Stampa Articolo

EDITORIALE

img_6155

Foto di Licia Taverna

Ripartire, ripartenza. Sono le parole d’ordine che irrompono nelle nostre giornate appena rischiarate dalla fine del confinamento entro le pareti domestiche. E come tutte le parole d’ordine hanno un’eco un po’ sinistra, un timbro militaresco, un’enfatica ridondanza. Dopo “Andrà tutto bene” che era formula magico-propiziatoria il pressante invito a ‘ripartire’ muove corde emotive, sollecita orgogli patriottici, fa appello alle Frecce Tricolori per ricordarci di essere italiani. C’è sempre bisogno in questo Paese di farne memoria con il vecchio e consumato armamentario della retorica, con l’aria pucciniana di Nessun Dorma, con l’ostentato catalogo dei nostri presunti primati. I miti, insegnano gli antropologi, non sono inerti prodotti di fantasia, vanno presi sul serio, sono formidabili sistemi simbolici di ordinamento e di plasmazione del pensiero. Ci dicono quello che gli uomini nascondono a se stessi, quel che dissimulano, temono, desiderano, immaginano.

Nella mitologia in cui siamo immersi la ripartenza sembra evocare stagioni felici ed eroiche del nostro passato, un tempo fecondo di energie creative e costruttive, l’esperienza storica esemplare che fa dire che “gli italiani danno il meglio di sé nelle situazioni peggiori”. Sarà vero ma la dismisura dell’epos e la reiterazione dell’historiola finiscono coll’insinuare dubbi, legittimare scetticismi, accentuare la dissonanza dello spot rispetto all’asprezza del dolore collettivo e dei lutti individuali da rimuovere, da dimenticare. «Forse – scrive Pietro Clemente – a vedere dalla pubblicità e dalle dichiarazioni dei politici, una delle conseguenze psicologiche della pandemia è stata quella di una spinta irresistibile di rivalsa, dopo la quarantena, che ha prodotto un narcisismo iperbolico». A guardar bene, l’ottimismo della propaganda e l’imperativo della crescita che oggi ci assalgono stridono con lo stato di apnea in cui siamo costretti, il cenno al posto del saluto, la distanza da misurare, la mascherina che ripara la bocca e nasconde il sorriso. Una sindrome di cronica instabilità, di incerta fluttuazione, ancora appesa ai bollettini quotidiani del contagio, in bilico tra la irresistibile spinta alla progressione e la perenne insidia della regressione.

Ripartire, ripartenza. Come gli antichi Greci anche noi prima di intraprendere il nuovo percorso consultiamo gli oracoli, oggi incarnati nelle sacre figure del comitato tecnico-scientifico. E come i vaticini degli aruspici i responsi degli scienziati non sono paradossalmente meno ambigui e oscuri a fronte di un futuro che rimane ostaggio di un piccolo e invisibile fantasma, più potente delle nostre presunzioni immunitarie, più sfuggente delle nostre vulnerabili certezze. Tra le tante lezioni che possiamo imparare dalla pandemia – al di là delle illusorie palingenesi e degli ingenui affidamenti nelle “magnifiche sorti e progressive” – la più profonda e vera è probabilmente quella che decentra e destruttura la nostra postura nel mondo, la nostra agentività nel sistema che abbiamo con supponenza denominato Antropocene. «Ci siamo pensati – nel bene o nel male – come gli unici responsabili del disastro climatico in corso così come della possibile inversione di rotta, quando invece potrebbe darsi il caso che siano ben altri agenti, i batteri, i germi, i virus – e non gli esseri umani – ad arrestare un processo che, come se fossimo un nuovo Prometeo collettivo, nella nostra follia antropocentrica ci siamo abituati a pensare come plasmato da noi e su di noi». Così scrive Pietro Li Causi che, nel raccontare il destino in cui è andato incontro l’Impero romano a seguito di epidemie del vaiolo e peste bubbonica, ci invita a «sgomberare definitivamente il campo dall’idea naïve di una possibile armonia fra l’uomo e la natura», ad «uscire dalla prospettiva asfittica del presentismo (e del ‘prometeismo’ umano) per guardare il lento procedere del passato, il complesso sedimentarsi dei cambiamenti e delle loro concause».

