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Gli azulei siciliani. Il mestiere più che il nome

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S. Stefano di Camastra, Cimitero dell’800 (ph. Nino Giaramidaro)

di Nino Giaramidaro

Come una passeggiata. Un gruppetto di genitori e figli, allargati lungo il corso dello “struscio” ottocentesco, e nel mezzo del cammino fermati dalla malattia nera, sotto una sepolcrale colata di mattoni malta piastrelle, e croci. Un’impressione rischiarata dal sole rosso che indugia con estiva pigrizia ad immergersi nell’orizzonte Tirreno davanti a Santo Stefano di Camastra. E i raggi declinanti che si infilano tra i fremiti dei cipressi si riverberano sulle tombe in chiazze d’ombra che non stanno ferme e che danno a tutto il cimiterino l’illusione del movimento. Il gruppetto famigliare sembra riprendere la sua camminata recisa da una violenta e precoce eternità.

Doveva essere vivo quel pezzetto di terra a un centinaio di metri sul mare quando i colori le geometrie e i disegni di diciotto ceramisti ricoprivano quei sarcofaghi, affrettati e sparsi: uno scintillare sempre nuovo nei giorni e nelle ore, a seconda del ghiribizzo del sole e delle sue stagioni.

Lì c’è sotterrata una peste dell’Ottocento, quando i morti incalzavano l’uno dietro all’altro senza dare agio ai contabili con la penna nera di competere degnamente con l’alacrità dei monatti. Senza nome. Più che un sasso distingue le ossa, imprigionate nell’innominabile ignoto.

Le imperfezioni danno sempre modo di esercitare il libero arbitrio, e una bellissima leggenda circuisce il vecchio cimiterino di Santo Stefano di Camastra. La rinverdisce, commosso, gli occhi brillanti della febbre del genio, un grande disegnatore, cesellatore artista e scrittore, il cui nome voglio che non interessi, nato però in Libia nel ’43 e rimastovi giusto il tempo per farsi sconfiggere dall’arte dell’affabulazione e del narrare sin nei particolari più indivisibili fatti e vicende mai accaduti. O se malauguratamente avveratisi, irretiti nel miraggio dell’aedo contemporaneo.                                                       

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Ceramica inglese dal classico colore blu calico

I nomi sarebbero cifrati in un codice “Enigma” artigiano e sapiente, pieno di colore forme linee e svolazzi degli azulei siciliani. Sì, l’azul, il colore delle anime, dei desideri e delle illusioni, azul come il mare conteso, il mare ora più che mai nemico, az-zulleig andando a cercare da dove viene questo quadratino dei nostri secoli, di quelli arabi e di tanti altri idiomi. Questa linea azzurra che cerca di congiungersi all’orizzonte futuro del Mediterraneo.

Le piastrelle ordinate e rilucenti davano – e, sostiene l’aedo,  ancora danno in quei resti smozzicati – nome e cognome ai mastri e famiglie di quegli avelli ignoti all’attuale pellegrino, il loro preciso andare dietro all’esile traccia azzurra era – dovrebbe essere ancora – una rivelazione: l’identità, la consustanziazione dell’uomo di carne e del suo fragile essere impalpabile.

L’arte il mestiere l’antico segno dava forza soverchiante l’anemica anagrafe. Una dovizia di soprannomi ‘nciurie alias, nelle carte ufficiali immancabile il post nome “detto”: mettiamo, crivaro, quartararo, custureri, peri ‘ncritati, suca ‘nchiostru, milinciana, va e veni, tincituri, chiovu tortu, sceccu di senia, principi, ‘ncigneri. Un rafforzativo sociale, una maestà da “mastranza” se si aggiungeva il “don” e addirittura il “mastro”.

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S. Stefano di Camastra, ceramica decorata (ph. Nino Giaramidaro)

Sì, il mestiere, la professione, il sapere accumulato in anni di sudore che fa diventare nomi e cognomi appendici eccessivamente insignificanti per rappresentare un uomo. Quello che è stato, che è e che sarà.

