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Dentro le cose. Tra erba e cemento nella primavera della Repubblica

Il paese industriale, Cinisello Balsamo, 1964 (ph. Ernesto Fantozzi)

Il paese industriale, Cinisello Balsamo, 1964 (ph. Ernesto Fantozzi, Museo di fotografia contemporanea, Milano-Cinisello Balsamo)

di Silvia Mazzucchelli

Scorriamo le immagini di Ernesto Fantozzi e possiamo indovinare, a seconda delle emozioni che ci suscitano, da quale era anagrafica proveniamo. Per i millenials e i nativi digitali, quelle fotografie hanno lo stesso effetto e svolgono la stessa funzione che i cicli di affreschi o i mosaici di Monreale o della Cappella Palatina potevano avere sulla plebe rustica e analfabeta, cioè essere la Bibbia dei poveri, supplire con la vista al non conoscere il latino e le lettere. Per i boomers, invece, hanno il sapore dolcemente doloroso del ricordo di un passato ormai remoto, travolto dal moto impetuoso che loro stessi hanno voluto, creato e cercato di governare.

Per chi, come Fantozzi, nasce nel 1931, e da balilla non aveva potuto sottrarsi al peso della retorica fascista, il bisogno impellente è quello di svincolarsi dal passato, andare oltre la soffocante autarchia del fascismo, allontanarsi dalla visione enfia e distorta della realtà. Durante gli anni ’60, già maturo e consapevole, quelle fotografie sono la testimonianza di una vita quotidiana desiderosa di chiudere velocemente con il Ventennio e aprirsi, candidamente, ingenuamente, al progresso, all’industria.

Milano, Davanti alla Tv, 1958 (ph. Ernesto Fantozzi)

Milano, Davanti alla Tv, 1958 (ph. Ernesto Fantozzi, Museo di fotografia contemporanea, Milano-Cinisello Balsamo)

Tre sono state le cose che lo hanno spinto a fotografare. La prima è la passione per il ciclismo, la seconda il trauma che prova quando vede in un cinegiornale americano le immagini di un campo di sterminio nazista, la terza l’attrazione verso il cinema, quello neorealista di De Sica, Antonioni e Visconti. In particolare, Fantozzi ricorda un dettaglio, la gonna di Clara Calamai che si era sollevata, rimpiazzando, nella sua immaginazione, la benda nera della retorica di regime.

Il paese industriale, Cologno Monzese, 1964 (ph. Ernesto Fantozzi)

Il paese industriale, Cologno Monzese, 1964 (ph. Ernesto Fantozzi, Museo di fotografia contemporanea, Milano-Cinisello Balsamo)

Per Fantozzi fotografare la realtà significa fotografare la vita che lo circonda. Non c’è enfasi nelle sue immagini, lo sguardo è di chi osserva, con semplicità e con la consapevolezza di essere testimone di un momento di svolta e di non ritorno.

Milano, Manovali in un cantiere di Corso Buenos Aires, 1962  (ph. Ernesto Fantozzi)

Milano, Manovali in un cantiere di Corso Buenos Aires, 1962 (ph. Ernesto Fantozzi, Museo di fotografia contemporanea, Milano-Cinisello Balsamo)

Si delinea dunque il rifiuto di un’immagine troppo irridente o troppo violenta. Il passato recente e gli orrori della guerra appena finita restano fuori, il suo è un tentativo di liberarsi dagli eccessi del conflitto e dalle incrostazioni mediatiche del regime. È invece la vita ad essere al centro dello sguardo: le strade, i mercati, la città che si sta lentamente trasformando in metropoli. Prevalgono le immagini di carattere medio, dove medio non indica soltanto il livello tecnico prescelto, dunque l’assenza di inquadrature ardite, di contrasti accentuati, di particolari espedienti tecnici, poiché ciò che conta è mostrare il soggetto nella sua dimensione reale, senza accenti e sottolineature.  Ma suggerisce anche la posizione fisica del fotografo, in medias res, dentro le cose, come in un racconto verista, dove gli eventi affiorano spontaneamente sulla pagina.

