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Enigma e caos. Logos e cosmos

copertina buttitta di Antonino Buttitta [*]

Un discorso sull’enigma, come il racconto della Musa intorno a Ulisse, può cominciare da qualsiasi punto. L’esito sarà sempre lo stesso: polŷtropos, ordito e contraddittorio. Solo in parte questa impressione può essere riferita a inadeguatezza epistemica. In effetti la contraddizione che di fatto oppone nella nostra esperienza della realtà: essere vs apparire, immanenza vs manifestazione, risiede nel mistero di verità che si occulta e a un tempo si espone proprio nella sua sostanza enigmatica. Non a caso la sua luminosa oscurità si esprime nella luminosità oscura dell’Apollo delfico, dio della luce e nello stesso tempo ispiratore di oracoli, tanto più veri quanto più oscuri.

Significativamente l’enigma era la modalità comunicativa da Apollo privilegiata. I Greci ritenevano pertanto naturale che quando egli voleva rivelare i destini umani, si esprimesse metaforicamente in forma enigmatica (Iriarte 1990: 33).  Il problema posto dall’enigma è di fatto linguistico e attiene più alla forma e alla sostanza dell’espressione che alla forma e alla sostanza del contenuto. In ogni caso la lettura di un oggetto, situazione, messaggio enigmatici, dimostra come espressione e contenuto siano co-occorrenti tanto nel caso di messaggi formalizzati come in genere sono enigmi, indovinelli, oracoli, quanto nel caso di messaggi non formalizzati come presagi e sogni.

L’enigma, qualunque ne sia il supporto, è un messaggio in codice. La sua specificità, come aveva già visto Aristotele (Poetica: 26-30, Retorica, 3-5: 19-26) consiste nell’assegnare un significato diverso da quello comune ai singoli lessemi. La letteratura specialistica (Di Nola 1978) insiste sul fatto che lo scioglimento di un enigma non è un semplice esercizio di abilità mentale, come apparirebbe nell’indovinello che ne è una forma debole, ma una vera e propria prova. È il suo diverso esito a connotare in positivo o in negativo chi è chiamato a superarla, affermando nel primo caso il suo essere speciale. In molte fiabe infatti lo scioglimento di enigmi è di fatto proposto ai protagonisti come prova da superare per conseguire l’oggetto della loro ricerca. Agli eroi delle fiabe per la conquista di una sposa principesca possono essere richieste imprese a rischio della vita. Una di queste appunto è lo scioglimento di enigmi.

La ricorsività dell’enigma tanto nei miti quanto nelle fiabe è una spia del loro stretto rapporto. Un segnale già evidente è dato dal fatto che si tratta di una prova sostanziale. Un problema che parrebbe riguardare solo la forma e la sostanza del contenuto senza per niente interessare la forma e la sostanza dell’espressione. In realtà il punto è l’esatta collocazione semica di questo tipo di prova. Resta infatti da capire se si tratta di una azione attraverso la quale il personaggio si identifica e qualifica come eroe, come sembrerebbe in Edipo con la Sfinge o in Teseo con il labirinto (rappresentazione fisica dell’enigma), oppure di una prova risolutiva e dunque glorificante. Non è questione scolastica. In realtà nella sua soluzione consiste l’enigma rappresentato dall’enigma.

Si tratta di una modalità espressiva formalizzata della langue des dieux, secondo Bader (1989). Le parole dicono sempre più dei fatti perché i fatti degli uomini sono parole: come sapevano gli antichi occultandone il significato nel mito della Torre di Babele, già inteso da Schelling (Allwohn 1927; Dorfles 1967-90). La realtà umana infatti è linguistica o non è. I Greci avevano sostanzialmente tre parole per indicare la comunicazione: semaíno, per significare, ekphrázo, per mostrare, ainíssomai, da cui ainígma, per il parlare oscuro. L’ainígma parrebbe, dunque, il contrario del logos. Il corifeo nell’Orestea dopo aver opposto a Cassandra che i suoi enigmi, i suoi oscuri oracoli, lo confondono, qualifica tuttavia la profezia della veggente come logos. «La tua parola – logos appunto egli dice –  non mi illumina».

