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Gli occhiali d’oro senza vetro. Sentimento della (in)Giustizia nelle pagine della letteratura italiana tra Otto e Novecento

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di  Giuseppe Inzerillo

   Colpiscono la sensibilità civile di alcune persone, ancora oggi, o soprattutto oggi, le pagine che Francesco De Sanctis dedica nella sua Storia della letteratura italiana alla vicenda indubitabilmente mostruosa di Tommaso Campanella, filosofo e poeta vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento.

« … Avvolto in una cospirazione, fu, come reo di maestà, condotto nelle prigioni di Napoli. Chiarito innocente di un’accusa, se ne suscitava un’altra, perché gli iniqui non cercavano il delitto, ma farmi comparire delinquente”. “Come sai tu le lettere, se non l’imparaste mai. Forse hai addosso il demonio…».

Lo si fece autore di libri stampati trent’anni prima che egli nascesse: fu condannato da Roma e da Spagna, ribelle ed eretico, e tenuto in prigione 27 anni, sottoposto a tortura 7 volte. Tortura ed iniquità perpetrate nel nome della giustizia proprio nei tempi in cui il Guicciardini, che bene conosceva gli italiani, avverte sempre il pericolo «che la verità sia soffocata dalla calunnia». Ma anche in seguito, prima e dopo l’unificazione italiana, il rapporto della gente minuta – e talvolta di quella collocata in una posizione sociale più elevata – con quel mondo a parte che costituiva l’apparato giudiziario, continuava a lacerare la coscienza degli intellettuali avveduti e a travolgere l’esistenza delle anime candide ed indifese. Coloro che sapevano leggere e scrivere, un’esigua minoranza come rivelarono le statistiche ufficiali, per viltà e sudditanza patologica, sembravano non accorgersi delle contraddizioni di una Giustizia iniqua, avvolta nei riti e negli abiti di grottesche parate liturgiche e spesso lontana dal comune sentire popolare. Soltanto un uomo politico insigne del Risorgimento, Marco Minghetti, consapevole dei pericoli che correva il nuovo Stato unitario italiano e disgustato dagli scandali provocati da certe sentenze oppure dal protervo e sostanziale rifiuto di sollecita somministrazione di atti giudiziari riparatori di abusi, violenze e sopraffazioni, avvertì il bisogno di suscitare un vasto dibattito sull’amministrazione della Giustizia e sulle sue degenerazioni pubblicando il libro-denuncia dal titolo ancora di attualità: I partiti politici e l’ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione. Era il 1881, esattamente a 20 anni di distanza dalla nascita del Regno d’Italia, e nello stesso anno in cui sul Giornale dei bambini venivano pubblicate a puntate le avventure di un burattino di legno, quasi un risarcimento letterario in funzione di paradossale supplenza contemporanea rispetto alle inerzie della classe politica e alle sofferte ansie di autentica giustizia della gente. E quel personaggio ormai immortale, tra polisensi e allusioni avvolti dentro un vestito di scettico umorismo, pur con i difetti caratteriali e morali degli italiani, riesce a denunciare i limiti e le degenerazioni del sistema giudiziario. Del resto era stata la classe politica trasformista, improvvisata e litigiosa a delegare la funzione educativa e civica dei cittadini a scrittori, editori, pedagogisti, musicisti e pittori, tutti convocati in una sorta di immaginario raduno patriottico stucchevolmente retorico. Era difficile però immaginare che nell’Italia di allora si potesse incominciare a esplorare, secondo l’invito leopardiano, il proprio petto.

manzoniAl di fuori di quella adunata tuttavia alcuni autori preferirono battere strade più impervie ed originali, in un certo senso solitarie, respingendo le seduzioni ingannatrici della retorica, Si mossero in questa prospettiva, partendo da presupposti politici e religiosi fra loro assai distanti, Alessandro Manzoni e Carlo Collodi. Invero il primo intraprese il suo cammino coerente con una forte ansia di giustizia già prima della nascita del Regno d’Italia, quando introdusse I Promessi sposi con la terrificante vicenda della Storia della colonna infame, illustrazione eloquente del modo violento e perverso con il quale veniva somministrata giustizia nella Milano del ‘600 da una magistratura repressiva e disumana dei presunti untori. Poi, nelle pagine del romanzo il contesto storico si allarga e tanti personaggi ignobili o galantuomini, poveri o aristocratici, animano le scene di quella Lombardia sotto il dominio spagnolo. Anche in queste pagine comunque il rapporto con la giustizia risulta sempre conflittuale. E i popolani, in quel guazzabuglio normativo oggi sembrano ricordare quella maschera carica di angoscia che più tardi Vincenzo Irolli, pittore napoletano egregio vissuto tra Ottocento e Novecento, dipingerà mentre tiene in mano, a distanza dagli occhi, un libro, forse un codice delle leggi, restando tuttavia sempre confuso e disorientato su ciò che stenta a leggere.

