quadro di azioni politiche e di regime, è una conferma del fatto che, al di là di iniziative legate a tradizioni topiche e comunque circoscritte alla cultura di una singola comunità, come fu per la Passione di Oberammergau o per la teatralizzazione di San Giorgio e il drago di Hampstead, o collegate all’invenzione dell’artista e destinate ad un evento come avvenne per lo Jedermann messo in scena da Rein­hardt, lo spettacolo en plein air in forma di teatro urbano, ancora all’inizio degli anni Venti, sembra non possa considerarsi come genere in grado di vivere di vita autonoma.

Per potersi ritenere tale è necessario che esso si colleghi a movimenti d’ispirazione religiosa, a strategie di intere classi sociali o a politiche di regime proiettate su ampie aree nazionali. Soltanto in questi casi, infatti, l’architettura e lo spazio urbano diventano simboli ed elementi attivi dell’azione scenica. In questo senso, nulla di nuovo vi è rispetto alle testimonianze della storia. Basti pensare alla politica del teatro urbano attuata dalla monarchia ispanica nelle città vicereali e di rappresentanza dal XVI al XVIII secolo, per le quali lo stesso Filippo II si impegnò in progetti di regolarizzazione degli spazi, a cominciare dall’idea della plaza mayor regular, o alle forme di teatro in piazza organizzate dal movimento protestante e dalla borghesia tedesca e di altri Paesi del centro e nord Europa, o ancora, in senso opposto, alla vasta azione controriformista messa in atto dai gesuiti attraverso teatralizzazioni nelle piazze e nelle strade, solo per fare qualche esempio relativo all’età moderna.

Esiste tuttavia proprio in Russia un collegamento fra teatro urbano di massa e arte. Non a caso negli anni immediatamente successivi alla massima esplosione degli spettacoli legati alle commemorazioni della rivoluzione d’ottobre si realizza una originale sintesi fra teatro urbano e sperimentazione artistica. Motori di questa nuova pratica scenica fra arte e rivoluzione sono il movimento costruttivista e la sterzata creativa di Mejerchol’d. Come dire: un’ideale congiunzione fra teatro di massa e di regia con la collaborazione di una avanguardia figurativa ispirata dalla cultura materiale urbana legata all’avanzata dell’industrializ­zazione di Stato. Nel 1922 Gan afferma: «Il costruttivismo è nato dall’incontro tra pittori di sinistra ed ideologici dell’azione di massa»[9]. Si delinea così, come scrive Vieri Quilici «Il carattere della figuratività costruttivista che, per definizione, è legato all’azione di massa» [10].

l-architettura-del-costruttivismo-unoAl di fuori dalle dinamiche che avevano caratterizzato le speri­mentazioni artistiche tout court di Appia e di Craig, come dal meraviglioso scenico e dalle animazioni urbane di Reinhardt, per la prima volta nel grande scenario della piazza della rivoluzione sovietica nasceva una nuova forma d’arte. Tuttavia in questi propositi covava il germe di un dissidio insanabile tra le ragioni della sperimentazione artistica e quelle della comunicazione di massa intesa come propaganda e mobilitazione ideologica. Il dissidio finirà con lo sconvolgere la funzione del LEV, il “Fronte di Sinistra delle Arti” e le sue intellettualità più libere e critiche.

Già nei corsi tenuti nel biennio 1918-19 riflessioni sullo spazio urbano erano state particolarmente presenti in Mejerchol’d: «Coinvolgete la città, le strade, le piazze [...] recitate sulla riva del mare, vicino a un lago» [11], raccontava ai suoi allievi, e aveva in mente Pietrogrado come luogo teatrale per eccellenza. Al tempo stesso, nel 1917 Mejerchol’d aveva avvicinato Tatlin, nella consapevolezza che nel suo percorso rifondativo della scena sarebbe stato opportuno incontrare l’arte figu­rativa contemporanea; e saranno proprio artisti costruttivisti i suoi più stretti collaboratori protagonisti della rivoluzione della messinscena. Su scala urbana il connubio fra teatro di massa e avanguardia artistica si era avviato proprio in quella stagione del 1919-20. Per la realizzazione de La presa del Palazzo d’inverno, ricorda Efros:

