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Elogio della memoria

cobwdi Antonino Cusumano 

Ho imparato a coltivare la memoria, a conoscerne la densità semantica e la dimensione eminentemente simbolica, ascoltando e leggendo ciò che Antonino Buttitta ha detto e scritto per lunghi anni della sua vita. L’antropologo amava ricordare la lezione di Agostino di Ippona che era «inquietato dal desiderio di convertire il divenire della temporalità nell’essere dell’eternità. La memoria, tracimando la temporalità, ne è la parvenza. Non è ancora una soluzione, ma sicuramente una traccia per superare la morte» (Buttitta 2022: 41). Accanto ad Agostino, un altro imprescindibile riferimento è stato Borges. Già nel 1983, nell’Editoriale degli Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo di cui era diventato preside, Buttitta riportava una lunga citazione tratta da Oral, tra cui queste parole che richiamerà in più e diverse occasioni: «Ogni volta che ripetiamo un verso di Dante o di Shakespeare, siamo, in qualche modo, quello istante in cui Dante o Shakespeare crearono quel verso. In breve l’immortalità è nella memoria degli altri e nell’opera che lasciamo» (Borges in Buttitta 1983: 8).

Sulle pagine dello scrittore argentino, che aveva avuto il privilegio di incontrare e conoscere a Palermo nel 1984, Buttitta era solito intrattenersi e intrattenere, ritenendolo una sorta di divinità che «parlava come se non fosse cieco, vedeva il mondo meglio dei vedenti, trascendeva l’apparire delle cose, coglieva il senso profondo dell’invisibile, consapevole che l’uomo non può esistere al di fuori dell’universo simbolico da lui stesso creato» (Buttitta 2015: 143). Borges e la letteratura sono state costanti passioni nell’orizzonte dei discorsi e dei pensieri dell’antropologo che stimava la letteratura «la migliore delle antropologie», dal momento che «lo scrittore, cercando l’uomo, trova gli uomini, l’antropologo, ma anche il sociologo, lo storico, ecc, osservando gli uomini, troppo spesso perdono l’uomo» (Buttitta 2018:26).

s-l1600Dialogando e ragionando lungamente sulla memoria, Buttitta ha dialogato e ragionato sulla morte in un sottile rapporto di sfida e di complicità. «Nella dialettica tra divenire ed essere la memoria è l’orizzonte di senso che sconfigge la morte e salva le parole e gli atti di ciascuno di noi dal consumo definitivo ed eterno, facendone una perenne sfida al tempo nel passaggio da una generazione all’altra» (Buttitta 2015: 174).  Con questa consapevolezza aveva già nell’Editoriale del 1983 precisato che «i ricordi non sono tutta la memoria. Sono solo la sua emergenza, il suo avvento, la sua tenue epidermide. Dell’onda lunga della memoria essi sono solo la spuma. La spuma presto scompare, la forza dell’onda resta, va e vieni, il suo moto è perenne: è la vita del mare. I ricordi sono come le paroles del linguista ginevrino: atti consapevoli e individuali la cui possibilità di emersione e trasmissione è consentita da una struttura inconsapevole e collettiva: la memoria profonda che ha forza di langue» (Buttitta 1983: 7).

Di tutte le definizioni della memoria quelle proposte da Antonino Buttitta in tanti diversi scritti e in tante conversazioni restano probabilmente tra le più incisive e persuasive. In una dimensione laica della vita la memoria è argine della morte, sfida dell’essere contro il divenire del tempo, «consapevolezza di ciò che siamo stati e coscienza di ciò che possiamo essere» (Buttitta 2022: 147). Non precipitano nelle nebbie del nulla le persone che abbiamo amato se incarniamo le loro parole nelle nostre, se portiamo in salvo la loro vita nella nostra. Non muore chi continua a vivere nella memoria del vivente, nell’opera di cura compassionevole e paziente manutenzione del ricordo. Vive nel passaggio di testimone perché la memoria, per usare le parole di Claudio Magris (2019: 120), «guarda avanti, si porta con sé il passato, ma per salvarlo, come si raccolgono i feriti e i caduti rimasti indietro». Perché, a guardar bene – come ci insegna Todorov (2010: 359) – «non è la memoria, in quanto richiamo del passato, che deve essere sacralizzata, ma i valori che se ne possono trarre», dal momento che non è un monumento del passato ma piuttosto struggente desiderio di futuro.