Renzo Tramaglino, come tutti sanno, è il protagonista dei Promessi sposi, e fin dalle prime pagine lo conosciamo come vittima innocente della giustizia e destinatario delle prepotenze dei potenti e dei loro sgherri. Dopo l’assalto al forno delle grucce e alla Casa del Vicario di Provvisione, corre il rischio di essere giustiziato come pubblico ladrone avendo raccolto per strada due pani, mostrati poi ingenuamente in osteria. Sfugge a quella mostruosa condanna e quando s’imbatte in altre iniquità degli uomini scopre come un galantuomo possa essere stritolato dai misteri esoterici delle legge e, ritornato dalle donne, Agnese e Lucia, che piangono le loro sventure, racconta la delusione provocata dal colloquio con l’Azzeccagarbugli. Non vedendo altre alternative incomincia a ripetere ossessivamente che «a questo mondo c’è giustizia finalmente», cioè l’unica risoluzione possibile restava la vendetta privata contro Don Rodrigo. Alessandro Manzoni, come in altre circostanze, si premura di intervenire subito per frenare quell’avventatezza di Renzo e in una sorta di dialogo con il lettore, ricorda che un uomo sopraffatto dal dolore “non sa più quel che si dica”. Insomma il proposito vendicativo di Renzo restava inammissibile ma la disperazione provocata dalla violenza qualche attenuante pure portava con sé.

Più tardi, continuando Renzo a ripetere la sua ossessione vendicativa volta nella direzione della giustizia privata, il buon Manzoni chiama in aiuto Padre Cristoforo che nei locali del Lazzaretto grida aspramente : «Ma tu, verme della terra, vuoi fare giustizia! Tu lo sai, tu, quale sia la giustizia!». Manzoni non crede nella giustizia terrena, frutto spesso di animosità ideologica e di avversità personale, ma a quella che non abbandona gli sventurati al loro triste destino e li consegna invece, a titolo di suprema consolazione, ad un’altra Giustizia, suprema ed inappellabile. Non dimentica però la sua missione di scrittore (di tipo ortatoria dirà più tardi Benedetto Croce ) che era anche quella di riprovare abusi di potere, sopraffazioni e violenze perpetrate nei confronti dei miseri e dei deboli. Perciò indimenticabile resta nella nostra memoria il disgustoso colloquio tra il Conte zio, cugino di Don Rodrigo e potentissimo esponente della oligarchia al potere, e il pavido politicante Padre provinciale dei Cappuccini: il Conte zio non solo s’inventa, attraverso gli artifici della calunnia, colpe inesistenti di Renzo (che invero avrebbero comportato responsabilità omissive della parte governativa) ma arriva ad insinuare, nel silenzio acquiescente del religioso, inverosimili e grottesche accuse nei confronti di Padre Cristoforo, subito trasferito, senza essere ascoltato, da Pescarenico a Rimini, a piedi, che è – sottolinea Manzoni con amara ironia – «una bella passeggiata».

L’altro libro, che trascende le contingenze storiche, è quel Pinocchio descritto dalla penna satirica e corrosiva di Carlo Collodi e pubblicato in volume nel 1883 dopo essere apparso a puntate, come si è detto, a partire dal 1881. Narra la storia avventurosa di un burattino di legno apparso 50 anni dopo Renzo Tramaglino ed è lecito pensare tra l’uno e l’altro personaggio ad un filo conduttore unitario attorno al tema dell’amministrazione giudiziaria, sia pure con approccio stilistico diverso. Manzoni infatti parla della Lombardia e mette in campo una naturale distaccata bonomia; Collodi invece è un polemista politico e disinvolto giornalista che preferisce trasferire idee ed opinioni in terre lontane (il paese degli Acchiappa citrulli, l’isola delle api), alla maniera di tanti scrittori inglesi, irlandesi o francesi E tuttavia Renzo e Pinocchio, pur vivendo in Paesi diversi, ugualmente sono costretti nell’analogo Stato di diritto al rovescio a nutrire una profonda sfiducia nella giustizia. Pinocchio, scrive Mario Vargas Llosa, magico ed umano, diventa subito simbolo della nostra condizione. Certo porta dentro di sé tutti i difetti comportamentali dell’arcitaliano, ribelle, disubbidiente e trasgressivo ma resta pur sempre vittima di un sistema giudiziario ingiusto ed ostile, e non soltanto nei suoi confronti. Appena costruito (o nato) impara a nutrire profonda sfiducia nelle leggi e nei suoi rappresentanti: varca la soglia di casa e scappa, invano inseguito dal povero Geppetto; è bloccato da un carabiniere e restituito al padre putativo sino a quando gli interventi piagnucolosi dei passanti sono tali da costringere il carabiniere, attraverso uno spudorato rovesciamento della logica, a liberare il burattino e a mettere in carcere Geppetto, ormai incapace di trovare parole adatte per la sua difesa di innocente.

