Stampa Articolo

EDITORIALE

Grammichele (ph. Nino Giaramidaro)

Grammichele (ph. Nino Giaramidaro)

Ogni anno che passa in occasione del 25 aprile si sente sempre più il bisogno di tornare a leggere le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, di sfogliare quelle pagine luminose e dolorose, di ripensare a quei giovani caduti in combattimento o fucilati in esecuzioni di massa che, tra il 1943 e il ’45, hanno sacrificato la loro giovinezza e la loro stessa vita, per liberare l’Italia dalla tirannide. Quelle voci che giungono dalle tragiche vicende della nostra storia di ottanta anni fa – la lotta partigiana contro le crudeli violenze nazifasciste – hanno una limpidezza e una purezza di pensiero che confligge in modo eclatante con la retorica di certe estenuate e ipocrite celebrazioni o, peggio, con l’infamia di certe rimozioni o colpevoli smemoratezze. Quelle lettere – estremo saluto alla famiglia prima della morte – hanno una forza morale e civile che fa delle loro brevi vite testimonianze umane esemplari. Bisognerebbe per questo leggerle e rileggerle come un breviario, una preghiera laica, un ostinato esercizio della memoria. Perché diventino pedagogia nelle aule scolastiche, monito tra i giovani oggi disorientati, distratti o confusi.

«Credetemi, la “cosa pubblica” è noi stessi; ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come “patriottismo” o amore per la madre che in lacrime e in catene ci chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in cui il nostro paese è caduto. (…) Come vorremmo vivere domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere!». Così ha scritto agli amici prima di essere fucilato il mattino del 10 novembre 1944 nella Piazza Grande di Modena, Giacomo Ulivi, di anni 19, studente della facoltà di legge dell’università di Parma, condannato a morte per la Resistenza. Uno dei tanti giovani che insieme ad operai, contadini, intellettuali, ha sperato e lottato per la libertà come bene comune e inalienabile, per la democrazia come patrimonio di valori e di diritti, per la nascita di un’altra Italia. Figure di uomini e di donne che più si allontano nel tempo e più sembrano diventare irraggiungibili, inattingibili nella loro tragica alterità e solitudine.

Accade pertanto che nella confusione delle lingue e delle idee in cui oggi siamo precipitati, la parola antifascismo sia diventata perfino ambigua, ridondante, urticante. Insomma, un tabù, qualcosa di indicibile e di ineffabile. Da esorcizzare, da oscurare. E con la parola il suo significato, la sua storia. Da mutilare, da delegittimare, meglio da censurare. Dell’Italia sognata, invocata, sperata da quelle generazioni di giovani di ottanta anni fa resta forse soltanto quella Carta su cui fondiamo le ragioni della nostra Repubblica, la Costituzione che Calamandrei definì «un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno, in questa macchina, rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere quelle promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica». E l’illustre membro dell’Assemblea costituente precisava: «Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli».

L’attuale fenomeno dell’astensionismo elettorale sempre più generalizzato e strutturato non è probabilmente da assimilare tout court alla patologia dell’indifferenza collettiva che Gramsci condannò come «il peso morto della storia». Ma è tuttavia, senza alcun dubbio, segno evidente della crescente e inquietante disaffezione politica, della enorme distanza che separa i ceti dirigenti e larga parte della popolazione, rappresentanti e rappresentati, della «lenta erosione degli elementi costitutivi del processo democratico, dai più nobili ai meno nobili, dai più graditi ai meno graditi, che uno dopo l’altro, come le foglie morte, fa cadere la lunga stagione invernale che attraversa la politica italiana». Così scrive in questo numero, a conclusione del suo contributo, Aldo Aledda, dopo aver analizzato con attenzione dati, cause e dinamiche della fuga dal voto, ritenuto inutile soprattutto da parte dei giovani elettori che, secondo una ricerca dell’Eures, negli ultimi vent’anni si sono ridotti dal 30,4% al 21,9%.  Di scollamento tra partiti nazionali e territorio ragiona anche Fulvio Cozza, della scarsa capacità di ascolto delle istanze dei giovani da parte della classe parlamentare, la quale «per poter scongiurare la caduta in avvitamento della credibilità riconosciuta alla rappresentanza politica e con essa all’efficacia dell’azione di governo, deve comunicare con l’universo extraparlamentare e imparare dalla lotta politica dei giovani studenti e delle giovani studentesse».

