Stampa Articolo

Gli altri Partigiani, la Resistenza altra

copertinadi Simone Casalini

Le biografie sommerse, o subalterne come le definirebbero gli autori postcoloniali, possono aiutarci a ridisegnare alcuni profili della Storia, ad arricchire un paesaggio storiografico spesso piegato alla narrazione del potere (l’Occidente in primis), a insinuare una crepa nell’idea di un flusso omogeneo e immutabile di fatti e teorie in cui l’Altro non abita alcun luogo. Le biografie sommerse, ancora, ci restituiscono il senso di una molteplicità e di una differenza che incrina il racconto contemporaneo razzista e, se proprio non lo allontana, traccia l’itinerario di una nuova verità storica, e non solo. Perché, come scriveva Michel Foucault, «la verità non è mai il medesimo» e «non può esserci verità che nella forma dell’altro mondo e della vita altra».

Ne è un esempio l’attenzione storiografica e il (tardivo) riconoscimento della soggettività dei tirailleurs sénégalais, l’insegna che raggruppava principalmente i fucilieri africani e gli altri sudditi coloniali della Francia (vietnamiti, laotiani, cambogiani, polinesiani, eccetera) che combatterono durante la prima e la seconda guerra mondiale dei conflitti a loro estranei. Perirono in gran numero, nel 1915-19 in scontri drammatici contro i tedeschi come sul Chemin des Dames, nel 1943-45 oltre cinquemila infoltirono la Resistenza francese contro il nazifascismo. Storie che in Francia sono transitate dalla rimozione al (parziale) riconoscimento come al cimitero Trabuquet di Mentone che ospita le spoglie di 1137 tirailleurs deceduti durante la Grande guerra – riesumati e identificati a distanza di anni grazie all’impegno di un professore franco-senegalese, Gaspard Mbaye – divisi in quattro quadranti con le steli della loro identità religiosa, primariamente la mezza luna islamica.

Queste “controstorie” hanno avuto anche in Italia una loro importante fenomenologia, in particolare con l’esperienza partigiana della Banda Mario che ha trovato una felice ricostruzione filologica, oltreché storica, nel prezioso lavoro di Matteo Petracci, Partigiani d’oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana (Pacini editore). Sono i loro profili fotografici – i somali Aden Scirè e Mohamed Raghé, gli etiopi Thur Nur e “Carletto” Abbamagal –, seppure ritratti in tempi e contesti diversi, che aprono la narrazione di un’esperienza della Resistenza meno conosciuta, ma non per questo meno rilevante. E il libro si chiude, come se fosse un racconto circolare, con il rinvenimento da parte di Petracci della tomba di Abbamagal, ucciso da una scarica di mitra nel novembre 1943, tre settimane dopo la sua adesione alla Banda Mario, e una mail della figlia di Aden Scirè (scritta all’autore), rientrato dopo la fine del conflitto in Somalia e diventato Ministro degli affari religiosi e della giustizia prima di cadere in disgrazia sotto la dittatura di Siad Barre. È il passato che si riannoda al presente, che offre una profondità normalmente elusa dall’appiattimento del racconto coevo e dall’oblìo.

1

La foto è stata scattata tra il 28 ottobre e la fine di novembre 1943 nel complesso abbaziale benedettino di Santa Maria de Rotis e ritrae un gruppo di partigiani della Banda Mario. In alto a destra il somalo Aden Scirè (o Aaden Shire Jaamac)

Quello della Banda Mario, definita da uno dei suoi componenti, John Cowtan, «a very mixed bunch» (un gruppo molto eterogeneo), è un esempio di “internazionalismo partigiano” perché al suo interno convivevano uomini e donne di differenti appartenenze nazionali (inglesi, russi, polacchi, slavi, etiopi, somali, eccetera) che si esprimevano in più di dieci lingue e che professavano diverse fedi religiose (ebraica, cristiana con le diverse varianti e musulmana) al netto di atei e agnostici. Appartenevano «a quella schiera di untermensch, sottouomini, che nei progetti nazisti di ridefinizione razziale dell’Europa dovevano essere eliminati o resi schiavi» ed erano accomunati dalla resistenza a questo disegno di morte e distruzione anche se non mancarono segni di diffidenza nelle fasi iniziali verso i partigiani neri e la loro affidabilità perché il colore della pelle, l’alterità sono questioni oggetto di continua elaborazione.

L’alchimia meticcia che si condensò a Monte San Vicino, nelle Marche, individua la sua genesi nella Mostra dei Territori d’oltremare organizzata a Napoli nel 1940 che aveva lo scopo «di presentare al pubblico i risultati della “missione civilizzatrice” dell’uomo bianco, oltre che favorire la “volgarizzazione delle teorie sull’ordine gerarchico delle razze”». Il fascismo esibiva le conquiste coloniali, l’espansione oltreoceano dei propri interessi e quella “missione civilizzatrice” che aveva investito Etiopia e Eritrea (con 275mila caduti nell’esercito del Negus) e umiliato le vite delle popolazioni locali.