 Aiace e  Cassandra, ceramica vascolare a figure nere, 540 a.C., Berlino

Aiace e Cassandra, ceramica vascolare a figure nere, 540 a.C., Berlino

L’affermazione, quanto meno contrad- dittoria, è chiarita da quanto dice Eráclito. A proposito di Apollo egli afferma: «Il signore il cui tempio divinatorio è quello che si trova a Delfi, non dice (légei), né occulta (krýptei) ma invia segni (semaínei)» (Iriarte 1990: 60). Dunque comunica, sia pure secondo un suo codice. Eloquente il fatto che nell’Odissea ainíssomai traduce l’elogio che Ulisse fa dell’aedo Demodoco, proclamando che canta le vicende degli Achei «come se fosse stato presente»: curioso elogio che «esalta il sapere dell’aedo tenuto conto del suo non sapere» (Ivi: 69). Il suo ainíssomai di fatto non occulta ma rivela. È da notare che Esiodo per indicare il modo oracolare di esprimersi di Gea usa phrázo e non ainíssomai, mentre chiama i presagi autorevoli di Giove sémata (Ivi: 34-35). In ogni caso «Il savio intende sempre il dio che si esprime in termini oscuri (ainiktér) – dice Socrate – per lo sciocco i suoi insegnamenti anche se formulati in modo chiaro sono inutili» (Ivi: 59). Dal che in sostanza apprendiamo che l’enigma non è tanto un ostacolo alla comunicazione quanto un certo modo selettivo di comunicare.

L’opposizione di cui stiamo discutendo allora non è fra logos e non logos, senso e non senso, verità e mistero, ma fra forme di comunicazione disposte su piani diversi: una per pochi, l’altra per i molti, con il significato sociale che ne deriva. «A questo aspetto selettivo della parola enigmatica si riferisce esplicitamente Teognide quando confessa che il messaggio occultato nelle sue poesie è diretto a una minoranza composta dai nobili: “Che queste parole – egli dice – restino enigmatiche e oscure per me in onore dei nobili”» (Ivi: 60).

In sostanza semaíno, phrázo, ainíssomai più che indicare tre aspetti della comunicazione, dicono tre modi diversi del comunicare: tre diverse lingue: per indicare (semaínein), per dimostrare (phrázo), per rivelare (ainíssomai). Nell’Agamennone di Eschilo il messaggio di vittoria, che il principe greco invia con un segnale di fuoco, provoca in Argo, per noi inspiegabilmente, una diversa lettura. Mentre il coro pensa che il segnale semplicemente indica (semaínei), Clitennestra crede che annuncia (phrázei) la caduta di Troia (Ivi:56). A sua volta lo stesso Eschilo, nel Prometeo, attribuisce a questa figura mitica, il cui sapere deriva da Gea, il potere di significare, dimostrare, formulare enigmi. Nel fatto che di quest’ultima lingua egli si serva per parlare con Giove sta la risposta al nostro problema (Ivi: 57).

L’enigma, non diversamente dall’oracolo, dal presagio, dalla profezia, dal sogno, se può apparire espressione di una non lingua oppure di una lingua segreta, di un gergo, in realtà segnala uno slittamento isotopico del linguaggio. È un’altra lingua che appartiene a un’altra realtà: un mondo altro, capovolto rispetto al mondo visibile. Qui è da cercare il significato e successo del tema: dall’antico Egitto fino al XIX secolo nella letteratura e soprattutto nell’iconografia (El mundo á le reves, Le monde reversé, Il mondo alla rovescia). In esso il divenire dell’apparenza si dissolve nell’essere dell’immanenza, annullando ogni discrezione temporale e spaziale e facendo così emergere la verità ultima del cosmos. Ciò che è enigmatico, lo è perché è espresso in questa lingua: una lingua inscritta nella dimensione del diverso, dunque del sacro, che in quanto tale comunica, come ha inteso bene Bader, gli enigmi cosmici.