L’episodio più eclatante di irragionevole giustizia più tardi colpisce direttamente Pinocchio. Derubato di alcune monete d’oro dal Gatto e dalla Volpe, corre fiducioso dal Giudice, sapientemente rappresentato da una illustrazione di E. Mazzanti nella prima edizione del 1883 e ferocemente descritto da Collodi: «Era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d’oro, senza vetri, che era costretto a portare continuamente, a motivo di una flussione d’occhi, che lo tormentava da parecchi anni» (e forse, pensiamo noi, perché quegli occhiali servivano a conferire un’autorevolezza fittizia…). Il giudice, dopo aver ascoltato pazientemente Pinocchio, chiama «due can mastini vestiti da giundarmi» e dice loro: «Quel povero diavolo è stato derubato di 4 monete d’oro. Pigliatelo e mettetelo subito in prigione». Pinocchio si accinge naturalmente a reagire e allora i due giundarmi «gli tappano la bocca e lo conducono in gattabuia». Dopo quattro mesi, in occasione di un’amnistia, le porte del carcere si aprirono e tutti i malandrini si resero liberi. Anche Pinocchio si predispone a scappare verso la libertà, ma non essendo un malandrino è bloccato dal carceriere; e quando protesta di esser anche lui malfattore, il carceriere si convince a liberarlo e a salutarlo rispettosamente («in questo caso avete mille ragioni»). E così, derubato delle sue monete e perciò messo in prigione, riesce ad ottenere la libertà soltanto camuffandosi da delinquente!

Anche nell’isola delle api la giustizia resta amministrata non diversamente, nonostante ogni speranza di segno contrario: da parte di Pinocchio e del lettore. Tra i ragazzi, come molti ricorderanno, si accende una vera e propria baruffa a colpi di libri di scuola e qualcuno, alla fine, rimane ferito, riverso per terra; quando Pinocchio prova generosamente a soccorrerlo arrivano due carabinieri che in evidente stato confusionale lo arrestano. Ma questa volta, convinto dalle esperienze negative precedenti, scappa velocemente verso la spiaggia in cerca di libertà. I due carabinieri però non si danno per vinti, e consapevoli di non poter gareggiare nella corsa con un ragazzo, lo fanno inseguire da un feroce cane mastino mentre la gente, lieta di quell’inaspettato spettacolo gratuito, resta soltanto ansiosa di vedere «la fine di quel palio feroce». É questa una pagina terribile di Collodi, che nell’indifferenza perfino divertita di un popolo trova la principale radice dei mali che avvolgono una Nazione intera e i singoli abitanti. Non a caso Giuseppe Prezzolini, nel 1923, nel tracollo dello stato di diritto, poteva scrivere che se si fosse compreso Pinocchio si sarebbe compresa l’Italia e più tardi, nel secondo dopoguerra, SciasciaLeonardo Sciascia, solitario e al di fuori di ogni corrente letteraria, non esitò ad affermare che il banco di prova della democrazia italiana restava l’amministrazione della giustizia, suo costante e continuo assillo provocato dai burocrati del male protagonisti negativi dei suoi romanzi e degli interventi polemici sulla stampa. Così in Todo modo scopre anche lui l’impossibilità di dare e ricevere giustizia; nel Calzolaio di Messina il ricorso alla giustizia personale diretta ed immediata è risposta all’inerzia delle autorità; nel suo ultimo libro, Una storia semplice, non a caso premette un pensiero disperato di Dùrremmatt. («Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che ancora restano alla giustizia»). Sarebbe troppo lungo riportare altri esempi dalla vasta bibliografia sciasciana per dimostrare le violenze compiute nel nome della legalità rinchiusa nel labirinto autoreferenziale della giustizia. Può essere sufficientemente rappresentativo e riassuntivo quanto lo scrittore di Racalmuto, non a caso concittadino di quel Fra’ Diego La Matina, giustiziato dall’Inquisizione davanti ad una folla plaudente, disse in una intervista rilasciata al suo biografo Claude Ambroise: «Tutto è legato per me al problema della giustizia in cui si involge quello delle libertà umane, della dignità e del rispetto tra uomo ed uomo».

Sembra azzardato a questo punto sostenere che abbia avuto successo l’impresa titanica quanto velleitaria di fare gli italiani e l’Italia, se la funzione pedagogica assegnata ai grandi intellettuali alla fine, dopo 150 anni, sembra ancora lontana dagli esiti auspicati in molti aspetti della vita nazionale, e soprattutto in quello delicato e nevralgico della giustizia possibile. Moralismo manzoniano, umorismo scettico ed allusivo di Collodi e pessimismo senza riscatto di Sciascia hanno avuto il merito di far riflettere le menti maggiormente attrezzate, mentre le altre sembrano piuttosto ricordare ancora il quadro di Vincenzo Irolli e la confusione del suo popolano.

Dialoghi Mediterranei, n.4, novembre 2013

 

 

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