Verso Napoli si mosse una delegazione di indigeni, l’attrazione esotica del Mto, composta di sessanta persone tra donne, uomini e bambini. E più precisamente: quattro eritrei, dodici somali, nove scioani, diciannove “galla”, nove amara e un harar. Insieme a loro viaggiavano, oltre ad ascari e personale fascista, anche due sciarmutte, cioè due prostitute indigene che avevano uno scopo semplice: soddisfare i desideri dei giovani maschi neri evitando il nascere di relazioni sessuali o affettive («sempre oggetto di condanna sociale») tra donne bianche e uomini neri. La legislazione fascista le aveva vietate con le leggi razziali del 1937 considerandole “rapporti contro natura” perché non garantivano la subalternità del partner colonizzato e inquinavano la purezza della razza.

La Mostra venne inaugurata il 9 maggio 1940, ricevette 450mila visitatori in un mese (ma il commissario Vincenzo Tecchio ne contrabbandava un milione in una lettera a Mussolini) per poi rifluire a causa dell’entrata in guerra dell’Italia. Quella che doveva essere una sospensione temporanea si tramutò in una chiusura definitiva, schiudendo una nuova storia per i sudditi coloniali e gli ascari al seguito. Sospesi tra i regimi di ospitalità e prigionia, rimasero tre anni ancora a Napoli con patimenti e perdite umane, reiterando le proteste per le condizioni di privazione. Qualcuno intercettò qualche ingaggio nel mondo del cinema, ma la maggior parte della comitiva rimase inattiva.

La svolta avvenne all’inizio del 1943 quando la Direzione generale affari politici del Ministero dell’Africa italiana individuò a Treia, nelle Marche centrali, Villa “La quiete” (più nota come Villa Spada). Il 9 aprile somali, eritrei ed etiopi (in tutto 58 persone) entrarono nella nuova dimora anche se le condizioni igienico-sanitarie, nonostante i lavori effettuati alla struttura, rimasero precarie. Il 25 luglio Mussolini venne arrestato e destituito, l’8 settembre venne siglato l’armistizio mentre il duce, liberato dalla prigionia di Campo imperatore, fondò la Repubblica sociale italiana. Nella contesa del territorio tra la Resistenza e le milizie nazifasciste prese corpo l’esperienza internazionale partigiana, agevolata dal consenso dei contadini e più in generale della popolazione, e da un felice incrocio di valori e casualità.

abbamagal1

Un gruppo di partigiani della Banda Mario con al centro “Carletto” Abbamagal

Gli etiopi Mohamed Abbasimbo, Scifarrà Abbadicà e Abbagirù Abbanagi – raggiunti dopo venti giorni da Addis Agà – furono i primi a lasciare Villa Spada e a portarsi nella zona di Monte San Vicino dove, era stato detto loro, avrebbero trovato un gruppo partigiano. Era quello raccolto intorno alla figura di Mario Depangher che stazionava a Valdiola, mentre un altro si era situato presso l’antica abbazia di Roti. Uno dei primi atti della nuova congiunzione di forze antifasciste fu l’assalto a Villa Spada per sottrarre armi e bombe al presidio della Polizia dell’Africa italiana e sollecitare nuove adesione. I neri che si unirono alla Resistenza salirono a dieci per poi arrivare a quindici.

La Banda Mario si era così costituita come il contributo degli affluenti ad un fiume. Uno di questi proveniva dalla Gran Bretagna (i prigionieri di guerra come il capitano Anthony Payn, il tenente John Cowtan, il sergente scozzese Ginger Douglas Davidson che era nel gruppo Roti, e altri ancora), poi c’erano gli affluenti jugoslavo (il gruppo Roti era guidato dal misterioso Popavic), sovietico (con anche due donne: Lidia Stooks e Maruska Miraslava), polacco (monorappresentato da Szmul Eljasz Goldsztain), dell’Europa dell’Est e naturalmente africano. Monte San Vicino non fu una casualità, ma era baricentrico tra Villa Spada e i campi di prigionia e internamento dell’Italia centrale, e con le sue caratteristiche offriva un valido riparo ai partigiani. In più c’era un sostrato sociale, soprattutto contadino, che proteggeva le azioni di resistenza e una rete di collaborazioni estesa che comprendeva anche i sacerdoti don Lino Ciarlantini – che ospitò nella sua canonica alcuni ex prigionieri – e don Enrico Pocognoni. L’eterogeneità della Banda Mario individuò un suo punto di sintesi nella figura del comandante Mario Depangher che da combattente internazionalista e antifascista seppe «trasformare quella babele di culture e idiomi in una formazione militare».