«composizioni a colori di arredi futuristi avevano dato la scalata alle anti­che facciate e diviso in due la colonna d’Alessandro [mentre] durante la festa di maggio, la piazza del Bol’soj di Mosca fu sommersa e travolta da pannelli giganteschi e stendardi policromi, i prati e le pietre dipinte di viola, le colonne dei dimostranti che sbucavano nella piazza sotto infinite bandiere in rosso e oro, tra due ranghi di arabeschi e di volute con cui Lentulov e i suoi allievi avevano coperto le palizzate e le botteghe dell’Ochotnyj Riad»[12].

s-l1600-3Per i festeggiamenti dell’ottobre 1920 Mejerchol’d realizza uno spettacolo-meeting, Albe di Verhaeren, prendendo come riferimento la piazza della città contemporanea, luogo deputato di meeting e di manifestazioni. La sala viene così trasformata in uno spazio per le masse, con il lancio di volantini dalle balconate, orchestre militari, marce funebri, assemblee popolari, mentre eccitatori della folla collocati fra la sala e la scena creano grandi emozioni collettive fra inni e canti. Subito dopo si cimenta nel progetto di uno spettacolo di massa alla maniera di quelli della piazza di Pietrogrado, dal titolo La lotta e la Vittoria, con la partecipazione dell’esercito e con azioni di vaste proporzioni che vanno dall’attacco al fortino del Capitale mondiale alla costruzione della Città del Futuro.

Stadi e piazze diventano per Mejerchol’d il centro della nuova cultura che è animata dalla rappresentazione della macchina e dalla dimensione della costruzione reale dell’oggetto come prodotto e testimonianza viva della vita quotidiana, frutto del lavoro e della volontà di innalzare il livello del vivere civile; tutti argomenti, questi, volti a stimo­lare e ad esaltare l’impegno delle masse in un nuovo Stato che nasce dalla Rivoluzione. Affiorano così i temi dell’urbanesimo. La città, la metropoli, diventano realtà in cui intervenire, su cui verificare l’efficacia dell’atteggiamento costruttivo. È così che Tatlin pensa sin dal 1919 alla realizzazione della famosa Torre a spirale, monumento celebrativo della III Internazionale, e la pensa come oggetto utilitario, oltre che potenzialmente simbolico e rappresentativo; “memorabile”, destinato a resistere al tempo, ma anche basato sulla utilità sociale, essendo esso pensato per accogliere le sedi degli organi legislativi, esecutivi e informativi dello Stato.

Torre a spirale, il simbolo del Costruttivismo

Torre a spirale, il simbolo del Costruttivismo

Il monumento di Tatlin, collocato come totem ed emblema rivoluzionario al centro della realtà urbana, è la risultante inequivocabile fra costruttivismo e azione di massa, intesa come arte allo stato puro, movi­mento delle folle rivoluzionarie che creano e ricreano la scena della vita. L’impossibilità per Tatlin, tuttavia, di realizzare il progetto fu il segnale forte della difficoltà a tradurre nella concretezza della vita reale urbana l’istanza costruttivista ma anche della possibilità che l’asse si spostasse sul piano di una nuova civiltà teatrale, il cui sommo ministro non poté che essere Mejerchol’d. A lui spettò infatti il compito di esprimere il bisogno di raggiungere la sintesi fra costruttività reale e rappresentazione mimata della costruzione. «La biomeccanica e, di conseguenza, il teatro, lo spazio teatrale che Mejerchol’d aveva progettato per essa costituì – come scrive Vieri Quilici – la più espressiva e quasi rituale forma di intensionalizzazione e di sublimazione estetica del mondo meccanico e della cosiddetta civiltà degli oggetti» [13]. E fu nel 1921, in occasione della visita all’esposizione dei costruttivisti, che nacque in Mejerchol’d l’idea di ricorrere ai loro dispositivi per il teatro. Fu così che Vesnin, Rodcenko, Popova, Stepanova, Ekester, e gli Stendberg, fra gli altri, di­ventarono “creatori materiali della scena”, ossia della “costruzione tea­trale” e dell’“architettura scenica”, dopo che alcuni di loro si erano misurati con la scala urbana realizzando addobbi, apparati e giganteschi pannelli e manifesti insieme a vari elementi effimeri in particolare nella Piazza Rossa, durante le feste della rivoluzione.