Se è vero che ricordare ha a che fare con il raccontare, se la memoria è consustanziale alla narrazione in quale luogo può più compiutamente abitare se non nella letteratura che è memoria formalizzata, quel mondo lussureggiante di storie, di miti e di immagini? Quale altra scrittura può meglio rappresentare quanto appartiene all’impalpabile dimensione del passato presentificato, a quell’eterno presente che mette in comunione i vivi e i morti lungo la catena naturale delle generazioni? «La memoria ricostituisce la continuità fra tutte le discontinuità del profondo», ha scritto il poeta Mario Luzi nel suo Colloquio con Mario Specchio (1999: 28). Per questo è ordito e trama di ogni racconto, di ogni storia, sia essa reale o immaginaria, il legamento tenace destinato a dare ordine e senso al continuum indifferenziato del tempo. Nel raccontare che connette uomini e cose, nomi e avvenimenti si dipana il filo ingarbugliato del ricordare, la ricerca proustiana del tempo perduto.

book-u-010203860-colloquio-un-dialogo-con-mario-specchio-1-jpg-768x768_q85Antonella Tarpino ha scritto un libro che di questo intimo rapporto tra memoria e letteratura passa in rassegna temi, simboli, oggetti, testimonianze e luoghi. Il libro della memoria edito da Il Saggiatore (2022), che segue altri titoli Geografia della memoria (2008) e Memoria imperfetta (2020), sembra chiudere in una perfetta trilogia uno straordinario elogio della memoria, uno studio sistematico e attento su questa facoltà umana che oggi esercitiamo con fatica o senza misura. Muove l’autrice dalla critica alla dittatura del ‘presentismo’ «che non riconosce alcuna realtà alle altre misure temporali, non al passato ma neanche al futuro, dandoci l’illusione di vivere in un eterno oggi che cannibalizza qualunque altra dimensione della durata». Stentiamo a ricordare ma nello stesso tempo soffriamo di una ipertrofia celebrativa del passato, la retorica politica di una memoria collettiva paradossalmente «immemore del passato ma insieme incontinente». Dentro il “regime di storicità” nel quale viviamo – ha osservato Francois Hartog (2007:47) – «la memoria è diventata una categoria metastorica, talvolta teologica». Da qui la sua sacralizzazione e la sua banalizzazione, dal momento che «il passato non è più chiuso tranquillamente nei libri di storia e riposto nelle biblioteche ma continuamente rivendicato come una risorsa importante per il potere e le politiche d’identità» (Assmann, 2008: 57).

Il libro di Antonella Tarpino non indaga tuttavia sul ruolo della memoria nella vita pubblica e sul suo rapporto con la storia. Non ha per oggetto le rimozioni o le celebrazioni istituzionali o mediatiche. Né discute di amnesie o amnistie politiche. Nel tempo della postmemoria, si occupa piuttosto di letteratura della memoria e di memoria nella letteratura, delle pagine folgoranti consegnateci da tanti scrittori sui contesti, gli oggetti, i paesaggi e gli scenari della vita quotidiana trapassati nella dimensione narrativa e per ciò stesso convertiti in segni, indizi, tracce del passato rievocato o immaginato, della memoria sostantivata. Ripercorre l’autrice le diverse stagioni letterarie, sguardi, stili e approcci diversi di rappresentazione e rifunzionalizzazione dell’antico, mettendo insieme in una ampia antologia i testi che esemplificano i “luoghi” immaginari ed elettivi della memoria letteraria nel corso dei secoli.

