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Emanuele India e la gloria del fare

 

Opera su cuoio di Emanuele

Opera su cuoio di Emanuele India, colori e pennello

di Aldo Gerbino

Il tessuto operativo di Emanuele India coincide perfettamente con la sua umana natura; un tessuto mosso nel bagno di una preponderante atmosfera spirituale in cui luce e suono, il tinnire pervadente dell’universo e il richiamo sacrale della parola, assumono significati necessari per quel suo essere elemento proteso verso l’intimità di una ricerca offerta, sin dal 1975, a piene mani in una battente pedana di verifica.

Un artista che agisce in virtù di un’esigente volontà già manifesta sul piano della posizione dei segni, con precisi marchi (animati da forza e tenacia) posti sulla materia senza però far notare l’estenuante fatica necessaria all’approdo visuale. Così accade sulle superfici in cui egli ha deciso di operare: in particolare il cuoio inciso e punzonato su tavola e le auree ageminature accompagnate dalla pittura ad olio. Emanuele appare, dunque, visibilmente legato all’urgenza di costituire su tali estensioni creative quel trascinamento che potremmo chiamare luministico con il quale sfrutta, non soltanto la disposizione di materie plurime che compongono la compiuta architettura dell’opera, piuttosto, proprio attraverso esse, per captare accesi segnali fotonici. Un potenziamento, nell’efficacia del rimando, dello scattering, del voler permettere un’apertura alle molteplici rifrangenze della luce al fine di rivelarne, manzonianamente, lo spettro cromatico, o ancor più nel sottintendere alla natura delle cose, alla fascinazione delle superfici elaborate e faticosamente percorse dal movimento digitale delle mani.

Ho sempre apprezzato un’incisione di Agenore Fabbri, – lo scultore membro e presidente della prestigiosa Accademia nazionale di San Luca – il quale, prima di raggiungere le Belle Arti di Firenze, porta con sé gli indelebili insegnamenti della pistoiese “Scuola d’Arti e Mestieri”. Egli pone in rilievo, non a caso, il vigore eloquente delle mani, quando centra, sul piatto della tavola incisoria, la loro drammatica efficacia conferendo, oltre alla comunicazione emotiva, anche l’inequivocabile propensione alla fabrilità, al loro essere partner incontestabile del viaggio del pensiero. E quindi del dolore e della gioia: queste, per altro, aristotelicamente intese nella proiezione attiva del motore cerebrale e in ciò nobilitando l’assunto per cui lo spazio del loro ‘fare’ denuncia il tentare, volta per volta, pazientemente, il percorso della conoscenza. Un’ermeneutica del costruire vita, del progettare al fine di ricavare visioni rinnovate dal proprio bagaglio intuitivo e segnarne, come in questo caso, l’esito più vero, pronto a restituire e alimentare la necessaria cosmologia, l’eternante approccio alla luce.  

Emanuele India, Galassie, 2021 (cuoio inciso e punzonato a caldo, su tavola in ageminatura ad oro zecchino e dipinto ad olio), 110x160 cm.

Emanuele India, Galassie, 2021 (cuoio inciso e punzonato a caldo, su tavola in ageminatura ad oro zecchino e dipinto ad olio), 110×160 cm.

Un approccio perseguito da India con risolutezza, comprensibile per un allievo, ma soprattutto sodale, di Francesco Carbone, critico perspicace e non certo alieno alla poesia delle ‘cose’. Emanuele, ‘Maestro rilegatore d’arte internazionale’, consegna allora il tutto, proprio per il suo consenso metodologico, non soltanto alla gloria del manufatto ma, con essa, imprimendo la distanza da un certo insistere sulla divaricazione con le ‘belle arti’. Anzi, col percorrere la strada di una ricerca cara ai criteri dell’artigianato, del mestiere, perpetua una visione estetica unitaria culminante nel raggiungimento della nobile sincronia del piano rappresentativo e creativo.

A tal proposito è utile ricordare come George Kubler avesse con chiarezza rimarcato, nel capitolo ‘Divisione delle arti’ del suo The Shape of Time (1972), che «a partire dal 1900, sotto l’influsso del nuovo spirito democratico nel pensiero politico di questo secolo, le arti popolari, gli stili provinciali e le professioni artigiane vennero considerati degni degli stessi onori fatti agli stili di corte e alle scuole metropolitane».

Queste sue Sfere di luce (Museo Regionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Palermo, 2021), – avverte la curatrice Francesca Mezzatesta, – tracciano «la superficie come un bassorilievo, è come un insieme di pattern, che crea una texture di micro sfere di luce e cellule spaziali» votate, citando opportunamente Leo Spitzer, all’armonia dell’interezza del cosmo e accogliendo il suggestivo richiamo di remote formule armonico-matematiche. Tali sfere possiedono una loro precisa evolutività segnata dai ‘rosoni di luce’ per cui Cosimo Scordato non a caso ricorda la basso-medievale “Metafisica della luce” dell’inglese Roberto Grossatesta, – convettore del pensiero che oscilla dai neoplatonici agli arabi, dalla patristica ad Aristotele – in cui, appunto, l’interazione tra lux (lumen) e materia gemma nuova consistenza, nuovo possibile gradino contemplativo.