È certo che nel contesto drammatico e traumatico delle guerre che attraversano come profonde cicatrici il nostro presente, la torsione ideologica del passato e l’incerto orizzonte del futuro rendono ancora più acuta la vulnerabilità delle giovani generazioni, la loro fragilità esistenziale. Nelle piazze del 25 aprile ancora volta la festa largamente partecipata ha visto i giovani manifestare per la pace e restare vittime del clima di guerra, stretti tra le violenze della polizia e quelle degli eterni sparuti gruppuscoli che praticano a viso coperto l’odiosa arte delle provocazioni antisemite o dell’antagonismo fine a se stesso. Le ragioni della Liberazione finiscono così con l’essere mortificate dal clamore della gazzarra, la difesa dei palestinesi di Gaza sporcata e tradita da slogan raccapriccianti che confondono antifascismo e antisionismo accompagnati da lanci di bottiglie e sassaiole. A ben guardare, ci sono poi nel pacifismo integralista accenti e posture di una aggressività più bellicosa di quella dei più ciechi bellicisti.

Sul conflitto in Palestina Dialoghi Mediterranei si ostina a proporre contributi di idee che in qualche modo non si riconoscono in quella sorta di coscrizione obbligatoria cui sono piegati nella maggior parte dei casi gli interventi del dibattito pubblico. Perché mai – ci chiediamo – la più ferma solidarietà con il popolo palestinese non possa e non debba coniugarsi con la più intransigente condanna degli efferati attacchi terroristici commessi da Hamas? Perché non sarebbe legittimo criticare l’azione criminale di Israele che ha distrutto Gaza e affamato i suoi abitanti senza essere accusati di antisemitismo? Perché è così difficile separare il giudizio su responsabilità e destino delle popolazioni israeliana e palestinese da quello sulle scelte e sulle politiche dei loro rispettivi governi? Perché non sarebbe possibile scavalcare gli steccati che separano unilateralmente e dogmaticamente torti e ragioni e riconoscere di stare semplicemente e convintamente dalla parte delle vittime, di tutte le vittime di questa tragedia che si consuma ormai da decenni e lacera l’esistenza di più generazioni? Non è senza significato che Francesca Corrao sulla scorta delle vicende mediterranee faccia appello alla memoria della storia e ponga nel suo contributo in questo numero una serie di altri interrogativi: «Come fare capire agli ebrei – si chiede – che i palestinesi, diversamente da quanto si immagina, non sono a casa loro negli altri Stati arabi? Un palestinese che nasce in Egitto, come in tanti altri Stati arabi “fratelli”, è un apolide, il che vuol dire che non ha accesso ad alcuni diritti basilari come lo studio e la sanità. Come spiegare agli Arabi, che oggi vogliono cacciare gli ebrei da Israele che i loro antenati avevano accolto la diaspora ebraica a Tunisi, in Marocco, al Cairo come a Istanbul, dopo la cacciata e la Reconquista dell’Andalus da parte della cattolicissima, ma poco compassionevole, regina Isabella di Castiglia? O come spiegare che il sionismo nasce in risposta alle persecuzioni degli ebrei prima con i pogrom in Russia e poi in Francia in seguito all’iniquo processo contro Dreyfus?».

