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EDITORIALE

Città di Shiraz, Moschea di Nasir ol Molk

Moschea di Nasir ol Molk, città di Shiraz, Iran (ph. Nahid Rezashateri)

A quanti osservano con attenzione questa foto a lato (cliccate per ingrandirla) non sfuggirà la singolare e suggestiva composizione che coglie una giovane donna con il capo coperto, i jeans e le scarpe sportive sotto la volta di una moschea tra i preziosi intarsi decorativi alle pareti, un cellulare tra le mani e un computer portatile accanto. Siamo in Iran meridionale, nella città di Shiraz, nella moschea di Naisir ol Molk e la fotografia scattata dall’iraniana Nahid Rezashateri sta insieme ad altre nell’album di immagini che come sempre chiude questo numero. L’apparente dissonanza degli elementi compositivi fotografa il mondo islamico contemporaneo che si dibatte nel difficile equilibrio generazionale tra tradizione e modernità, religione e tecnologia, norme sociali e libertà individuali. In Iran la tradizione si chiama sharia, la religione teocrazia, le norme sono quelle vigilate dalla cosiddetta polizia morale e ispirate al fondamentalismo di certe distorsioni del Corano. La legge della Repubblica, incestuosamente intrecciata con quella di Dio, obbedisce alla volontà del Leader Supremo, agli arbitri dei Pasdaran, alle perversioni del potere. Così quel complesso e delicato equilibrio si è oggi spezzato sotto i colpi di un regime sempre più tirannico e dispotico, di un totalitarismo che odia le donne e perseguita il dissenso. 

Daliran che in farsi indica l’attitudine al coraggio e dà il nome ad un villaggio dell’antica Persia è il titolo del contributo fotografico e sembra perfettamente definire e riassumere lo spirito che muove i giovani alla rivolta contro questo cieco assolutismo politico, contro il bieco sistema liberticida che ostenta in piazza la morte per impiccagione, sequestra i corpi senza vita, reprime e tortura i dissidenti. È una sfida che combattono a mani nude, con la sola arma dei loro corpi, protagonisti – i corpi – della restaurazione e della repressione ma anche della disobbedienza e della rivoluzione. Si stenta a chiamare rivoluzione questo moto collettivo originato dal gesto oltraggioso delle giovani donne di mostrare piccoli ciuffi di capelli fuori dal velo, un’azione motivata ad una lettura superficiale da banali scelte di costume, stili di abbigliamento. Ma si sa il velo non è soltanto un capo di abbigliamento, è segno denso di significati, simbolo all’incrocio di diverse appartenenze politiche e religiose, ha a che fare con diritti e doveri, pubblico e privato, etica della soggettività e responsabilità sociale.

Almeno due sono i lati del velo – puntualizza Antonello Ciccozzi nel suo denso intervento in questo numero – distinguendo «tra scelte e obblighi, e quindi ragionando in modo prioritario sul rapporto e sulle differenze che intercorrono tra Islam e islamismo». L’antropologo approfondisce le complesse implicazioni del sinistro passaggio dal piano religioso a quello giuridico, dall’Islam alla Sharia, chiarisce che «se tutti gli islamisti sono musulmani non tutti i musulmani sono islamisti», che una cosa è la donna che decide liberamente di indossare il velo, tutt’altra cosa è l’imposizione quale strumento di sottrazione del suo corpo dalla società. «Le donne e gli uomini che in questi giorni muoiono in Iran muoiono anche per noi – spiega Ciccozzi – muoiono perché vorrebbero vivere in una società dove la religione non è tradotta in obbligo di legge che domina tutti gli aspetti della vita quotidiana fino agli interstizi più intimi dell’esistenza. Lo fanno anche per invitarci a toglierci certi paraocchi ideologici: hanno il coraggio che noi non abbiamo nell’affrontare il contagio islamista che ha ingabbiato la loro società, e che da anni dilaga nel mondo musulmano e nel mondo intero». 