9788806239565_0_536_0_75Tre sono i temi centrali attorno cui gravitano tutte le pagine del libro: la casa, le cose e le rovine. Teatri della memoria questi luoghi sono metafore, archetipi, simboli, immagini che articolano la narrazione e danno forma al ricordare. «Conglomerato di spazio e di tempo fissato nella pietra, la casa è, fin dalle prime figurazioni mitologiche, mediatrice privilegiata della memoria». Imago mundi, qui è il riparo protettivo dei sentimenti, l’idea di solidità, di durata e sicurezza, tra le sue pareti sono i confini deputati ad ospitare la vita e a sacralizzare la norte. La casa – associata alla pietra che è connaturata ai concetti di geometria e ordine, di fondamento e domesticità – accompagna le biografie dei personaggi letterari, ne rispecchia le storie, ne esprime l’intima personalità e gli umori più segreti. La loro descrizione introducendoci nelle vite di ciascuno si può leggere come la topografia profonda dei ricordi, la mappa delle memorie familiari. Da Chateaubriand a Stendhal fino ai racconti gotici di Allan Poe, il romanticismo ha costruito attorno a castelli e dimore signorili dense atmosfere sentimentali e crepuscolari, le cui ombre concorrono a rievocare un passato di paure e di inquietudini. Del resto, «il tempo della memoria – ha scritto Alberto Asor Rosa (2018: 22) – è il crepuscolo. Quando la luce è una luce radente, che toglie consistenza ai corpi ma allunga le ombre». E le abitazioni sono, nelle strategie retoriche del racconto letterario, estroflessione dei nostri corpi, immagini figurate dei rimpianti o dei rimorsi, «fondali architettonici su cui i personaggi proiettano i loro stati d’animo, le emozioni più profonde». Così le finestre della Casa degli Usher sono dotate di finestre come occhi, ma esanimi, vuote orbite, e il castello di Udolfo di Ann Radcliffe tetro e abbandonato era nella sommità delle sue torri coronato non da vessilli ma da «piante selvatiche che avevano affondato le radici tra le pietre sgretolate che al passaggio della brezza sembravano sospirare sulla desolazione che le circondava».

Tra ‘800 e ‘900, nelle ville della campagna inglese dei narratori angloamericani come Edward Morgan Forster e Henry James, l’intimità diviene memoria di sé da tutelare nel tempo attraversato dai profondi mutamenti sociali e culturali. La casa vittoriana custodisce la sacralità del privato, il culto delle virtù borghesi, delimita «un perimetro di sicurezza contro il “fuori” in incessante trasformazione», costituisce «l’unico argine ai sussulti violenti del mondo esterno». Qui si raccolgono le generazioni tra «i tendaggi che proteggono o nascondono alla vista, le specchiere che illuminano o raggelano gli interni, le scalinate che accolgono o sbarrano il passo». Qui nel «regno di penombre virtuose, le luci rosate del tramonto, i ritratti anneriti dei gentiluomini di un tempo», si celebra il rito della cerimonia del tè del pomeriggio, si trattiene il passato contro le spinte distruttive del presente, l’oltraggio del “progresso”, la qualità incerta del divenire: «come si torna fra le mura rassicuranti della casa, così anche la memoria è un “tornare a”, in cui, nel risalire alle origini, trova alimento il ricordo». Nella lettura psicoanalitica di Freud e Jung lo spazio interno si oppone all’esterno, esorcizza il “disagio della civiltà”, incorpora la memoria. Nei sogni la casa è protagonista, immagine onirica ricorrente, «vive all’ombra del corpo, si accorda con i suoi movimenti, soddisfa le necessità più private, nasconde le sue sofferenze. Ne custodisce, dopo la morte, i resti».

Insieme alle case anche le cose sono coa9788884905307_0_200_0_0guli di memorie, avendo un valore affettivo e relazionale, una vita sociale, una “personalità”, un’anima. Al contrario di quella degli uomini, l’anima degli oggetti non sta all’interno del loro corpo, ma all’esterno: la vita si identifica nell’azione di cui essi partecipano, nel grumo di memorie che riescono a trattenere. Casa, cose e memoria sono dunque dimensioni fortemente intrecciate. «Lo spazio domestico, come del resto ogni altro spazio – ha scritto Carla Pasquinelli (2004: 44) – oltre a essere un mondo di oggetti è anche un mondo di significati che ci porta a confrontarci quotidianamente con altre persone impegnate in altrettante strategie di ordine spesso incompatibili con le nostre, quasi sempre conflittuali tra di loro. Mettere in ordine la casa non è infatti solo un solitario ed estenuante corpo a corpo con gli oggetti». (…) «L’arredo di una casa è l’equivalente di un atto cosmogonico, la fondazione del suo ordine, che regolamenterà lo spazio e la vita di quanti vi abitano collocando ogni cosa al posto giusto (ivi: 55). In questo senso, sporgendoci oltre una visione meramente antropocentrica, possiamo trovare in letteratura numerosi esempi di oggetti che hanno tale potenza e forza rammemorativa da essere madeleines di profumi e sapori e, non essendo soltanto proiezione dei nostri stati d’animo, ci possiedono, ci interrogano, ci provocano, evocano risonanze sentimentali, muovono passioni, restando la nostra vita affettiva sostanziata e materiata di cose ricevute o donate, acquistate o scambiate, date in pegno o ereditate, perdute o ritrovate.