All’ascolto e alla comprensione empatica delle esperienze di vita delle persone coinvolte in questo conflitto affida il suo ragionamento in chiave antropologica Giovanni Gugg, che legge l’ultimo libro di David Grossman, La pace è l’unica strada, per esplorare la complessa e sfaccettata identità della società israeliana segnata dal trauma collettivo dello stato di guerra permanente. «Ascoltare chi si oppone alle forme di oppressione e di discriminazione che alimentano il conflitto – conclude Gugg – è in linea con la prospettiva critica dell’antropologia sulle relazioni di potere e le gerarchie, e forse può rappresentare anche una sfumatura essenziale per passare dalla “antropologia della violenza e della guerra” ad una “antropologia della pace e della convivenza”». Dalle pagine di un altro libro di un autorevole storico israeliano Ilan Pappé, La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, muove le sue argomentazioni Elio Rindone, che descrive la scellerata “strategia del cuneo” adottata dalla politica degli insediamenti dei coloni. Con la frammentazione dell’integrità geografica i palestinesi sono stati in pratica privati della possibilità che si formi uno Stato unitario. Su questo fronte scrivono pure Vincenzo Meale e Enzo Pace. Il primo ci ricorda che l’affollata Striscia di Gaza è poco più estesa del comune di Olbia e, prima dell’attuale tragedia, la popolazione era stimata superiore ai due milioni, la gran parte profughi fin dalla nascita. Il sociologo delle religioni, Pace, ci informa infine degli effetti perversi poco noti prodotti dalla guerra, della morte di poeti palestinesi come Hiba Abu Nada e Refaat Alareer, rimasti uccisi sotto le macerie delle loro case, e dell’alto prezzo che sta pagando la minoranza cristiana che si trova tra i due fuochi, «tra i missili israeliani e la resistenza armata di Hamas». Quando la catastrofe di un’altra piccola nakba si compirà, il solco delle memorie divise sarà irrimediabilmente più profondo. 

Nel contesto di una ampia riflessione sul senso e sul logos del Diritto internazionale declinato nel lungo respiro della storia occidentale, Roberto Settembre ci riconduce alle dinamiche del dibattito sulla guerra, alle anguste categorie ideologiche che prevalentemente lo ispirano, ai paradigmi simbolici introiettati entro schemi cognitivi che rassicurano e confermano il pensiero pensato piuttosto che promuovere e incentivare il pensiero pensante. Da qui l’importanza del valore universale del diritto internazionale, tanto più debole quanto meno riconosciuto e legittimato dagli Stati ma pur sempre «strumento necessario a limitare i danni di un confronto tra i soggetti lasciato al dominio del diritto naturale», alla preistoria darwiniana del più forte. Di diritto scrive pure Luca Renzi, di Stato etico e Stato giuridico, in una suggestiva rilettura del mito classico di Ifigenia, attualizzato sui temi dell’accoglienza e dell’ospitalità destinati a segnare le fasi e le basi del processo di incivilimento del consorzio umano e di formazione delle coscienze sociali.

In questo numero le notazioni sul diritto si incrociano con quelle sulle migrazioni, sulle leggi italiane ed europee che regolano le politiche di ingresso e di gestione dei flussi, sulle norme di asilo e di cittadinanza. Ne discorre Luca Di Sciullo che denuncia i respingimenti illegali, il fallimento delle strategie di esternalizzazione delle frontiere, gli effetti strutturalmente disfunzionali dei Centri di permanenza per il rimpatrio, come da anni attestano i Rapporti del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Ma il presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS traccia pure un vero e proprio vademecum di proposte di revisione delle policy e della governance delle migrazioni, una dettagliata agenda di riforme del sistema di accoglienza e delle vigenti disposizioni sulla cittadinanza, viatico necessario e non più rinviabile per una piena ed effettiva integrazione. Passa in rassegna la normativa e, in particolare, i protocolli ministeriali in materia di integrazione scolastica Dario Inglese che legge dal punto di vista antropologico l’evoluzione dell’approccio italiano alla costruzione di una prospettiva teorica e metodologica interculturale, una direzione che, a giudicare dai recenti pronunciamenti ufficiali del Ministro del Merito dopo il caso della scuola di Pioltello, fa evidente fatica ad affermarsi.