Le vecchie questioni intorno alla polisemia del velo sembrano oggi in Iran investite e travolte da un nuovo e impetuoso vento di libertà, agitato dal protagonismo della gioventù, sostenuto dall’autodeterminazione femminile, alimentato da desideri, rabbia, intrepide passioni, dignità e idealità incorporate nel conflitto con le autorità, siano esse familiari, patriarcali, confessionali o statuali. A guardar bene, nel corpo sono coagulate e sussunte tutte le poste in gioco, i destini di questa rivoluzione di cui non conosciamo gli esiti ma le cui ragioni sappiamo non essere effimere essendo connesse a dinamiche di genere e di generazione, alla dirompente vitalità e volontà delle donne e dei giovani, alla forza di emancipazione che sapranno esercitare. In questo contesto, il corpo censurato e conteso, offeso e violentato è trincea da difendere e da riscattare, oggetto e soggetto della lotta politica, luogo di confine e di frontiera della vita non solo biologica degli individui. Nello scontro con il potere è il campo di battaglia, ostaggio e oltraggio, tabù e scudo, identità da sacrificare e da rivendicare, da disciplinare e da liberare, da cancellare e da ribadire. La rivoluzione che si risolve in questo drammatico corpo a corpo sembra essere in definitiva – al di là delle istanze etniche, ideologiche o etiche – la rappresentazione della sfida della vita contro la morte, della libertà contro il sessismo istituzionalizzato, contro l’egemonia maschile del martirio. Di necropolitica khomeynista scrive appunto Enzo Pace, ovvero delle implicazioni dottrinarie della teocrazia iraniana connesse alle torsioni della tradizione sciita. Il sociologo delle religioni ne spiega la visione escatologica che si spinge a giustificare «la disponibilità al sacrificio della vita per il trionfo della verità», una prospettiva in cui «i corpi (soprattutto, quello della donna) devono essere disciplinati, mortificati ad majorem Dei gloriam». 

Se scorriamo le pagine di questo numero – ancora una volta ricco di contenuti plurimi e di ibride sollecitazioni culturali – scopriamo in verità che il corpo è al centro di non pochi contributi, passepartout di molti ragionamenti intorno a temi e concetti diversi. Laura Sugamele approfondisce la questione dell’uso delle tecnologie in ambito riproduttivo che rischia di esporre il corpo delle donne a inquietanti processi di colonizzazione e di reificazione: «corpi privati della propria autodeterminazione e condizionati – su un piano strettamente sociale – ai fini del raggiungimento di una maternità “a tutti i costi”». Corpi assimilati a beni di consumo, negoziabili e interscambiabili all’interno di logiche economiche e dinamiche biomediche. Problemi complessi di biotecnologia e di biopolitica che nell’evoluto mondo occidentale della postmodernità possono ancora una volta sottoporre il corpo femminile a nuove forme di controllo patriarcale. Anche nello sport, «una delle espressioni massime della fisicità», il corpo – chiarisce Aldo Aledda –sembra spinto dalle illimitate potenzialità della scienza e della tecnica a pratiche e prestazioni sempre più estreme restando rovinosamente dipendente dalle pressioni mediatiche e politiche. 

Del corpo del sovrano traccia un attento profilo antropologico Nicola Martellozzo, che muovendo dalla comparazione dell’incoronazione del principe Misuzulu in Sudafrica con quella di Carlo III in Inghilterra, identifica i comuni tratti strutturali che garantiscono la stabilità dell’istituzione regale vecchia di secoli – «laddove perfino imperi e democrazie scricchiolano» –, unitamente ai dispositivi culturali che ne modellano e legittimano il potere. Se l’antropologo indaga sugli aspetti performativi delle autorità al trono nel mondo etnografico della comunità zulu, il filosofo Alberto Biuso sulla scia di James Hillman mette a fuoco i nessi tra mito e corpo per sottolineare il ruolo di quest’ultimo nelle scaturigini e nella evoluzione della guerra che è sempre «causa e scopo a se stessa; corso costante della storia; condizione dell’anima; fondamento del cosmo dai batteri alle stelle (Eraclito); un disperato e lucido rito per tenere a bada il morire». Ai monoteismi lo studioso finisce coll’associare «la forma più universale, più distruttiva e più naturale della ὕβρις,», quella «visione monoculare che trasforma le religioni del Libro in una formidabile macchina di aggressione reciproca». 