raboniAntonella Tarpino legge i versi di Borges («Quante cose, /atlanti, soglie, lime, coppe, chiodi, / ci servono in silenzio come schiavi, / cieche e misteriosamente segrete! / Dureranno ben oltre il nostro oblio;/ non sapranno mai che ce siamo andati») e Neruda («Amo tutte le cose, /non solo /le eccelse,/ ma quelle/ infinitamente/ piccole, / il ditale/, gli speroni,/ i piatti, / le fioriere»). Sfoglia le pagine di Kafka e soprattutto di Marcel Proust, il padre della memoria letteraria, l’autore che per primo ha raccontato come gli oggetti parlano di noi, per noi, declinano come le parole i nostri alfabeti simbolici, il sillabario dei nostri ricordi. «In Proust la memoria è così il palinsesto attraverso cui le intermittenze del cuore, quei flash improvvisi di una memoria involontaria, danno forma a un racconto. Nell’urto tra le immagini del presente e del passato si libera il gioco potente della memoria, sola a ricomporre, lungo l’asse incrinato della narrazione, l’io che ricorda e l’io ricordato». Compagni delle nostre vite, parte costitutiva dell’orizzonte quotidiano dei nostri paesaggi, gli oggetti sono grumi del tempo consumato, parafrasi dei sensi, vibratili recettori di memoria delle percezioni sensoriali. E Proust è maestro di una vera e propria antropologia dei sensi, delle sensazioni visive, uditive, tattili, olfattive e gustative che restano embricate nelle cose che avevamo perduto o dimenticato.

«E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè nel quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me» (Proust 2017: 7).
«Quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo» (ivi: 9).

9788842095569La madeleine proustiana è diventata la più alta metafora letteraria della memoria involontaria, archetipo di un sentimento interiore tra nostalgia e malinconia, tra narrazione, emozione e immaginazione. Quel piccolo frammento di dolce immerso nella tazza di tè fa parte di quel paesaggio materiale e simbolico di oggetti che circondano ogni generazione e che – ha osservato Remo Bodei (2009: 30) – «definiscono un’epoca grazie alle patine, ai segni e all’aroma del tempo della loro nascita e delle loro modifiche. A modo loro, gli oggetti crescono o deperiscono, come i vegetali e gli animali, si caricano di anni o di secoli, vengono seguiti, accuditi, curati oppure trascurati, dimenticati e distrutti». Nella memoria delle cose è in fondo la traccia dell’umano che, secondo Italo Calvino (1994: 121), altro non è che «la disseminazione continua di opere e oggetti e segni che fa la civiltà, l’habitat della nostra specie, sua seconda natura». A pensarci bene, se la cultura è sempre oggettivata, non c’è nulla di oggettivo negli oggetti restando inseparabili quelle due dimensioni consustanziali che Alberto Mario Cirese definì “fabrilità” e “segnicità”.

Nell’ultima parte del libro Antonella Tarpino dialoga con i luoghi in rovina, con i borghi abbandonati, con «il passato che si cela nelle pietre della strada come nel pulviscolo dell’aria: dove tutto è già stato ma insieme permane, imponente, a testimoniare la sua suprema inerte durevolezza». Qui la memoria è ferita a morte e con la morte si confonde. Ma la percezione della fragilità delle architetture si associa alla potenza del ricordo, la precarietà del divenire alla resistenza dell’essere. A chi ha abitato un paese distrutto dal terremoto a quello continua a guardare come ancora vivo e presente, unico spazio possibile della domesticità perduta, orizzonte simbolico che trattiene il senso dello stare nel mondo. La memoria abita ancora dentro quelle strade e quelle case, animate dalle voci familiari dei morti, dagli oggetti quotidiani del passato. Nel lento e dolente viatico della rimemorazione restano impigliati i nomi, le generazioni, gli affetti e le amicizie, il brulicante intreccio delle vicende umane.