Erba, Festa di un compleanno di una teenager (ph. Ernesto Fantozzi)

Erba, Festa di un compleanno di una teenager (ph. Ernesto Fantozzi, Museo di fotografia contemporanea, Milano-Cinisello Balsamo)

La penna dello scrittore viene sostituita dall’inseparabile Leica, maneggevole, veloce, discreta. Fantozzi è il reporter dal fronte della ricostruzione e non da quello della distruzione. «Il suo scatto è solo un incipit di ciò che avviene fuori di esso, ma soprattutto dopo di esso; non congela il tempo ma lo prolunga nella lettura, nell’empatia di chi legge», scrive l’amico Luigi Erba. Le sue fotografie non bloccano lo scorrere del tempo in cui l’evento fotografato è esistito. Guardando un’immagine di Fantozzi si ha la sensazione contraria: non c’è arresto, bensì movimento. Il flusso temporale non s’interrompe, e l’evento fotografato non è al passato, bensì al presente.

Il paese industriale, Cologno Monzese, 1964 (ph. Ernesto Fantozzi)

Il paese industriale, Cologno Monzese, 1964 (ph. Ernesto Fantozzi, Museo di fotografia contemporanea, Milano-Cinisello Balsamo)

«Noi eravamo irrequieti, eravamo tentati di passare al professionismo; ma non potevamo per ragioni anagrafiche, per carichi familiari. E così decidemmo di fotografare Milano, la nostra città, a poco a poco metodicamente, in alternativa agli estetismi da “Foto-salone” e naturalmente in alternativa alla fotocronaca dei giornali…».

L’occhio è infatti su Milano, ma, a parte un certo anticipo sui tempi, le immagini possono essere di una qualunque altra parte d’Italia. Lo sguardo è attento a percepire qualcosa che è già nell’aria, spira come uno spirito del tempo, l’analogo impolitico e lucrativo del potente ma passeggero vento del nord

Il ragazzo della via Gluck, di Adriano Celentano e del suo Clan, è la colonna sonora di questo processo. Moltissime delle foto di cui parliamo sono leggibili in chiave di contrapposizione tra erba e cemento, con quest’ultimo che incombe, letteralmente, dallo sfondo. A Ernesto Fantozzi, in questi paesaggi di esemplare crudezza e bruttezza, interessa l’ultimo diaframma, quello che cade quando si apre una galleria. È attento a cogliere il momento finale, epocale forse, in cui l’ultimo mulo smetterà di arare, l’ultimo campetto di calcio sarà lottizzato, l’ultima roggia prosciugata, l’ultimo prato cementato. Lo ha fatto da cronista, ed oggi sembra che lo abbia fatto da profeta.

Milano, Mercato ortofrutticolo di Viale Umbria, 1965 (ph. Ernesto Fantozzi)

Milano, Mercato ortofrutticolo di Viale Umbria, 1965 (ph. Ernesto Fantozzi, Museo di fotografia contemporanea, Milano-Cinisello Balsamo)

Oppure da intellettuale, un fotografo che si sostituisce a un Valerio Castronovo per raccontare la storia economica dell’Italia contemporanea. Il paese industriale di Fantozzi ingloba il “paese mio che stai sulla collina” di Paul Strand e si affianca alla Milano Metamorfosi di Carla Cerati che mostra il cambiamento della città dagli anni Sessanta fino alla morte di Moro, ma anche alla Milano calda di Giulia Niccolai, una città non solo laboriosa e grigia, ma dove è possibile divertirsi: fare il bagno all’Idroscalo, mangiare un gelato, andare in gita fuori porta, ballare il twist e lo shake.

Il paese industriale è l’hinterland milanese: Cinisello Balsamo, Cologno Monzese, Cusano Milanino, Desio, Cesano Maderno, Rho, in cui persistono elementi della tradizione rurale in contesti ormai decisamente urbani: le auto parcheggiate a bordo della carreggiata e il carretto con il cavallo usato ancora come mezzo di locomozione, il bar del paese che sulla porta d’entrata reca il cartello “Televisione”.

Milano, Rugby al campo Giuriati, 1961 (ph. Ernesto Fantozzi)

Milano, Rugby al campo Giuriati, 1961 (ph. Ernesto Fantozzi, Museo di fotografia contemporanea, Milano-Cinisello Balsamo)

Una foto, scattata a Cusano Milanino, riassume questa dicotomia. Un uomo ara il campo con il mulo, e sullo sfondo la ciminiera di una fabbrica divide in due il fotogramma, suggerendo l’avvento delle magnifiche sorti e progressive dell’Italia del Nord, ma al contempo, un moto quasi malinconico verso un tempo che sta scomparendo. Via Inganni, via Tertulliano, via Farini, viale Monza, via del Turchino, non sono solo le didascalie delle foto scattate a Milano, ma compongono una litania urbana, una filastrocca triste che accompagna le immagini di palazzi dai molti piani, di periferie anonime, di abitazioni senza identità che hanno sostituito le case di ringhiera.