Clitennestra uccide Cassandra, kylix attica a figure rosse, part.

Clitennestra uccide Cassandra, kylix attica a figure rosse, part.

A Gea, prima profetessa di Delfi che rispondeva mediante enigmi, secondo Esiodo, si deve la creazione del linguaggio simbolico attraverso cui si esprime il sapere occulto da lei insegnato agli dèi. In sostanza, nei tempi arcaici, signifi- cativamente l’enigma era ritenuto l’unico mezzo comunicativo possibile delle divinità (Bader: 34). La lingua degli dèi aveva propri costrutti attraverso i quali venivano codificati i misteri cosmici (Ivi: 252). L’iconismo di questo linguaggio formulare, proprio anche degli indovinelli, è inteso solo da particolari individui, maghi, iniziati, personaggi mitici. È una lingua altra per individui altri, il cui specifico consiste proprio nell’alterità. Lo aveva inteso già Cesare quando a proposito del fatto che i Druidi non mettevano per iscritto i loro formulari, notava che una delle ragioni era proprio quod neque in vulgum disciplinam efferri velint.

Anche le situazioni stesse in cui questa lingua si esercita debbono avere una marcatura particolare. Ecco perché la sua efficacia si afferma in una dimensione comunicativa appartenente a  tempi e spazi altri. È questa la ragione per la quale le formule magiche, pena la perdita di valore, in diverse culture debbono essere trasmesse non solo a individui particolari, per esempio i nati di venerdì, ma anche in tempi del giorno e dell’anno speciali: in genere la mezzanotte del primo dell’anno.

La letteratura antropologica ha ipotizzato che il sacro, in particolare il magico, si manifestino mediante parole, gesti, fenomeni di significato zero (Miceli 1982). È certamente così per il profano. Ma ogni emergenza ierofanica, dal volo degli uccelli ai sogni, è mostrum, qualcosa dunque che si mostra proprio per essere decodificata da chi sa convertire un codice ignoto ai più in un codice noto. Questo è appunto il compito manifesto di chi è chiamato a decrittare enigmi. Se l’enigma non è il contrario del logos, se non è segnale di non senso e caos, non è cosmos che si presenta come caos a chi come noi appartiene, diversamente dalla Esterina montaliana, alla «razza / di chi rimane a terra». Possiamo intendere a pieno, così, l’enigma della lumaca di Esiodo. Nelle Opere e i giorni egli collega la lumaca al pene. Non si tratta di una concessione all’osceno ma, come notato da Bader, di un kenning. Il mitografo sta molto seriamente alludendo al mistero dei misteri: l’origine della vita. In modo niente affatto banale sta descrivendo il passaggio dal caos al cosmos, mediante il ricorso alla tecnica espressiva dell’enigma che ne è la metafora.

La sacerdotessa Pizia e l'oracolo di Delfi

La sacerdotessa Pizia e l’oracolo di Delfi, tondo di una kylix attica a figure rosse, 440 a.C.

Gli indovini Tanga nell’Africa del Sud, come altri in altre parti del mondo, si servono di un pugno di ossicini buttati a terra per rispondere agli interrogativi che vengono loro posti intorno alla vita e alla morte. Una volta disposte nel suolo queste ossa sono la boula, la parola. Il disegno che essi compongono nella sabbia è un microcosmo, una immagine del mondo (Paulme 1956: 147).  Un canto sacro siciliano di antica tradizione orale viene chiamato dalla gente Il verbo. Il suo incipit in tutte le varianti è sempre lo stesso: «Il verbo so, il verbo voglio dire, il verbo che lasciò nostro Signore». Quale sia questo verbo si apprende alla fine: è il Signore stesso. Il richiamo immediato è a Giovanni: «In principio era la Parola». Il nucleo concettuale è però molto più antico. Lo possiamo vedere in uno dei tanti componimenti mesopotamici sulla creazione, per esempio nell’Enūma Elīš, composto probabilmente intorno al 1125 a.C. in area sacerdotale, significativamente recitato o cantato in occasione della festa del nuovo anno, forse anche all’inizio di ogni mese (Lambert 1968):