Ecco perché forse più delle scienze epidemiologiche può soccorrere le nostre insicurezze la conoscenza della storia, la prospettiva diacronica se non comparativa. Lo storico Rosario Lentini ha voluto traversare i secoli e gettare lo sguardo più in là del nostro angusto orizzonte per ricordarci che «prima della comparsa degli esseri umani, i batteri e i virus erano già residenti della Terra e, conseguentemente, dal loro punto di vista, siamo noi gli ospiti divenuti sempre più ingombranti e modificatori dellʼhabitat comune. I virus possono uccidere, ma lʼimprevidenza e gli errori umani precostituiscono le stragi di massa». La questione ambientale così ripensata, mentre decostruisce il concetto tradizionale di natura, si incrocia drammaticamente con la questione sociale, così che Lentini si chiede: «gli accampamenti improvvisati di cartone e lamiera dove in Italia e nel mondo sopravvivono, tra batteri, blatte e topi, milioni di migranti, di nuovi schiavi e di senzatetto costretti a dormire ai confini di nuovi muri, di chilometriche barriere di filo spinato, per strada, nelle panchine o nei sottopassaggi, non sono forse la prova evidente di una patologia economica divenuta ormai endemica?».

Ripartire, ripartenza. Ma da dove, verso dove? Siamo sicuri che “nulla sarà come prima”? Cambierà, ad esempio, la politica dell’immigrazione? Avranno séguito le parole del presidente Mattarella che, in occasione della Giornata del Rifugiato, ha affermato: «l’impatto della pandemia aggrava la già critica condizione di quanti, a causa di conflitti o per la violazione di diritti fondamentali, sono costretti a fuggire dal proprio paese»? E cosa possiamo rispondere alle domande che Cinzia Costa, nel contributo in questo numero sul razzismo in Italia, ci pone: «Dove eravamo quando il 3 febbraio 2018 un militante di estrema destra andò in giro per le strade di Macerata a sparare a tutte le persone nere che gli capitavano sotto tiro? Dove eravamo quando avremmo potuto e dovuto difendere le vite di Samb Modou, Diop Mor, Munkail Kailu Osman, Sacko Soumaila prima che fosse troppo tardi? E dove saremo domani? Quando allo stadio qualcuno insulterà un calciatore di origine straniera invitandolo a mangiare banane? Quando un’altra ONG verrà bloccata nel Mediterraneo, e un altro barcone naufragherà? Dove saremo quando il prossimo parlamentare proporrà l’ennesimo decreto discriminatorio e incostituzionale?».

Interrogativi non risolti che il tempo liminare e confuso moltiplica e addensa come ombre su ogni nostro sperare e progettare. Perché il coronavirus non ha cancellato le questioni aperte ma le ha se mai acutizzate, se pure nel silenzio dei mezzi di comunicazione. Così il tema dei migranti e dei respingimenti, dell’intolleranza e della violenza razziale contro gli stranieri, tanto più crudele e gratuito nella drammatica contingenza che li trasforma in maledetti untori, in appestati. Dopo l’omicidio negli Stati Uniti di Floyd e l’immediata e rabbiosa protesta dei movimenti degli afrodiscendenti in tutto il mondo, Lisa Regina si chiede cosa significhi oggi essere bianchi in una società razzista: «Cosa fare attivamente per condividere l’obbiettivo? Il problema grande del razzismo nel mondo è appunto il bianco tiepido, che di fatto non percepisce il problema, lo sminuisce, lo interpreta». Il recente caso della liberazione della cooperante Silvia Romano, la sua conversione all’Islam e le reazioni dei social e dei media, sollevano non meno inquietanti domande sulla cultura politica e sullo spirito pubblico del nostro Paese, sui pregiudizi ideologici in rapporto alle diversità e ai diritti delle minoranze. Ne propone un’attenta lettura Giovanni Cordova che in questo numero passa in rassegna le narrazioni critiche sulla conversione, uno scandalo in sé, «in quanto contiene un gradiente corrosivo e disgregante rispetto agli isomorfismi tra Stato, cultura e nazione. Il passaggio da una confessione religiosa a un’altra viene letto da molti tra giornalisti e politici come un segno di irriconoscenza di fronte agli sforzi che l’Italia ha compiuto per riportare la cooperante a casa». Una tesi largamente condivisa in modo più o meno scoperto che denuncia non solo la vitalità di retoriche islamofobiche ma anche le debolezze di certo cosmopolitismo multiculturale e le diffuse resistenze alla convivenza interetnica e al pluralismo religioso. Nei social si trovano ampie conferme di questa torsione plebea del senso comune, esacerbato dal mezzo «dove tutti possiamo parlare di tutto», tant’è che sull’argomento “Romano” Riccardo Talamo ha trovato testi e sottotesti ripugnanti, «a sostegno di una volgare e immorale estetica del turpiloquio che si nasconde dietro ad una confusa ed impropria libertà d’espressione». Forse è vero che questa infima particella di materia organizzata è stato enzima catalizzatore non solo del meglio di noi in fatto di spontanea solidarietà ma anche del peggio di noi, come documenta la carica virale di bile riversata sul circuito dei network.