Offre uno sguardo sulle stringenti relazioni tra migrazioni di massa e crisi climatiche e sulla rilevanza dei diritti dei profughi, la documentata ricognizione di Paolo Attanasio che, nell’analizzare i risultati delle periodiche Conferenze e delle diverse Convenzioni sulla salute del Pianeta, sottolinea i ritardi e le contraddizioni della comunità internazionale e delle sue organizzazioni rispetto alle scelte urgenti da operare per dare contestuale soluzione alle due questioni fortemente intrecciate. Queste complesse problematiche ambientali dialogano con l’etica della cura – intesa come opera concreta di manutenzione – di cui scrive Mila Casali, con un concetto di Natura e di naturalità affrancato da obsolete dicotomie così da superare il modello dominante di conservazione nei luoghi deputati alla protezione e imparare ad «immaginare un noi più esteso», comprensivo di una solidarietà al non umano, ad altre forme di vita. Dovremmo forse recuperare la lezione degli antichi Greci e Latini che – apprendiamo da Pietro Li Causi – «non separavano così nettamente gli umani dagli altri animali» né «avevano sviluppato un concetto analogo a quello della nostra wilderness, utilizzato a partire dal XVIII secolo per indicare romanticamente la natura nel suo complesso in uno stato primigenio e totalmente incontaminato dalla civilizzazione». Al contrario, era percepita «non tanto come un valore, quanto come una minaccia perturbante; il che – precisa lo studioso in conclusione – rappresenta una sfida a certi nostri modi abituali di pensare».

Il Mediterraneo resta come sempre il centro gravitazionale di molti dei testi presenti in questo numero. Nelle pagine dedicate alla Sardegna si propone una lettura plurale del volume di Gianfranco Bottazzi, E l’Isola va, opera interdisciplinare che parla di una regione «a diverse velocità – annota Nicolò Atzori – e dal rapporto sempre piuttosto problematico col concetto di modernizzazione, amante mai corrisposto, che ha francamente dimostrato di potere metabolizzare con grande difficoltà». Della Tunisia scopriamo la piccola città di Hergla che è stata nel 1968 set del film “Gli atti degli Apostoli” di Roberto Rossellini e in anni successivi di altre produzioni cinematografiche, esaltanti esperienze, ricordate dal regista Mohamed Challouf, che hanno permesso agli abitanti di aprirsi al mondo e di confrontarsi con altre culture. Diletta D’Ascia, a sua volta, ci fa conoscere il regista Nidhal Chatta, «un autore che ha avuto la capacità di coniugare le sue radici tunisine con una visione e un cinema di respiro e stile internazionale». Carmelo Russo dà conto delle complesse costruzioni identitarie maturate sulla base delle dinamiche interreligiose dei siciliani vissuti nel Paese nordafricano tra gli anni Trenta e Sessanta del secolo scorso; mentre Lorenzo Bonazzi e Mariza d’Anna raccontano singole storie di vita di questi emigranti.

Di contesti mediterranei si occupano nei loro scritti anche Annalisa Di Nuzzo, Rosario Lentini, Laura Leto, Aldo Nicosia, Ninni Ravazza, Maria Sirago, Sergio Todesco, ognuno riannodando fili di storie dimenticate, individuando peculiarità, invarianze, connessioni. Una penetrante indagine etnografica di Michela Buonvino sui rapporti tra performance culturali e politiche dell’identità ha per oggetto il Marocco contemporaneo, impegnato a “patrimonializzare” le tradizioni e le memorie storico-artistiche e ad elaborare «processi di formazione e consolidamento di un composito “apparato rituale e simbolico” destinato al contempo a ribadire e a trascendere la sua dimensione nazionale». In verità, a sfogliare attentamente il sommario, contaminazioni, ibridismi e sincretismi culturali sono fenomeni che ritroviamo in tante altre ricerche (Amenta, Bellucci, Bica, Cherchi, De Grazia, Fresta, Isgrò, Lombardo, Zaher), sia in vicende di migrazione o colonizzazione sia in transizioni di “modernizzazione” o di sperimentazione. Perfino nel film – “Povere creature” – selezionato nella rubrica degli “Sguardi sul cinema” (da questo numero a cura di Flavia Schiavo) è legittimo leggere nella avveniristica trasformazione del corpo della protagonista la metafora degli esiti estremi delle operazioni di commistione e patchwork culturale.