«Quando di sopra non era [ancora] nominato il cielo,
di sotto la [terra] ferma non aveva [ancora] un nome,
l’Apsū primiero, il loro generatore,
Mummu [e] Tiāmat, la generatrice di tutti loro,
le loro acque insieme mescolavano,
abitazione [per gli dèi] non erano [ancora] costruite,
e le canne delle paludi non erano ancora visibili,
quando [ancora] nessuno degli dèi era stato creato,
ed essi non portavano [ancora] un nome, e i destini non erano stati destinati,
furono procreati gli dèi in mezzo a essi.
Lahmu e Låhamu furono creati e ricevettero il nome.
Le epoche divennero molte e crebbero».   (Furlani 1938: 39)

Ancor prima delle riflessioni di Aristotele sul valore del logos come marca dell’umano e fondamento della società, i Babilonesi avevano in sostanza identificato parola e realtà, facendo dipendere dalla prima l’esistere della seconda. L’assenza di nome equivaleva al non essere. Nell’incipit dell’Enūma Elīš  vediamo infatti che il passaggio dal caos alla creazione si opera quando le cose vengono nominate. Sono le parole che discretizzando il continuum del reale impongono il cosmos sul caos originario. Nominare dunque è creare.

In un altro testo a proposito di Marduk è detto: «Egli creò la creta e la estrasse dalla parete di canne, affinché gli dèi potessero abitare nella loro residenza preferita, / egli creò l’umanità. / Aruru creò il seme dell’umanità assieme a lui. / Egli creò le bestie di Sumuqan e gli esseri viventi della steppa; egli creò il Tigri e l’Eufrate e li fece scorrere nel loro alveo; / egli proclamò i loro nomi appropriatamente» (Pettinato 1988: 151). In maniera ancora più netta è detto della parola in un altro inno a Marduk:

«Di ciò che è fondato come il giorno, chi può definire l’essenza?
Della sua parola, che come il giorno è fondata, chi può definire l’essenza?
La parola del dio grande è come il giorno fondata: chi può definire l’essenza?
La parola che, in alto, pone i cieli in riposo,
la parola che, in basso, fa riposare la terra,
la parola degli Anunnaki, di distruzione,
la sua parola non ha indovino, non ha esorcizzatore,
la sua parola è un diluvio che avanza, non ha rivali,
la sua parola pone i cieli in riposo, fa riposar la terra!
La parola del Signore fa morire il cespuglio di canne nella sua maturità.
La parola di Marduk allieta la mèsse a tempo suo.
La parola del Signore è la piena che avanza, che rende tristi i volti.
La parola di Marduk è lo straripamento che rompe la diga.
La sua parola annienta i grandi santuari.
La parola di Bel è un soffio, l’occhio non la vede.
È un sogno che non si vede!
La sua parola è detta all’uomo nel dolore e allora l’uomo geme.
La sua parola, quando avanza silente, distrugge il paese.
La sua parola, quando avanza imponente, abbatte le case, getta il paese nel pianto.
La sua parola è un vaso sigillato: chi può definirne l’interno?
La sua parola fa sofferente la gente.
La sua parola, quando si innalza, fa soffrire il paese.
La sua parola, quando si abbassa, annienta il paese.
Alla sua parola i cieli nell’alto si calmano da soli. All’altezza appartiene la sua parola!» (Di Nola [cura], 1974: 27)
Odino in sella a Sleipnir. Illustrazione di Ólafur Brynjúlfsson dal manoscritto islandese del XVIII secolo Sæmundar og Snorra Edda

Odino in sella a Sleipnir, illustrazione di Ólafur Brynjúlfsson dal manoscritto islandese del XVIII secolo (Sæmundar og Snorra Edda)