Le cocu magnifique

Le cocu magnifique

La tensione del teatro urbano sembra appassionare anche attra­verso questa pratica della ritualizzazione della città sia i costruttivisti che Mejerchol’d. Affiorano in questo modo nel teatro i temi dell’urba­nesimo. La metropoli diventa realtà su cui verificare l’efficacia dell’im­pegno costruttivo. Per la messinscena de Le cocu magnifique (1922) compare la prima costruzione teatrale: una struttura collocata in uno spazio vuoto con la quale viene mimata una macchina primordiale composta di gab­bie, ruote, eliche, dischi girevoli. Mejerchol’d tuttavia non vuole proporre l’illusione della realtà, ma la realtà; una realtà estraniata rappresentata dagli elementi primari che consentono la ricostruzione del ritmo della vita. Il gioco dell’attore è stilizzato, artificiale, in quanto arte creativa e non riproduzione della natura; eppure si intreccia con quello del pubblico, con quello delle masse che manifestano per le strade e nelle piazze. Tra la sala e la realtà esterna viene mantenuta una corrispon­denza diretta, uno scambio e un contatto continui. Per questa ragione Mejerchol’d arriva a tracciare movimenti di automobili che possano entrare nel teatro provenienti dalla strada, girare intorno al palcoscenico e uscire di nuovo in strada: è la lotta allo stanco realismo attraverso l’irruzione della realtà.

Per la messinscena de La terra in subbuglio, in occasione del V anniversario dell’Armata Rossa, l’intervento scenotecnico è della Popova, la quale trasforma la scena in un campo di manovra. Una sorta di viale realizzato lungo il centro della sala consente il passaggio di soldati, motociclette, biciclette e persino di un camion, mentre sulla scena si vedono una cucina da campo, una mietitrice, oltre a macchine da scrivere e telefoni. Come dire: una esaltazione della meccanizzazione dell’agricoltura, del progresso dei trasporti e del proficuo rapporto città/campagna. La propaganda diretta degli strumenti della modernità, visti nei cortei e nelle manifestazioni di massa, è una conferma ulteriore di come l’idea del plein air accompagni costantemente il lavoro di Mejerchol’d. Popova, che in un primo tempo aveva pensato ad una vera e propria gru metallica per unificare lo spazio nella sua estensione in verticale e soste­nere una piattaforma per mezzo della quale spostare gli attori, a causa del peso eccessivo dell’attrezzo deve rinunciare al progetto iniziale. L’alternativa è costituita da una struttura in legno di dimensioni più ri­dotte e da un’alta torre mobile su ruote, anch’essa in legno, utilizzata per lo spostamento degli attori, spinta da soldati dell’Armata Rossa in un turbinìo di bandiere per riproporre l’atmosfera delle manifestazioni in strada.