9788833915166_0_536_0_75Quanto e come un paese distrutto continui a vivere e ad essere vissuto nei ricordi di chi l’ha abitato significa che i luoghi sono realtà mitiche prima ancora che fisiche, spazi della rappresentazione più che della evidenza empirica, territori attraversati dalla memoria che aiuta a presentificare il passato e oggettivare la coscienza dell’appartenenza. Tarpino si muove ancora una volta sulle tracce della letteratura che è essa stessa materia fatta di miti e di memorie, crocicchio di storie e di immaginario. Nella figura delle rovine – pietose allegorie della precarietà e della caducità del destino degli uomini – si materializza «ciò che resta dell’opera di distruzione: ne costituiscono la poetica più profonda. Fino a far di queste l’estrema forma di “restituzione” alla natura, allo scomposto dominio vegetale, cui le cose estenuate si affidano». Così quelli che Marc Augè ha definito «racconti ancora in piedi» costituiscono luoghi mutilati e offesi, come sospesi nelle faglie di un tempo indefinito, dove letteratura e memoria sembrano dialogare in una sorta di ininterrotta e felice autopoiesi. Così è per i villaggi sommersi dalle acque per la realizzazione di un lago artificiale raccontati dalla scrittrice canadese Anne Michaels, un evento, realmente accaduto a Moulinette nei pressi di Toronto nel luglio del 1958, che costrinse gli abitanti a sfrattare i propri morti dal cimitero destinato ad essere inondato. Così è per il paese calabro in abbandono, Pentadattilo, dipinto dal pittore visionario Maurits Cornelis Escher, che assume una nuova vita ridisegnata sulle pietre plasmate dalla comunità preesistente. Così è per i ruderi di Craco in Basilicata con i suoi calanchi reinventati come fondali di famosi set cinematografici. Così è per Narbona in Piemonte con il suo abitato «che ormai cade in pezzi, e in cui sembra di smarrirsi, minacciati ovunque da muri squassati e da balconi che pendono innaturalmente sul vuoto».

A Pentadattilo, a Craco e a Narbona, terribilmente aggrediti dalle ingiurie del tempo e della storia, restano tuttavia visibili nella desolazione materiale le vite degli uomini e delle donne che attraverso il racconto dei luoghi ancora ci parlano, ci interrogano. «Quella memoria così legata al senso del dimorare, abitata dai ricordi, scolpita nelle pietre dei borghi e delle case, quasi si possa toccare, è tenace anche quando, tanto più forse, case e borghi non ci sono più. È esperienza muta del mondo, che fa dei rapporti tra l’umano e il suo ambiente circostante una sorta di promemoria universale, di cui il paesaggio conserva un’impronta indelebile». Ragionando sulle rovine prodotte dalle guerre Antonella Tarpino riporta infine alcune pagine del libro Austerlitz dello scrittore austriaco W. G. Sebald, «archeologo della memoria» che fa ritrovare al protagonista del romanzo la casa natale di Praga perduta a causa della tragedia della Shoah. Il contatto tattile con le superfici della rampa di scale è la scintilla che riproduce la memoria involontaria della madeleine proustiana, il trauma della fuga quando bambino fu costretto a lasciare la città mentre i genitori venivano mandati a morire in un campo di sterminio: «una specie di male al cuore che era causato dal risucchio del tempo trascorso».