Di fatto la parola è lo strumento della creazione. Nella parola consiste il potere di Dio. Ha un significato ben preciso quanto leggiamo in Genesi: «Egli disse “sia la luce” e la luce fu». Da qui alla identificazione della parola con Dio la distanza logica è immediata. Il significato di questo percorso mentale e i suoi esiti nella cultura religiosa dell’Oriente antico, si colgono appunto nella loro pienezza nell’incipit di Giovanni. Né si dimentichi che in Genesi è Adamo a dare i nomi agli esseri viventi.

In sostanza, se attraverso la parola si compie l’atto della creazione ed è la creazione stessa, estrarre la parola che si occulta nell’enigma, interpretarla significa convertire il caos nel cosmos, il disordine nell’ordine, l’oscurità in luminosità, l’ombra degli inferi nella luce dei cieli, cioè la morte in vita. Questa è la prova delle prove, a un tempo qualificante e glorificante, che l’eroe mitico è chiamato a superare. Lo intendiamo bene dalla Canzone di Vafthaudhinir dell’Edda. Quando Odino vuole mettere alla prova l’eroe appunto gli chiede:

«Innanzi tutto dí questo se hai
prima intelletto abbastanza
e tu Vafthaudhinir, sai:
la terra da dove provenne e il cielo in alto?
saggio gigante, all’inizio dei tempi?
Disse Vafthaudhinir:
Dalla carne di Ymir la terra fu creata
e i Monti dalle ossa;
e il Cielo dal cranio del gigante gelido di brina
e dal sangue il Mare».  (Scardigli 1982: 50)

L’enigma proposto è un enigma cosmico, si riferisce al mistero della creazione. Dalla stessa natura sono gli enigmi che la Sfinge chiama Edipo a sciogliere. Come tutte le figure mitiche la Sfinge è ambigua, può dare la vita, ma dà la morte a chi, mostrando di ignorare i segreti della creazione, ignora il cosmos dunque non appartiene alla vita. L’enigma, allora, non è un espediente generico del pensiero mitico. In quanto codificazione formale dei miti di fondazione del cosmo, sta a fondamento di ogni cosmogonia e ne afferma il senso ultimo. Espone e sublima l’opposizione radicale: morte vs vita. È quanto figurativamente espresso dal Dio salvatore che mortem moriendo destruxit, vitam resurgendo reparavit. Rifondando la vita attraverso la morte, egli infatti dimostra di sapere e potere ricondurre il caos al cosmos. Chiunque venga chiamato a risolvere enigmi pertanto sia pure in versione debole, appartiene a questo orizzonte semiotico. È, sia pure inconsapevolmente, partecipe della fondazione e rifondazione della realtà stessa.

L’idea dell’enigma come segnale di una situazione irrisolta di angoscia, per quanto fortunata in ambito psicoanalitico, non trova alcuna conferma in ambito storico-religioso. Non sta né in cielo né in terra inoltre la letteratura di matrice femminista dell’insistito rapporto tra enigmi e femminilità, inteso come maschilista rappresentazione negativa e minacciosa della donna. Si è scritto che «la concezione della donna come veicolo privilegiato del linguaggio enigmatico» (Iriarte: 34) deriva dalla associazione apparentemente logica, di fatto ideologica, tra donna e tessitura, dunque intrigo, mistero e menzogna. Nel caso di Cassandra e della Sfinge sarebbe addirittura figurazione di sciagura e di morte. Si dimentica Tiresia per restare nello stesso orizzonte e, guardando altrove, le minacciose e enigmatiche profezie bibliche tutte di parte maschile.