Milano, Upim Vittoria, 1967 (ph. Ernesto Fantozzi)

Milano, Upim Vittoria, 1967 (ph. Ernesto Fantozzi, Museo di fotografia contemporanea, Milano, Cinisello Balsamo)

A Milano convivono l’ortomercato e la Upim. «Abbiamo ripreso per settimane i negozi Rinascente e Upim, lasciando sbalorditi gli uomini del loro marketing, non abituati ad un approccio visivo senza complessi come il nostro…» ricorda Fantozzi. E, in questo caso, la didascalia immaginaria potrebbe essere “W la merce!”. Montagne di occhiali da sole in cui affondare le mani ed il pensiero, immaginando una calda vacanza al mare, centinaia di cappelli deposti sulle mensole in attesa di essere scelti e indossati, montagne di abiti che le signore dai capelli cotonati avrebbero potuto sfoggiare in città.

“Ma dove vai bellezza in bicicletta, così di fretta pedalando con ardor?” Silvana Pampanini accende di desideri extrasportivi un fenomeno che sa già di epopea nazional popolare. Il fascismo aveva disdegnato l’umile bicicletta a favore dell’automobile, accompagnata dalla potente aura futurista. Del resto, le due ruote avevano una tradizione “sovversiva”, essendo usate dalle staffette dei lavoratori per i collegamenti durante gli scioperi prima del Ventennio, così come lo saranno per tessere la rete dei contatti tra partigiani.

Milano, Stadio San Siro, 1964 (ph. Ernesto Fantozzi)

Milano, Stadio San Siro, 1964 (ph. Ernesto Fantozzi, Museo di fotografia contemporanea, Milano-Cinisello Balsamo)

Il dopoguerra aveva dovuto rivalutarla come il mezzo più popolare, anche se non sempre alla portata di tutti. Chi non ricorda con commozione Ladri di biciclette di Vittorio De Sica? Il ciclismo che fotografa Fantozzi è giunto già nella sua fase matura, le gesta sportive di Coppi e Bartali si sono intrecciate con le note di costume e, addirittura, con le vicende politiche, se è vero che la vittoria di Bartali al Tour de France aveva evitato la guerra civile dopo l’attentato a Togliatti nel luglio del 1948. Il Giro d’Italia, negli anni ‘60 è seguito da radio e televisione, lo commentano grandi giornalisti tra cui Sergio Zavoli.

Milano è la città del ciclismo, da dove solitamente parte il Giro, ma la popolarità di questo sport, da queste parti, scaturisce dalla morfologia stessa del territorio, pianure per la velocità e montagne per le scalate. Fantozzi non fotografa i campioni, lo sport rilucente di gloria e denaro, si guarda attorno e vede ragazzi sognanti che si entusiasmano, atleti sofferenti per lo sforzo o addirittura caduti o infortunati. Non è ancora uno sport determinato del tutto da strategie di squadra, esiste ampio margine per l’espressione individuale, si può dire che il tifo è peer to peer.

mufoco_fantozziNel calcio, l’altro sport che desta l’interesse di Fantozzi, il campione è un primus inter pares, contano i colori della squadra, vince o perde il collettivo. Il suo interesse, tuttavia, non va sul campo, ma sugli spalti, a cogliere sguardi estatici, interrogativi, cupi, preoccupati per le sorti di un gioco di cui sono solo spettatori.

Nella scelta di privilegiare le espressioni e gli umori di una normalità quotidiana, al limite del banale, si deve ricercare il motivo ispiratore più profondo della poetica di Fantozzi, che è un umanesimo troppo recentemente scottato dalla guerra e dagli stermini per essere ottimista, e che però non si lascia disarcionare da derive umbratili o irrazionali. 

Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023

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Silvia Mazzucchelli, laureata in Scienze umanistiche, ha conseguito un master in Culture moderne comparate e un dottorato in Teoria e analisi del testo presso l’Università di Bergamo. Ha pubblicato due saggi dedicati alla fotografa e scrittrice Claude Cahun. Della stessa autrice ha curato Les paris sont ouverts (Wunderkammer, 2018) e scritto il saggio introduttivo per la traduzione in italiano del pamphlet. Ha collaborato con numerose riviste, fa parte della redazione della rivista on line Doppiozero. Da circa due anni sta conducendo uno studio analitico sul lavoro fotografico e poetico di Giulia Niccolai.

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