Il corpo si fa simulacro di nazione nel culto che celebra la triade Dio, Patria, Famiglia. Ne scrive Roberto Settembre che scandaglia il mito della virilità e della sessualità prevaricatrice, l’aura di sacralità che ‘incorpora’ «le tre entità terribilmente gerarchiche, ciascuna delle quali esercita il suo dominio sui suoi sottoposti e lo esercita in modo così totale da trascendere ogni forma di diritto». Da qui – spiega l’ex magistrato – deriva il primato politico di questo motto sull’altra triade di matrice illuministica: Libertà, Fraternità e Uguaglianza, che la storia ha presto ridotto al «binomio inconciliabile: o l’Uguaglianza cancellava la Libertà, o la Libertà cancellava l’Uguaglianza (Capitalismo vs. Socialismo)». Della Fraternità – aggiunge – sembra non importare a nessuno. Anche «gli scenari del dopo sindemia non rispettano alcuna delle promesse di “nuovo inizio” messe in circolazione durante il periodo di massima chiusura», fa presente Lauso Zagato. L’esperienza della microscopica creatura incistata nei corpi non ha prodotto alcuna palingenesi, pur avendo minacciato l’integrità e la struttura stessa del ‘corpo’ sociale. Anzi, «l’incanaglirsi della situazione generale e il diffondersi della sanzione culturale-sociale, all’insegna di una inevitabile reciprocità, portano con sé l’espandersi di atteggiamenti di chiusure identitaria».

In questo numero il corpo ricorre anche nella recensione di Nicolò Atzori al libro di Paola Atzeni che ha studiato la cultura materiale con particolare attenzione ai gesti tecnici del lavoro femminile in Sardegna, a quel prezioso patrimonio di «saperi, conoscenze e abilità incorporate riferibili alla cultura contadina». Ancora il corpo è in primo piano nella poesia di Patrizia Cavalli che, abitata dalla malattia – annota Francesca Traìna – «si appropria della fisicità restituendola nel linguaggio, perché noi siamo il nostro corpo scrive la poeta». E dalla prossimità dei corpi negata dalla tragica contingenza pandemica muove la riflessione di Vita Fortunati sulla solitudine vissuta sempre più come patologia diffusa, «una grave “epidemia comportamentale” che investe non solo gli anziani, ma anche gli adolescenti, i giovani e gli adulti in tutte le parti del globo». 

Merce e scarto infine sono i corpi dei migranti senza nome e senza identità, da smistare, sequestrare o respingere, incarnazione della nuda vita, “carichi residuali” nelle parole ministeriali che nella crisi del linguaggio rivelano – osserva Gianluca Serra – «quella ben più profonda del pensiero». Il tema dell’immigrazione resta come sempre crocevia di analisi di diversi contributi. Elena Nicolai studia i flussi dell’Africa, ne spiega genesi e sviluppi e decostruisce alcuni stereotipi interpretativi, «oltre la provvisorietà (anche delle promesse) che proiettano parole simulacro quali emergenza e accoglienza». Roberto Angrisani critica il piano di azione dell’Unione Europea ispirato ad una politica miope di esternalizzazione del controllo delle frontiere, legando così il proprio destino «alla buona volontà e agli incentivi economici degli Stati vicini da cui partono o transitano i migranti». Leggasi Libia, Tunisia, Egitto e Turchia: Paesi inaffidabili o incontrollabili. Benedetto Coccia e Antonio Ricci ragionano sul diritto d’asilo a 70 anni dalla Convenzione Onu sui rifugiati rilevandone «il progressivo declino e svilimento» e denunciando la perniciosa metamorfosi politica e culturale dell’immagine dei richiedenti asilo: «da soggetti meritevoli di protezione a migranti internazionali non autorizzati, insomma degli “ospiti indesiderati”».

Franco Pittau dà seguito alla sua circostanziata indagine sugli italiani in Canada, mentre Paolo Attanasio presenta i risultati di una attenta ricerca sull’associazionismo degli stranieri in Alto Adige, un fenomeno ancora poco studiato che rappresenta uno strumento relazionale strategico per il posizionamento degli immigrati in rapporto alla società di insediamento e nei confronti della comunità etnica di appartenenza. Dialoga con questa indagine quella che Maurizio Ambrosini dal canto suo riferisce essere stata condotta in Lombardia sul pluralismo religioso correlato alla presenza degli stranieri, una realtà inedita per la storia sociale italiana, che conferma il protagonismo degli immigrati, la loro capacità di organizzarsi con modalità ampiamente autonome. «Le religioni – scrive il sociologo – sono un terreno privilegiato di costruzione e rinnovamento di legami transnazionali» e costituiscono nello stesso tempo gli apporti più visibili e significativi delle appartenenze culturali delle popolazioni immigrate. «Sradicate e trapiantate in nuovi contesti, pur scontando anch’esse processi di secolarizzazione, trovano nelle proprie tradizioni religiose un ancoraggio identitario, un collante sociale, una fonte di speranza e solidarietà».