 Le folate di silenzio sopra il cimiterino disperdono bozze di pensieri, infime rapsodie della nostalgia, commozioni ormai logore e affollamenti di distorsioni del grande pensiero. L’uomo è ciò che mangia ma, soprattutto, ciò che fa, che sa fare, che fa con amore, con tutto se stesso. L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.

Questo lavoro che non è più il ma è diventato un, anche due, pure mille. Questi lavori che non combaciano più con quello che si era sentito – anche come dovere civile – di esercitare per riconoscersi e farsi riconoscere.

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S. Stefano, Cimitero, tombe per grandi e piccini, forse gruppo famigliare (ph. Nino Giaramidaro)

Episodio.

Roberto Baudo, socialista di Partinico, partigiano della Resistenza e poi giornalista de L’Ora. Alto, panciutello, laureato in legge e sorridente del sorriso dei giusti. L’ho conosciuto così. E venni a sapere che aveva fatto il medico: infrattamento di combattenti dopo uno scontro armato, il comandante con il fazzoletto rosso al collo chiese ad alta voce: «Fra di voi c’è un dottore?», «Sì, io», rispose Roberto. E gli misero in mano un bisturi per operare d’urgenza un ferito che spasimava. Con suo grande spavento il dottore Baudo ce la fece, e vide tanto altro sangue. Ma era la guerra che ogni cosa distorce, prima di tutto la civiltà, e anche un altro mestiere si può affrontare senza pesantezza di cuore.

Nella vita del tran tran non è difficile imbattersi in una domanda: ma che cosa è un essere umano privato del giustificativo dell’esistenza: il lavoro l’arte il mestiere la professione? A volte quel mestiere muore d’improvviso, senza i tempi dell’estinzione che conosciamo, altre viene strappato a gruppi, singolarmente, senza incertezze e turbamenti con la ottusa rapidità che l’inimicizia con le idee comanda. Non commuovono nemmeno gli “insani gesti” dei deboli che non immaginano più il futuro dei loro verbi. Quali pensieri disoccupati intrattengono la mente di chi deve affrontare giornate vuote? Quali gesti inconsulti si propongono nelle ore lunghe dell’inedia manuale intellettuale e  mercantile?

Al momento in cui scrivo non ho notizia di una qualsiasi squadra di ricercatori, di scienziati che si arrovellino per dare una risposta. Oppure ci sono tanti studi ma che non rientrano nelle scalette e palinsesti di stampa e tv, né affascinano politici politologi analisti tuttologi e tanti altri che si alzano al mattino presto con le dita protese verso il Twitter.

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Santo Stefano, Museo della ceramica (ph. Nino Giaramidaro)

Con il progresso, la morte delle ideologie, la new age e la sua post –oggi c’è ben poco senza post – un ingegnere elettronico deve essere grato al Cielo – e anche a qualcun altro – se riesce a fare l’apprendista meccanico con nafta bulloni e chiave inglese, e con busta paga virtuale: dove c’è scritto mille ma che nel piccolo mondo della tasca diventano 500. Nemmeno il più solerte sindacato si avventura in ipotesi e stime afferenti – non è compito suo – e non danno suoni neanche le illustri scuole di pensiero, quelle che scrivono tutto in inglese sugli inviti anche ad una conferenza scarsa di luminari.

Non sappiamo nulla di scientifico su questo infimo problema della contemporaneità nella quale, come diceva l’ideologo lapalissiano e trombettista dell’altro secolo, Massimo Catalano, «Il lavoro è meglio averlo che non averlo».  «Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta» ha scritto Philip Roth. Forse oggi lasceremo solo una macchiolina senza traccia e con nessuna impronta. Ma in alcune sue pagine, con un traslato forse non sospettato da lui, possiamo intrigarci nell’esplorazione dell’interiorità di personaggi che hanno perduto qualcuno – noi diciamo qualcosa – improvvisamente e ne cercano una ragione o si domandano se ne hanno in qualche modo colpa.