Il significato stesso dell’enigma come manifesto del mistero delle origini della vita, porta ovviamente ad associarlo alla donna come soggetto attivo e rappresentazione simbolica della creazione. Basta ricordare il valore dell’eros nelle culture arcaiche, per capire perché molti enigmi e indovinelli sono osceni. Anche per questo lo scioglimento degli enigmi della Sfinge fa di Edipo un eroe portatore di vita. Cassandra non minaccia il futuro, più semplicemente lo vede e anticipa grazie al dio che parla in lei. L’associazione enigma/femminilità non segnala dunque una rappresentazione negativa della donna, bensì la sua capacità di accedere alla sfera sacra in quanto soggetto della creazione.

Edipo e la Sfinge, kylix attica a figure rosse, 480-470 a.C.

Edipo e la Sfinge, kylix attica a figure rosse, 480-470 a.C.

Essenziale è il rapporto tra enigma e poesia. In quanto manifestazione della «lingua degli dèi» l’enigma è indissociabile a livello fonico dalla musica e a livello comunicativo dalla metafora. Nelle cronologie antiche infatti è il suono all’origine di ogni cosa (Parodi 1988: passim). Nella mitologia mesopotamica Mummu, il murmure appunto, precede la creazione. Nella Bibbia è la voce di Dio. Attraverso il ciuringa (rombo) degli Arunta dell’Australia e il ramsinga dei Sik dell’India, solo per fare degli esempi, si segnala la presenza degli dèi. Il sacro in sostanza presso molte culture si manifesta attraverso il suono. Melodia e ritmo si associano all’enigma attraverso la metrica, la recitazione, il canto. La metafora è il dispositivo retorico che consente di trascorrere dal divenire della realtà ordinaria e visibile allo straordinario dell’essere invisibile: dal mondo degli uomini a quello degli dèi.

Questa è la ragione per cui fin dalle attestazioni più antiche l’enigma si accompagna alla poesia. I poeti parlano la lingua degli dèi, anzi sono gli dèi che parlano attraverso di loro. Da qui le insistite iniziali invocazioni alle Muse cioè a Apollo che, non a caso, è dio degli oracoli oltre che della poesia. È questa la ragione per cui nei tempi arcaici si credeva che il sapere divino si esprimesse attraverso la poesia. Significativamente per Esiodo il poeta è colui che trasmette agli umani «ciò che sarà ciò che fu» (Iriarte 1990: 37).  Di fatto presso molte culture, non solo quella greca, il poeta è un vate, cioè un veggente. È cieco perché vede l’invisibile. Grazie alla sua conoscenza della lingua sacra, egli trascende il tempo e vince la finitezza della vita degli uomini trasponendola in memoria, una dimensione, come insegna Agostino (Confessioni, De Magistro), nella quale si dissolvono e sublimano in eternità passato, presente e futuro. Questo faceva del poeta, secondo i Greci, il signore della memoria e dell’oblio. La sua lingua che è nominale e enumerativa (Bader 1989: 267), come spesso quella delle fiabe, converte i misteri del cosmo in enigmi formali (Ivi: 270-71).

La poesia come l’enigma è parola che crea attraverso procedure di dilatazioni fonematiche e lessematiche, dispositivi sonori e semiotici formali e formalizzanti.  Snorri Sturluson nell’Edda in prosa insegnava agli scaldi che il segreto del poetico consiste nella metrica e nella metafora. Non era consiglio disatteso. I kenningar della poesia scaldica sono la dimostrazione della connessione esibita tra enigma e poesia. Il kenning, che deriva da kenna (esprimere), è infatti una forma speciale di metafora. È una sorta di perifrasi che consiste in «una espressione bimembre in cui il primo elemento offre la determinazione e il secondo il valore fondamentale, ma il cui significato è direttamente estraneo a ciascuno dei due membri» (Mastrelli 1982). Una struttura linguistica tipica della letteratura religiosa indoeuropea fin dalle origini, che si suppone sia da riferire alla volontà di sostituire parole ritenute tabù (Ivi; Lazzeroni 1957, 26:1-25).