Depangher era stato al confino a Lipari, prima di scappare in Unione Sovietica. Ritornò, rimanendo in altalena tra attività antifascista e carcere fino alla costituzione della Banda che raggiunse i duecento effettivi. Si strutturò con vicecomandanti e commissari di guerra che per le comunicazioni utilizzavano la lingua italiana «che in molti erano in grado di intendere e parlare», come testimoniano i documenti dell’epoca.

Le azioni della Banda Mario furono continue, in una di queste a Frontale cadde “Carletto” Abbamagal. Mohamed Raghé venne invece falciato da una scarica di mitra mentre era di sentinella a Vallepiana e si era mosso per avvertire i suoi compagni della presenza nazifascista. Don Enrico Pocognoni fu giustiziato poco dopo, mentre Depangher decise di disperdere tra i monti il suo gruppo quando nazisti e fascisti si diressero verso l’abbazia di Roti. La diaspora durò poco e nell’ultima parte del conflitto, dopo il marzo 1944, s’inasprì l’atteggiamento verso i collaborazionisti e la componente africana ebbe un ruolo anche nelle esecuzioni. Proprio questi venivano definiti come “quanto mai feroci” nei dispacci fascisti. Scrive Petracci che

«dismessi i panni di fedeli ascari o di docili abitanti degli altipiani, e rifiutata la cultura che li aveva civilizzati, nel farsi neri i partigiani erano regrediti allo stato “primitivo”. Per tale motivo tornano ad essere associati a tratti ferini e di crudeltà disumana. (…) Lo stesso registro linguistico sarà utilizzato ancora negli anni successivi alla Liberazione, quando l’Italia era diventata una Repubblica, testimoniando come gli stereotipi razzisti funzionali al colonialismo fascista abbiano resistito al fascismo stesso».

3Anche se forse, ad un’osservazione attenta, non può sfuggire che il razzismo, il senso di superiorità, la rappresentazione animale dell’Altro sono procedure ancora più profonde e interne alla cultura occidentale, compresa quella illuministica, che il fascismo ha poi condotto alle derive teoriche e pratiche più estreme.

Il primo luglio 1944 la Banda Mario fece il suo ingresso a San Severino Marche, ventiquattro ore prima dell’arrivo dei polacchi. E dopo la liberazione Depangher venne nominato sindaco. «A questo punto, la Resistenza delle donne e degli uomini che avevano combattuto nella Banda Mario poteva dirsi conclusa». Gli Alleati si occuparono dei rimpatri dei partigiani neri.

L’appendice finale contiene l’ultima cucitura dell’ordito di Petracci: il ritrovamento della tomba di Carletto Abbamagal in un cimitero di San Severino – mediante estumulazione – dove giaceva insieme alle esequie di partigiani jugoslavi. Due mesi dopo il Comune ne ha fissato per sempre la memoria con una lapide: «Carlo Abbamagal. Nato ad Addis Abeba. Morto sul Monte San Vicino il 24 novembre 1943. Etiope. Partigiano del battaglione Mario insieme ad altri uomini e donne provenienti da tutto il mondo. Caduto per la libertà d’Italia e d’Europa». Come il somalo Aden Scirè (all’anagrafe Aaden Shire Jaamac) di cui la figlia, da Londra, cercava informazioni in relazione alla sua esperienza italiana. Una foto condivisa e riconosciuta in rete è diventata il ponte tra l’autore e Shukri Aaden Shire, di incontri e di ricostruzioni biografiche che entrano a pieno diritto nella nostra storia. O forse il principio di un’altra Storia.

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Riferimenti bibliografici
Pierre Bouvier, La longue marche dei tirailleurs sénégalais de la grande guerre aux independances, Éditions Belin, Paris, 2018.
Simone Casalini, Lo spazio ibrido. Culture, frontiere, società in transizione, Meltemi, Milano, 2019.
Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Beat, Milano, 2014.
Marc Michel, Les Africains et la Grande guerre, Éditions Karthala, Paris, 2014.
Matteo Petracci, Partigiani d’Oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana, Pacini editore, Pisa, 2019.

______________________________________________________________

Simone Casalini, giornalista professionista, è caporedattore del Corriere del Trentino-Corriere della Sera e collabora con alcune riviste di politica internazionale (Eastwest e Dialoghi mediterranei), curando in particolare l’evoluzione sociopolitica della Tunisia e il tema delle migrazioni. È anche docente a contratto all’università di Trento. Si è laureato in Scienze politiche all’Università di Urbino. Ha pubblicato Intervista al Novecento (Egon, 2010) in cui attraverso la voce di otto intellettuali – tra i quali Sergio Fabbrini, Toni Negri, Franco Rella e Gian Enrico Rusconi – ha analizzato l’eredità del secolo breve e Lo spazio ibrido. Culture, frontiere e società in transizione (Meltemi, 2019). È coautore del libro collettivo La Trento che vorrei (Helvetia, 2019) e del documentario sulla primavera araba tunisina: Tunisia, nove anni dopo. La rivoluzione sospesa (2020, con Roberto Ceccarelli).

_______________________________________________________________

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Letture, Migrazioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>