Di altri studi e inchieste sulle dinamiche della religiosità in Italia dà conto un altro sociologo, Roberto Cipriani, che sottolinea la prevalente dimensione della riflessività e dell’incertezza insieme alla «ricerca di modalità spirituali alternative, attraverso esperienze originali e ulteriori vissuti, dichiaratamente anti-istituzionali». Da altra prospettiva antropologica Elisabetta Dall’Ò e Giovanni Gugg ragionano sull’ampia sfera del sacro, una vera e propria geografia all’interno della quale si collocano le strategie che le comunità organizzano per ritualizzare gli eventi climatici e disastrosi che segnano il loro destino. In particolare gli autori compiono una puntuale ricognizione delle cerimonie che si svolgono nei ghiacciai per celebrarne i funerali, requiem che «permettono di sentire più chiaramente e più intimamente il processo epocale che stiamo vivendo, intensificando il senso di connessione con gli altri – umani e non umani – e con l’ecosistema». Su un altro piano, interrogandosi sul tempo – non meteorologico ma cosmico e storico – tra scienza e teologia Leo Di Simone auspica che le religioni siano «catalizzatrici di una comune filosofia dello spirito», cessando di chiudersi «in recinti sacrali, confessionali e istituzionali, presumendo un loro monopolio della verità e della cognizione della divinità».

Ai temi dell’ecologia, dei rapporti tra umani e non umani e, più in generale, tra natura e cultura si riconnette il dialogo tra Sandra Burchi e Fabio Dei, i quali riflettono con approcci diversi sulla stessa mostra di sculture in terracotta di Monica Mariniello. Una ricerca artistica che assemblando simboli, codici e linguaggi figurali eterogenei dà vita a «un immaginario ibrido e metamorfico» e induce ad una rilettura critica delle categorie di “civiltà” e di “selvatichezza”, evidenziandone l’inestricabile intreccio. La verità è che più dell’antropologia e della speculazione intellettuale l’arte, il lavoro sulla materia e sui segni, può, a volte, meglio rappresentare «i legami fragili e potenti tra gli esseri viventi che popolano il pianeta». Per altra via ma con sottesa affinità di idee e di visione Pietro Clemente ci conduce a Pieve Santo Stefano per ragionare sul noto Archivio che «accoglie storie in fuga dai margini», forme diverse di scrittura autobiografica e modi diversi di fare letteratura: «un mondo nuovo di scrittori che si esprimono in una lingua italiana non impoverita ma anzi arricchita dall’esperienza di mescolanza con il parlato, dalla pluralità dei riferimenti testuali, dal piegare all’urgenza del discorso una lingua ostile che spesso si trasforma e viene plasmata in modo originale e con straordinaria potenza narrativa». L’importanza nella storia del nostro Paese delle istituzioni culturali come quella di Pieve è ribadita dall’intervento di Antonello Ricci che descrive un interessante excursus storiografico della demologia italiana attraverso le esperienze fondative delle associazioni protagoniste della formazione di tutta una generazione di studiosi attorno ai maestri del secondo dopoguerra. Nell’alveo degli archivi degli studi è infatti convogliata «l’attività di ricerca etnografica e la molteplice produzione documentaria, a costituire una rilevante stratificazione di memorie dei territori italiani, oggi al centro di interessi patrimonialistici di varia natura e differenti aspettative». Da qui «le solide e qualificate radici culturali e scientifiche che sono alla base della presenza dei beni culturali DEA nella pubblica amministrazione», competenze e professionalità da riconoscere e valorizzare.