I kenningar, in sostanza, si presentano come sequenze enigmatiche e sono un ostentato esercizio di abilità inventiva dei loro creatori. Nello stesso tempo però richiedono analoga abilità nell’interprete e di fatto lo mettono alla prova. Poiché il superamento di questa prova sostanzialmente consiste nel dare nome alle cose, equivalente a farle esistere, lo scaldo restituisce alla poesia, secondo il significato stesso della parola, il suo valore demiurgico originario. Quello del poeta è un dire che crea. Egli sa le storie del mondo, gli avvenimenti, i luoghi, gli attori. Di ciascuna cosa conosce il nome. Attraverso le sue parole le cose rivivono e continuano a esistere, in quanto eterno presente della memoria. In questo consiste la sua sacralità, non nel fatto che narra di dèi o perché essendo cieco vede l’invisibile. Sono questi i segnali della sua condizione, non l’essenza. Le sue facoltà demiurgiche spiegano la sua familiarità con l’ignoto, con il mistero, con il caos. La ricerca del lontano, del vago della parola “desueta”, tratto distintivo della poetica leopardiana, è in fondo un recupero inconsapevole della idea originaria del poetico. Così è nei creazionisti spagnoli, nei simbolisti e nei parnassiani francesi, nella nostra poesia ermetica. Non è un caso che l’ermetismo dei poeti fin dai più lontani tempi, come ha osservato Bader, sia «una forma estrema della veggenza secondo una di quelle coincidentiae oppositorum tipiche del pensiero mitico» (Bader 1989: 270).

G. Moreau, Esiodo e la Musa, 1857

G. Moreau, Esiodo e la Musa, 1857

La forza mitopoietica della poesia consente così a Esiodo di spiegare la creazione mediante una lumaca, e al saggio Ogotemmeli, del Dio d’acqua di Griaule, di comporre il disegno del cosmo attraverso una gallina in una vecchia cesta sfasciata (Griaule, 1968). La stessa forza, in grande anticipo su Interflora, ha potuto far vedere a un giovane conte, mentre i contadini, giusto in territorio di Recanati come recitano le carte, erano afflitti da pellagra, gozzismo e fame, una improbabile donzelletta tornare leggiadramente dai campi con in mano un mazzolino di fiori di stagioni diverse.  È in questo modo che i poeti riescono per vie enigmatiche a ricomporre l’enigma del mondo.

Nelle società arcaiche, in conclusione, lo scioglimento di enigmi costituiva una delle prove da superare per passare da uno status all’altro e, in senso più generale, per la piena integrazione nel contesto sociale. Questo era indubbiamente il suo valore. Risulta non sufficientemente chiara, tuttavia, la qualità ideologica di tale prova e il perché a essa sia demandato questo potere. In altre parole, non è stato ancora individuato, in termini non questionabili, il significato profondo sotteso alla struttura degli enigmi e per quale ragione attraverso il loro scioglimento i singoli soggetti definiscano la loro identità.

Nella tradizione culturale dell’Occidente fin dai tempi più antichi il potere di trasformare il caos  nel cosmos, di creare la vita, di far emergere l’umano dall’oscuro abisso di un orizzonte senza spazio e senza tempo, apparteneva al logos, alla parola parlata perché energia creatrice e ordinatrice.

Di fatto anche per noi ogni qual volta ciascuna cosa assume un nome emerge dall’ignoto, si dissolve il mistero che l’avvolge, vive. Ha un senso profondo pertanto anche ora l’incipit di Giovanni: «In principio era la Parola, e la Parola era presso Dio, la Parola era Dio. Per mezzo di essa furono fatte le cose tutte: e senza di essa nulla fu fatto di ciò che è stato fatto. In essa era la vita e la vita era la luce degli uomini». Senza alcuna intenzione blasfema possiamo dire allora che Dio è tale perché mediante la parola, e lui stesso è parola, scioglie il grande enigma in cui consiste l’universo, trasformando l’ignoto nel noto, il caos nel cosmos, la morte in vita.