Scenografia La terra in subbuglio

Progetto di scenografia La terra in subbuglio

A questo punto Mejerchol’d non può fare altro che riportare all’aperto l’idea scenica. Ciò avverrà l’anno dopo, nel 1924, in occasione del V congresso del Komintem, quando lo spettacolo si trasforma in un vero e proprio evento urbano in forma di gioco militarizzato davanti a 25 mila spettatori. Rappresentato a Mosca, La terra in subbuglio con i suoi 1.500 personaggi tra sfilate di cavalleria, fanteria, materiale militare e battaglie finali tra soldati rossi e truppe bianche, esecuzioni dell’Internazionale, e ancora, esibizioni ginniche e discorsi commemo­rativi, oltre a confermare la dinamica dello scambio città/teatro/città, evidenzia il metodo del montaggio come tecnica espressa già nella prassi del teatro urbano della rivoluzione prima di maturare nell’opera di Mejerchol’d. Era stata infatti l’assenza di una narrazione “letteraria” a favore di una rappresentazione fatta, come si è visto, di serrate successioni di azioni e quadri visivi, con cambi repentini di campo, illuminazioni e deflagrazioni improvvise, rapide alternanze di “inquadratura” già riscontrate nei tre grandiosi spettacoli del 1919-20, a segnare l’inizio di una tecnica che ben presto sarebbe stata codificata come “montaggio”. Una dimostrazione in più, questa, della virtualità dello spettacolo urbano aperto alle nuove tecnologie e foriero di nuovi im­portanti contributi che avrebbero portato al cinema.

Riconoscere i rapporti di causa-effetto che portano dalla scena ur­bana alle teorie e alle pratiche registiche di Mejerchol’d e Èjzenstejn è importante. Come è noto, Mejerchol’d orienta la sua attenzione sull’attore, facendo interpretare ad esso il mito della macchina, segno della presenza di quell’ideale tecnicistico che attraversava tutto il movimento costruttivista sovietico, in cui si sarebbe diffuso rapidamente lo stesso termine “montaggio”. Èjzenstejn, a sua volta, prima di approdare al cinema, teorizza per il teatro una forma di agitazione/attrazione. Distaccandosi da Mejer­chol’d egli non intende per “montaggio” una tecnica attraverso la quale organizzare i movimenti dell’uomo-macchina, bensì uno strumento col quale modellare lo spettatore intervenendo sulle sue emozioni e sulla sua sensibilità. Compito del teatro per Èjzenstejn è pertanto quello di organizzare la vita quotidiana delle masse; e per far questo sono necessarie le attrazioni. Attraverso le quali possono essere esercitate vere e pro­prie scosse utili a coinvolgere e condizionare lo spettatore orientandolo verso il messaggio ideologico che lo spettacolo stesso reca. E tutto questo, secondo un calcolo predefinito che deve essere destinato al sicuro raggiungimento dello scopo prefissato.

Temerin Aleksej Alekseevic, V. Majakovskij, D. Sostakovic, Vs Mejerchold

Temerin Aleksej Alekseevic, V. Majakovskij, D. Sostakovic, Vs Mejerchold

Se rivediamo il percorso messo in atto negli spettacoli urbani della rivoluzione con i suoi ripetuti shock scenici, con la presenza di incaricati al controllo della reazione delle masse degli spettatori e del livello di coinvolgimento emotivo, ci rendiamo conto che la matrice della tecnica di montaggio di Èjzenstejn, e prima ancora di Mejerchol’d, è nell’orchestrazione di questi scenari en plein air a spazio totale. Basti pensare, a proposito de II mistero del lavoro liberato, al risuonare improvviso di un colpo fortissimo che scuoteva l’intera piazza per dare il segno della rivolta o alla contrapposizione fra la scena del baccanale dei potenti e il lavoro degli schiavi o all’organizzazione della folla degli spettatori per unirla alla massa in azione nel segno dell’entusiasmo collettivo, per avere l’idea del calcolo che caratterizzò il montaggio di questo spettacolo. Come dire: una consapevolezza del rapporto di causa/effetto, che è ben presente anche nella biomeccanica di Mejer­chol’d seppure con finalità più aderenti alle ragioni formali dell’avan­guardia (Craig, Futurismo, Costruttivismo, Cubismo, ecc.) che rinviene il valore ideologico nella propria forma autonoma.