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Particolare di un grande murale, di Totò Bonanno (ph. Nino Giaramidaro)

Sì, la colpa dei perdenti, di coloro che hanno opposto la Fabbrica – la cultura delle mani – e della testa – l’assistere alla trasformazione di materiali senza forma ad oggetti utili a confortare la quotidianità – al Capitale. Invisibile anonimo globale  auto generativo insaziabile. Non trovo una locuzione benevola nei confronti del Capitale: pena capitale, errore capitale, sentenza capitale, capitale umano – che detto così non rallegra, – accumulazione di capitale, capitale di controversia, Il Capitale. Bisogna cercare ancora e, forse, nell’attesa qualche miracolo darà buoni segni prima che i saecula saeculorum si stanchino.

Scopro ora che il nome affidato agli arabeschi delle piastrelle è solo una favola, l’intreccio di un’opera di immaginazione, un’affabulazione, un desiderio. Le 86 tombe innalzate senza geometria, ma che saranno state molte di più, furono piastrellate da grandi artigiani dell’Ottocento. Le 75 che si sono salvate dalla depredazione scellerata sono custodite nel museo della ceramica di Santo Stefano e sul retro c’è il marchio dell’artigiano.

Cimitero di Mellah, antico quartiere ebraico di Marrakesh

Cimitero di Mellah, antico quartiere ebraico di Marrakesh

Ma rimangono un monumento all’Ignoto molteplice. E il tempo le va sempre più assimilando alle antiche tombe islamiche della Tunisia e di tutto il Maghreb, e a quelle ebraiche che in anni e secoli di mancanza d’odio si erigevano quasi l’una a fianco dell’altra. Tumuli, alti sul terreno, col colore della terra o della sabbia del Sahara. O abbacinate dal bianco della calce che ferisce gli occhi, come i bianchi muri di Spagna del poeta di Granada.

Non c’è linea d’ombra nell’itinerario dell’azul dalle tende beduine sino alle Gorges du Verdon e a Middleport Stoke on Trent del famoso blue calico Burleigh. Lontano, con tante nazioni e scuole, ognuna che ci mette la sua identità. Il suo tono di colore che più nessuno riuscirà ad ottenere fra non molto. Nelle nostre scuole d’arte, dove si imparava la chimica del colore, le dosi, il mescolaggio e tutto il resto ereditato dall’alchimia delle corporazioni e dai segreti massonici, ora non si insegna più niente di questo: ci sono gli standard e le buste di colori che somigliano a quelle della gazzosa.

Stage di studentesse pugliesi all'Isittuto d'arte di S. Stefano di Camastra (ph. Nino Giaramidaro)

Stage di studentesse pugliesi all’Isittuto d’arte di S. Stefano di Camastra (ph. Nino Giaramidaro)

Il complesso di Middleport Pottery era diventato archeologia industriale, una grande cultura che aveva lasciato con le mani in mano molti maestri della ceramica che non sapevano fare altro. Sono intervenuti alcuni enti e organizzazioni governative, e persino il principe Carlo. Il complesso delle ceramiche conosciute in tutto il mondo è stato salvato e ha ricominciato a produrre. Noi non ci riusciamo, lasciamo che la ruggine e le erbe di vento cancellino questi ammassi di mattoni, ferraglia e colpe. Abbiamo anche sviluppato l’arte di costruire strade che sboccano nel nulla, edifici mai utilizzati, del comprare strumentazioni sanitarie o “taglia burocrazia” da nascondere in cantinati dimenticati. Regole del capitale, il quale non ha lacrime per i bisogni di uomini donne e bambini senza conto in banca. Riesce a versarne qualcuna, di felicità, sopra biglietti da molti euro. Mentre più nessun leader prende in considerazione l’utopia di Casals: «Occorre lavorare  – diceva il grande violoncellista e compositore catalano – tutti noi dobbiamo lavorare affinché il mondo sia un luogo degno dei nostri figli».

Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate in occasione del terremoto del 1968 nel Belice.
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