Emanuele India, Chakra, 2020 (cuoio inciso e punzonato a caldo, su tavola in ageminatura ad oro zecchino e dipinto ad olio), 100x170 cm.

Emanuele India, Chakra, 2020 (cuoio inciso e punzonato a caldo, su tavola in ageminatura ad oro zecchino e dipinto ad olio), 100×170 cm.

Ed ecco, allora, la circolarità loica (per il suo essere ben serrata nel dettaglio) e al contempo traslucida dell’Ostensorio (recto e verso; 2013), la sonorità impalpabile della Madonna della tenerezza (2015), e di un Oltre il tempo (2017) in cui potrebbe ben affiorare il Max Ernst di Le Silence à travers les âges (1968). Nello scorrere la sua rilegatura d’arte prodotta per l’Infinito leopardiano (una consegna del 1997, per l’edizione urbinate), ecco emergere, nel ciclo “Il cantico dei Cantici”, la profondità della vertigo cosmica delle Galassie (2021) o l’ordine ascensionale di Chakra (2020), «centri energetici che risiedono nel corpo umano, disposti in verticale dalla base della colonna vertebrale sino alla sommità del capo», ricorda Patrizia Spallino, fino alla materia terrestre di Madre Terra (2019) resa, nella compiutezza della luce, canto glorificante.

Emanuele India, Madre Terra, 2019 (cuoio inciso e punzonato a caldo, su tavola in ageminatura ad oro zecchino e dipinto ad olio), Ø 70 cm.

Emanuele India, Madre Terra, 2019 (cuoio inciso e punzonato a caldo, su tavola in ageminatura ad oro zecchino e dipinto ad olio), Ø 70 cm.

Il comune denominatore che attrae la nostra attenzione nel percorso ri-creativo ed espansivo di Emanuele India si codifica nel sincretico apporto di culture e abilità operative: dal gusto bizantino all’ornamento, dal procedimento di un labor che si identifica ad una mistica, al tempo della ‘preghiera’, al corpo a corpo con una filosofia della natura permeata dal sacro e poi versato in una ontologia corroborata dalla pratica del restauro librario alla sensibilità cartacea attinta dalla cultura basiliana: elementi che trovano in Mezzojuso il loro epicentro, sin da quella scuola di iconografia siculo-cretese sostenuta dall’iconografo Joannikio. E su tali molteplici chimismi si aggiunge, come già detto, la scelta dei materiali da stendere nelle superfici come il cuoio. Un materiale biologico lavorato non soltanto quale attenzione filologica, ma che s’inserisce anche nel dibattito della pittura e scultura contemporanee.

Agnoldomenico Pica, architetto e critico d’arte, anch’egli ricco di quella sensibilità del ‘fare’ impartita negli anni Trenta all’Istituto Superiore per le Industrie artistiche di Monza, presentando in catalogo Rosario Murabito (al Naviglio di Milano, 1973), artista catanese, scomparso nel 1972, segnalava come le tarsie e le pitture di questo intenso autore, pencolante tra Roma, Parigi, New York e Casoli di Camaiore, erano offerte, con fortissima tempra espressiva, in «lacerti di pelli conciate».Visioni, quelle di Murabito, così si può leggere nella sua Città sacra, in cui le pigmentazioni del cuoio restituiscono la dimensione umbratile dell’esistenza, o, come nell’Immagine della condizione umana, la consegna di un antropologico tocco carnale. Nulla di più distante e, allo stesso tempo, nulla di più vicino alla dimensione aerea di Emanuele India, proprio in virtù della luce che consente alla carnalità di spandersi, di aggettare la dimensione della parola ora nel tremulo vapore di un raggio, ora nello scintillìo ritmico di una sfera.    

Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022 

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Aldo Gerbino, morfologo, è stato ordinario di Istologia ed Embriologia nella Università di Palermo ed è cultore di Antropologia culturale. Critico d’arte e di letteratura sin dagli anni ’70, esordisce in poesia con Sei poesie d’occasione (Sintesi, 1977); altre pubblicazioni: Le ore delle nubi (Euroeditor, 1989); L’Arciere (Ediprint, 1994); Il coleottero di Jünger (Novecento, 1995; Premio Marsa Siklah); Ingannando l’attesa (ivi, 1997; Premio Latina ‘il Tascabile’); Non farà rumore (Spirali, 1998); Gessi (Sciascia-Scheiwiller, 1999); Sull’asina, non sui cherubini (Spirali, 1999); Il nuotatore incerto (Sciascia, 2002); Attraversare il Gobi (Spirali, 2006); Il collettore di acari (Libro italiano, 2008); Alla lettera erre in: Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011). Di saggistica: La corruzione e l’ombra (Sciascia, 1990); Del sole della luna dello sguardo (Novecento, 1994); Presepi di Sicilia (Scheiwiller, 1998); L’Isola dipinta (Palombi, 1998; Premio Fregene); Sicilia, poesia dei mille anni (Sciascia, 2001); Benvenuto Cellini e Michail K. Anikushin (Spirali, 2006); Quei dolori ideali (Sciascia, 2014); Fiori gettati al fuoco (Plumelia, 2014); Cammei (Pungitopo, 2015); Non è tutto. Diciotto testi per un catalogo (Il Club di Milano – Spirali, 2018).

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