In questo numero sono convocate le memorie di diverse figure di personalità da poco scomparse, tra le quali i maestri siciliani della fotografia, Giuseppe Leone e Attilio Russo, ricordati rispettivamente da Paolo Giansiracusa e Giuseppe Muccio. Ne “Il Centro in periferia” che raccoglie i “cento fiori delle aree interne” Pietro Clemente compone un dolente e intenso epicedio che accompagna in un abbraccio fraterno il congedo «nei sentieri dell’ignoto mondo dell’assenza» di amici e colleghi (Gianluigi Bravo, Roberto Ferretti, Linetta Serri), con la testimonianza delle storie di vita in comune, il racconto delle esperienze di ricerca condivise, il rimpianto di legami umani spezzati. Di flash back di paesi e di città è contrappuntato il poetico rimemorare di Nino Giaramidaro che sulle tracce di Vittorini rievoca frammenti di un mondo che non c’è più anche se di esso resta pur sempre impigliato qualcosa tra il bianco e nero delle immagini. Che la fotografia ci aiuti non solo ad addomesticare il tempo coagulato nell’istante ma anche a ridisegnare la geografia della memoria, gli spazi vissuti, la mappa dei paesaggi osservati e dei luoghi abitati è qualcosa che trova puntuali corrispondenze nei fotogrammi del notevole album che chiude questo numero.

Il lavoro che oggi festeggiamo ci ricorda purtroppo altri lutti, altre perdite di vite umane, sacrificate alla cultura del profitto e dello sfruttamento. Ne sono vittime i lavoratori peggio pagati: i migranti, i braccianti, gli operai, gli edili e i riders, caduti nella clandestinità delle campagne, delle fabbriche, dei cantieri. Le tutele dei diritti alla sicurezza sono da anni indebolite dalla precarietà dei contratti e dalla parcellizzazione della catena degli appalti. Un sistema perverso che si regge sul taglio degli organici, ovvero sulla insostenibile compressione dei costi e sulla conseguente moltiplicazione dei carichi di lavoro stante la estrema ricattabilità dei lavoratori. I principi costituzionali della Repubblica fondata sul lavoro sono ogni giorno mortificati e traditi. «Alcune conquiste degli ultimi sessanta anni – scrive Pietro Clemente – sono messe a dura prova e rischiano di essere spazzate via». L’attuale inquietante deriva politica che restaura gagliardetti e manganelli minaccia di scardinare i fragili equilibri della democrazia, in un contesto internazionale di profonde incertezze e di paure collettive.

Ma nel giorno della Festa dei Lavoratori, volendo, nonostante tutto, celebrare la speranza di un cambiamento e di una nuova Liberazione, ci affidiamo alle parole di un altro giovane partigiano, Giame Pintor, lo scrittore caduto per la libertà il 1 dicembre 1943, a ventiquattro anni: «Si può essere pessimisti riguardo ai tempi e alle circostanze, riguardo alle sorti di un Paese o di una classe, riguardo a questi o a quegli uomini, ma non si può essere pessimisti riguardo all’uomo. Non lo si può, almeno quando si vuol fare della politica sul serio, essere cioè uomini prima di tutto. (…) Così il vero elemento discriminatore fra rivoluzione e reazione, questo sottile sostegno del giudizio storico, potrà apparire alla nostra coscienza chiuso nella più semplice delle formule: la sorte dell’uomo di fronte ai suoi simili». Sono parole tratte da alcuni suoi scritti raccolti nel volume Il sangue d’Europa (Einaudi 1950). Un titolo che fa riferimento ai sentimenti di convinto europeista che lo animavano, all’altissimo prezzo pagato per il riscatto del vecchio continente dalla devastante esperienza della Seconda Guerra mondiale. Parole e sentimenti che sembrano voler richiamare alle nostre coscienze di oggi l’appello morale e civile a “restare umani” e che forse dovremmo tenere a mente mentre ci prepariamo a rinnovare il Parlamento dell’Unione Europea. 

Buon Primo Maggio!

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024

 

 

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Editoriali. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>