Del tanto rimasto fuori dalla improbabile sintesi tentata in questo editoriale affidiamo la lettura a coloro che sfogliando il sommario avranno modo di analizzare, per esempio, «l’idea di educazione, che si avvicina più a una specie di addestramento» nella concezione della scuola ispirata alla cultura della destra (Inglese); oppure il lungo e contrastato percorso di emancipazione degli indigeni in Canada dalle pratiche di segregazione imposte dai vari trattati incaricati di regolare la gestione e lo sfruttamento delle risorse naturali dei territori nativi (Armano); ovvero l’auspicata istituzione di una Via siciliana dei gessi così da far diventare «questa risorsa naturale e culturale, diremmo “pacifica” dati i suoi usi civili, uno strumento per conoscere meglio le ricchezze dell’Isola», anche in funzione di una intelligente politica culturale del turismo (Castiglione). Tra le tante altre proposte è possibile incontrare Antonio Gramsci narratore di favole a proposito di un libro illustrato da poco edito (Bruschi, Sorce), si può capire la complessa e controversa percezione del darwinismo da parte del mondo islamico (Altradonna), si possono apprezzare gli straordinari documenti musicali della tradizione popolare siciliana, appartenenti a quella tipologia di antichi componimenti poetici conosciuti con il nome di Contrasto e diffusi nelle letterature romanze dei primi secoli (Fugazzotto, Sarica), si può infine partecipare al rito dell’immaginario simbolico rappresentato dal serpente/maschera antropomorfa attraverso la sequenza delle immagini fotografiche che raccontano la festa di san Rocco a Butera (Pagano). Ma la rivista come sempre offre, in tutta evidenza, tanto altro da leggere, da scoprire, da approfondire.

Anche in questo numero le pagine del “Centro in periferia” sono particolarmente ricche di stimoli, ricerche, attività e idee da dibattere, siano essi i problemi dello spopolamento delle aree interne e marginali, la vita e le progettualità degli ecomusei e delle cooperative di comunità, la fragilità dei territori e le prospettive delle “green community” e del turismo rurale. Emerge l’ampio catalogo di questioni spinose legate all’attualità ma anche la mappa di una Italia che cerca di arrestare il crescente ed impetuoso processo di depauperamento demografico. «Si ha spesso l’impressione – scrive Pietro Clemente – che l’abbandono sia visto come un fenomeno ineluttabile da assecondare, una idea che misura soprattutto la cecità della politica». Ma a guardare nei tempi lunghi, nuovi orizzonti di possibilità si aprono sul fronte dell’accoglienza. «Non quella del turismo nelle varie forme, che pure è importante e domina il dibattito, ma quella dei nuovi migranti del mondo, che sono la risorsa principale per contrastare uno spopolamento che è anche denatalità radicale. Un tema questo ancora ostico nelle proposte e nelle discussioni». Tanto ostico e urticante da essere invisibile allo sguardo dei rappresentanti politici della cosa pubblica.

A voler tracciare un approssimativo bilancio dell’anno che ci lasciamo alle spalle, esso sembra chiudersi in fondo così come si era aperto: l’ombra minacciosa della pandemia ancora in agguato, la guerra in Ucraina scoppiata a febbraio tuttora sanguinosissima e assai lontana dal preparare tregue e negoziati, la frammentazione molecolare del tessuto connettivo e la povertà sempre più profonda ed estesa nella società italiana (“Folla mai vista alle mense dei poveri a Natale: diecimila persone in coda”, titolava il Corriere della sera), l’epocale fenomeno delle migrazioni impantanato in una drammatica coazione a ripetere, irretito nell’eterno dibattito sulla sicurezza e l’ordine pubblico, la difesa militare dei confini, il rinnovato e scellerato patto a sostegno della guardia costiera libica, l’odiosa criminalizzazione dei salvataggi in mare ad opera delle organizzazioni umanitarie, la tragedia degli ennesimi naufragi, molti dei quali senza testimoni.

In questo scenario Dialoghi Mediterranei continuerà ad essere spazio elettivo del confronto e del libero esercizio del pensiero critico, continuerà a connettere voci, saperi  e mondi diversi nella consapevolezza che, come ha scritto nel suo pamphlet La grande migrazione, uno degli intellettuali tedeschi più autorevoli, Hans Magnus Enzensberger, scomparso poco più di un mese fa: «Quanto più tenacemente una civiltà si difende da una minaccia esterna, quanto più si chiude in se stessa, tanto meno alla fine ha da difendere. Quanto ai barbari, non è necessario aspettarli davanti alle porte della città, sono qui da sempre». I barbari sono infatti in mezzo a noi. I barbari siamo noi.

Buona lettura e buon anno a tutti!

Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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