Agli eroi del mito è dato sciogliere enigmi meno radicali e definitivi, pur partecipando anche essi alla costruzione dell’universo simbolico in cui, in definitiva, consiste la nostra vita. Ai bambini non si chiede di essere eroi ma uomini, di possedere, cioè, frammenti di logos: quanto basta per esplicitare e controllare il microuniverso in cui sono chiamati a vivere. Ecco, quindi, per loro l’indovinello: una forma più semplice di enigma. In particolare gli indovinelli osceni, ricordano la sottile connessione originaria che esisteva tra l’una e l’altra forma. Ciò che a noi appare osceno era aspetto essenziale del sacro. La sua ritualizzazione perseguiva il fine di promuovere la rigenerazione della natura e della società. In questo senso quindi anche gli indovinelli osceni assolvevano una funzione identica a quella dell’enigma: richiamando l’eros affermavano l’ordine della vita sul disordine della morte.

Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
[*] Per gentile concessione dell’Autore e dell’Editore si pubblica il saggio contenuto nel denso volume di Antonino Buttitta, Mito fiaba rito, appena stampato da Sellerio nella collana Nuovo Prisma.
Riferimenti bibliografici
Allwohn A., Der Mythos bei Schelling, Pan-Verlag Rolf Heise, Charlottenburg 1927,
Aristotele, Politica, trad.it.V. Costanzi, Laterza, Bari 1948.
Bader F., La langue des dieux ou l’hérmetisme des poètes indo-européens, Giardini, Pisa 1989.
Di Nola A. M., (a cura di), Dal Nilo all’Eufrate. Letture dell’Egitto, dell’Assiria e di Babilonia, Edipem, Novara 1974.
Di Nola A. M., Enigma, in Enciclopedia, 5, Einaudi, Torino, 1978: 439-462.
Dorfles G., L’estetica del mito. Da Vico a Wittegenstein, Mursia, Milano 1967-1990.
Furlani G., Miti babilonesi e assiri, Sansoni, Firenze 1938.
Griaule M., Dio d’acqua, Bompiani, Milano 1968.
Iriarte A., Las reds del enigma. Voces femeninas en el pensamiento grieco, Taurus Humanidades, Madrid 1990.
Lambert W. G., Myth and ritual as Conceived by the Babylonians, in «Jornal of Semiotic Studies», XII (1968), n.1: 107 sgg.
Lazzeroni R., Lingua degli dèi e lingua degli uomini, ASNS, Pisa 1957.
Mastrelli C. A., L’Edda.Carmi norreni, pref. Pettazzoni R., Sansoni, Firenze 1982.
Miceli S., In nome del segno. Introduzione alla semiotica della cultura, Sellerio, Palermo 1982.
Parodi B., Architettura e mito, Pungitopo, Marina di Patti 1988.
Paulme D., Oracles grecs et devins africains:à propos de “L’oracle de Delphes” par M. Delcout, in «Revue de l’historie des religions», 149, 1956: 145-156.
Pettinato G., Babilonia centro dell’universo, Rusconi, Milano1988.
Scardigli P., (a cura di), Il canzoniere eddico, Garzanti Milano, 1982.

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Antonino Buttitta, docente emerito dell’Università di Palermo dove ha insegnato Antropologia culturale e Semiotica. È stato preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dal 1979 al 1992. Ha fondato e diretto numerose riviste, tra le quali: Uomo&Cultura, Nuove Effemeridi, Archivio Antropologico Mediterraneo. Tra le sue opere si segnalano: Cultura figurativa popolare in Sicilia (1961); Ideologia e folklore (1971); La pittura su vetro in Sicilia (1972); Pasqua in Sicilia (1978); Semiotica e antropologia (1979); Il Natale. Arte e tradizioni in Sicilia (1985); Percorsi simbolici (1989) L’effimero sfavillìo. Itinerari antropologici (1995); Dei segni e dei miti. Un’introduzione all’antropologia simbolica (1996), Il mosaico delle feste (2003); Orizzonti della memoria. Conversazioni con Antonino Cusumano (2015).

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