md30348147011L’esperienza dell’Olocausto riaffiorata in quelle pagine richiama l’enorme valore ponderale che la memoria conserva nella politica culturale e nell’etica civile. Sia essa testimonianza o narrazione, opera individuale o collettiva, oggi è quanto mai necessaria e cogente, restando estranea ad ogni retorica celebrativa e tuttavia rappresentando una presenza morale ineludibile nel tempo immobile del presente minacciato dal cancel culture, da revisionismi e da negazionismi. In questo senso i luoghi, i contesti, gli oggetti servono a ricordarci non solo chi siamo stati ma anche chi siamo diventati. Mentre cresce e si espande con un’accelerazione vertiginosa e incontrollata il processo di esternalizzazione della memoria, affidata ai dispositivi digitali e oggi agli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale, la letteratura «maestra delle sfumature» secondo la definizione di Barthes, rimane pur sempre il luogo elettivo dell’arte del ricordare, la sfera più intima e tradizionale in cui esercitarla e coltivarla come la più rara delle facoltà umane. «La musa dei nostri giorni non è la memoria, ma la Dimenticanza. Non possiamo più ricordare. Portiamo troppi pesi – un passato troppo lungo, di cui conosciamo quasi ogni vestigio; un futuro che ogni giorno ci sforziamo di prevedere; un presente che ci schiaccia con la quantità delle informazioni. (…). Alla fine, le migliaia di ricordi, che ci avevano oppresso col loro peso, distillano poche essenze, pochi segni, pochi profumi, incredibilmente ricchi, concentrati e sapienti». Così annotava Pietro Citati (1998: 70), che indicava nella Recherche di Proust «la grande cattedrale della dimenticanza creatrice». Ovvero della memoria quotidiana involontaria.

01c542d58129fb13d0-hardcover-750x1212-52-5Se la trama della nostra vita prende forma solamente nel racconto, se il narrare coincide con il vivere, la vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla. L’apparente paradosso che celebra il primato della memoria s’invera nelle straordinarie pagine de Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcìa Marquéz, dove, per esempio, Ursula carica di anni «si ostina ad imparare in silenzio la distanza delle cose e delle voci della gente per continuare a vedere con la memoria quando non glielo avessero più permesso le ombre della cataratta. Più tardi avrebbe scoperto l’aiuto imprevisto degli odori, che si definivano nel buio con una forza molto più convincente che non i volumi e i colori» (Garcìa Marquéz, 1968: 255). La memoria come illuminazione, come epifanica rivelazione, come irruzione e sollecitazione irriflessa dei sensi perduti e ritrovati. Oggi nel tempo dell’effimero e dell’oblio come monito e come nobile appello.

9788838943096_0_536_0_75Ci soccorrono in conclusione ancora le parole di Antonino Buttitta (2022: 147): «L’individuo esiste in quanto comunità e una comunità, al passato, al presente, al futuro, è la propria memoria. Noi continuiamo a crederci. È l’unico modo di opporci alla barbarie che avanza e rischia di annullarci. Seguitiamo a coniugare la memoria al futuro se vogliamo ancora esserci domani. La memoria che fa rivivere il passato nel presente e vi fonda l’evenienza del futuro, alimentando la speranza dell’eternità». Il libro della memoria di Antonella Tarpino è un prezioso contributo a ricercare e ritrovare nella letteratura il senso intimo e profondo della memoria, non quella liturgica e ipertrofica delle commemorazioni istituzionali né quella debole ed elusiva prodotta dal ‘presentismo’, dalla torsione temporale del consumo immediato. La memoria di cui scrive l’autrice non è patrimonio che appartiene soltanto agli storici né risorsa di studio soltanto dei neurobiologi ma è bene culturale degli uomini, di tutti gli uomini, scaturigine ed eredità del processo evolutivo di incivilimento, essendo fondativa e costitutiva fin dalle origini della vita dei gruppi umani, come ha dimostrato Lerou Gourhan. Abita nelle stanze dei romanzi ma anche nelle storie di vita, nei ricordi individuali e collettivi dove luoghi e cose del passato sono come «conchiglie sulla riva quando si ritira il mare della memoria viva», per richiamare un’immagine dello storico francese Pierre Nora citata dalla stessa Tarpino. La memoria resta dunque, alla fine, l’orizzonte simbolico che dà forma e senso alla perenne e titanica sfida dell’uomo contro il tempo. «Noi siamo mortali – ammoniva Borges (2001: 99) – perché viviamo nel passato e nel futuro, perché ricordiamo un tempo in cui non esistevamo e prevediamo un tempo in cui saremo morti».

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024 
Riferimenti bibliografici
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Borges F., 2001, L’invenzione della poesia, Mondadori Milano
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Tarpino A., 2022, Il libro della memoria, Il Saggiatore Milano
Todorov T., 2010, Una vita da passatore. Conversazione con Catherine Portevin, a cura di G. D’Agostino, Sellerio Palermo.

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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore)La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020). Per la stessa casa editrice ha curato il volume Per Luigi. Scritti in memoria di Luigi M. Lombardi Satriani (2022).

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