Allo stesso modo, il passaggio di Èjzenstejn dal teatro al cinema come conseguenza inevitabile per chi perseguiva l’esigenza di modellare le masse esercitando la necessaria pressione sulla psiche, conferma ulteriormente la dipendenza del regista sovietico dall’exemplum del teatro urbano della Rivoluzione. Non per nulla Èjzenstejn nel suo mon­taggio delle attrazioni cinematografiche darà ampio spazio ad eventi registrati dal vivo, rinunciando alla recitazione, per quanto esasperata e circense e per questo attrattiva dell’attore. Èjzenstejn seppe, in sostanza, destreggiarsi su di uno spartiacque che invece si aprì fatalmente come un baratro agli altri avanguardisti (Majakowskij, Mejerchol’d, ecc.)[14].

51g1xnx-4klNel 1924-5, infatti, gli spettacoli russi ad estensione urbana diven­tarono sempre più nettamente strumenti di propaganda politica, traendo spunto da situazioni del momento, specialmente dalla politica estera, dalle condizioni sociali delle masse, dal progresso della lotta per la rivoluzione universale ecc. La forma rimase in ogni caso sommaria e ingenua, animata da cortei simbolici e grotteschi. Poi, a poco a poco, ai riferimenti politici e militari seguirono quelli riguardanti i grandi problemi economici. I soldati furono sostituiti dagli operai, mentre i grandi trust industriali di Stato si impossessarono di questa forma di propaganda drammatica per lanciare i loro prodotti. Si videro così automobili, autocarri, tram percorrere tutte le città animando cortei simbolici, mentre intere orchestre levavano inni e compagnie di attori e di acro­bati intrattenevano il pubblico dei vari quartieri. Lo spettacolo durava tre giorni e ogni sera il popolo era convocato nei rispettivi circoli politici dove riceveva la spiegazione e sentiva esporre l’interpretazione ufficiale di quanto aveva visto nella giornata. Nel volgere di pochi anni, dunque, si passò dallo spettacolo della Rivoluzione di massa a forme di fiera campionaria ambulante che però non dismettevano la dominante pressione ideologica.

Quanto ad Èjzenstejn, dopo avere sperimentato in teatro il costruttivismo con l’ambientazione industriale e i macchinari-protesi dell’umano con Maschere antigas, realizzato nella Centrale del Gas di Mosca, utilizzò nel modo più epico nel cinema il movimento delle “masse urbane” procedendo a segmentazioni geometriche e simboliche e a dinamiche ritmiche che sicuramente tenevano conto della grande lezione di Mejerchol’d in misura preponderante rispetto alle motivazioni ideologiche e/o tardo-giacobine delle “feste della rivoluzione”. Da qui i sospetti generati dai suoi capolavori filmici; sospetti di “formalismo” soprattutto, e le difficoltà produttive e umane incontrate nella sua pur prestigiosa esistenza.

Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021 
Note
[1] F. Cruciani, Teatro del Novecento, Sansoni Firenze 1985: 106. In realtà lo stesso Kerzencev nel suo saggio sottolinea l’opportunità di utilizzare le esperienze maturate nell’Europa oc­cidentale. In questo senso cita due brani tratti da II teatro del popolo di Rolland ispirati dal suo studio delle feste popolari svizzere: «Il poeta deve scegliere un soggetto storico ben noto e quindi ci si può accontentare di edizioni sintetiche; 2. tutto deve es­sere grandioso. Saranno rappresentati grandi quadri con solenni addobbi, marce, of­ferte di sacrifici, battaglie, danze, pantomime, in rapidi avvicendarsi qualora abbiano importanza secondaria; 3. le parti poetiche, destinate a un canto ritmico, debbono es­sere semplici e piene di sentimento. Ne risulta quell’energia, rapidità e varietà che una simile rappresentazione richiede. Un musicista deve trascrivere esclusivamente in semibrevi il poema che è alla base della rappresentazione, e poi debbono essere impo­state l’armonia e le melodie; non ci debbono essere nell’orchestra dettagli raffinati. In queste azioni tutto deve avere dimensioni grandiose; i quadri sono visti da grande di­stanza e perciò occorre che il pennello sia come una scopa». Per quanto Rolland si riferisse alla tragedia musicale, Kerzencev coglie la possibi­lità di adattare proficuamente il pensiero dell’artista francese alle rappresentazioni dram­matiche all’aperto: «Non è vero che questi giganteschi teatri all’aperto (per 20 mila spet­tatori) siano adatti solo a rappresentazioni musicali. Se l’acustica è normale la recitazione arriva lontano quanto il canto e ancora più lontano dell’orchestra. È evidente che non possono qui essere applicate le regole consuete della recitazione e della declamazione. L’attore deve stare sul davanti della scena e proferire ogni parola il più chiaramente pos­sibile; quindi per un teatro del genere l’azione deve essere semplificata al massimo, i dialoghi debbono essere ben separati, di poche parole, di pochi gesti, di maggiore espres­sività: insomma passione concentrata, azione, stile rapido. Si può usare molto la musica, ma solo in secondo piano. Un teatro del genere richiede necessariamente effetti potenti del genere dell’affresco. Si userà la massa cosi come nel vecchio teatro l’individuo sin­golo. Vanno introdotti dialoghi tra gruppi e usati cori doppi, tripli. Al posto degli intrighi individuali si sostituiranno gradualmente i conflitti di masse. Dovunque solo movimenti di massa. Forti contrasti drammatici. Grandiosi effetti di luci e ombre. Le grandi dimensioni di un tale teatro consentono di recitare contemporaneamente, ma separati tra loro, episodi diversi, si potrebbe quasi dire momenti diversi».
[2] II brano di Kerzencev è stato così tradotto e pubblicato da N. Gourfinkel, Teatro russo contemporaneo, Roma, Bulzoni, 1979: 176.
[3] Registi: Annenkov, Kugel’, Maslovskaja. Pittori: Dobuzinskij, Annenkov, Scukaen.
[4] Registi: Radlov, Petrovskij, Slovov’ev, Petrov, Mardzanov.
[5] Registi: Eureinov, Kugel’, Petrov. Pittore- scenografo: Annenkov.
[6] P. M. Kerzencev, cit.: 180-
[7] Sugli spettacoli di massa realizzati in queste ed altre città della Russia Sovietica rimando alle descrizioni di Kerzencev, ivi: 183-6.
[8] P. M. Kerzencev, ivi: 189.
[9] A. Gan, Costruttivismo, Tver, 1922; brano riportato da Vieri Quilici, L’architettura del costruttivismo, Bari, Laterza, 1969: 39.
[10] Ibidem
[11] Cfr. I corsi del 6 e 20 marzo 1918. Il brano è così riportato da B. Picon Vallin, Mejerchol’d, Perugia, MTTM Ed., 2006: 81.
[12] A. Efros, Le théâtre et le peintre pendant la révolution, Paris, 1925 (catalogo della mostra delle arti figurative).
[13] Vieri Quilici, cit.: 81.
[14] Cfr. in proposito, fra gli altri, A. M. Ripellino, Majakowskij e il teatro russo d’avanguardia, Torino, Einaudi 2002

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Giovanni Isgrò, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Palermo, è autore e regista di teatralizzazioni urbane. Ha vinto il Premio Nazionale di Saggistica Dannunziana (1994) e il premio Pirandello per la saggistica teatrale (1997). I suoi ambiti di ricerca per i quali ha pubblicato numerosi saggi sono: Storia del Teatro e dello Spettacolo in Sicilia, lo spettacolo Barocco, la cultura materiale del teatro, la Drammatica Sacra in Europa, Il teatro e lo spettacolo in Italia nella prima metà del Novecento, il Teatro Gesuitico in Europa, nel centro e sud America e in Giappone. L’avventura scenica dei gesuiti in Giappone e Il Teatro dei gesuiti sono i titoli delle sue ultime pubblicazioni.

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