Ripartire, ripartenza. Un refrain che nell’accelerazione della rimozione della pandemia rischia di travolgere e cancellare la memoria di quanto è accaduto, del «pianto confinato», come scrivono Giovanni Gugg e Simone Valitutto, dei nomi dei «tanti morti trasfigurati da corpi malati a dati statistici, non pensabili perché invisibili», del rito dell’addio negato così che «il non poter dare un senso alla morte riproduce la distanza tra sapere e comprendere, tra spiegare e sentire». Lo ribadisce con affettuosa commozione anche Pietro Clemente nel ricordare la scomparsa del filosofo Giulio Giorello, vittima del Covid, che «per la sua notorietà e per la sua umanità, ci aiuta a pensare tutto questo mondo di morti, a esserne figura di riferimento. Ci aiuta a tenere aperto il bisogno di cordoglio che pesa su di noi». Quanto profondo sia il trauma prodotto dalla crisi del virus lo spiega Angelo Villa, psicanalista, che sa bene «come un tema come quello della cosiddetta guarigione sia un tema complesso, non riconducibile a un semplicistico e fallace “restitutio ad integrum”, come uno sbrigativo “happy end” che tutto risolve, dimenticando o rimuovendo quel che non solo il sintomo, ma la vita stessa insegna, giorno dopo giorno, alla clinica». Per questo preferisce parlare di una clinica della testimonianza, che «è per sua natura un’anti teoria, poiché fa obiezione alla teoria stessa con la lucidità di una parola che si impone di per sé e che tende, di fatto, a rimanere lì, presa nell’atto in cui si manifesta». Alla funzione maieutica della parola come memoria e come cura Vito Teti affida il suo lemmario della pandemia che anche in questo numero continua a declinare, come i grani di un rosario da sillabare. Scrive della madre e delle sue paure, che risalivano alle storie e alle pene familiari, nulla a che vedere con le paure ‘metafisiche’ del nostro tempo che ci rendono «impotenti, deboli, insicuri, (…) paura di un futuro che non riusciamo più a immaginare». Scrive, Teti, dei paesi del Sud svuotati dall’esodo di ieri e di oggi, del ritornare o del restare di quanti tra i giovani progettano «una rigenerazione dei luoghi, (…) un “ritorno” diverso dal passato alla terra, all’agricoltura, a pratiche di elaborazione e trasmissione culturale».

Nei “Dialoghi oltre il virus” c’è infine chi riflette sulla scuola, sull’insegnamento a distanza, sulle esperienze di inedite relazioni tra generazioni che si sono attuate durante il periodo della quarantena. Ne scrivono dal Marocco Naima Boufera e Abdelkrim Elalama che hanno svolto una ricerca presso gli studenti dell’Università di Rabat. Valeria Dell’Orzo osserva come nel confronto tra docenti e studenti «l’irruzione della società adulta all’interno di uno spazio che vede nei più giovani i suoi attori principali, creatori e fruitori di tendenze, traducibili in veri sistemi di comunicazione e aggregazione, ha fatto sì che quello spazio, virtuale ma presente nel concreto di tutti, si alterasse nel sentire diffuso, divenendo il principale luogo di transito comunicativo, non solo a uso mediatico, politico e economico, ma anche intergenerazionale e scolastico». Dario Inglese ha sperimentato «sul campo formule nuove in mezzo a mille difficoltà: frantumazione del sistema-classe e risignificazione della relazione pedagogica dovute alla distanza fisica, scarsa dimestichezza con la tecnologia digitale e difficoltà di accesso a dispositivi tecnici adeguati (condizione valida tanto per i discenti quanto per i docenti). Un vero e proprio lavoro congiunto il cui fine è stato essenzialmente uno: ricostruire uno spazio di comunicazione».

Ripartire, ripartenza. Al concitato invito a riaccendere i motori, a riavviare la macchina dei consumi e la spirale di una crescita, «divenuta nel frattempo – come ha scritto la filosofa Donatella Di Cesare nel suo pamphlet Virus sovrano? – un’escrescenza incontrollabile, senza misura e senza fini», si può forse opporre quel “passo indietro del torero” a cui fa cenno Clemente nonché «i passi barcollanti come quelli all’uscita da una lunga cella d’isolamento» con i quali Nino Giaramidaro dà simbolicamente inizio all’«avventura del quarto d’ora d’aria» dopo la fine della quarantena. Su questo fronte di consapevole resilienza e di critico ripensamento dei modelli di sviluppo e di vita collettiva, Dialoghi Mediterranei continua ad offrire l’antologia sempre più ampia di contributi che, raccolti sotto il titolo di “Il centro in periferia”, raccontano storie, progettano reti associative, documentano esperienze nuove di recupero dei piccoli paesi, senza nostalgici e anacronistici ripiegamenti al passato ma immaginando futuri possibili per comunità fragili e tuttavia ancora vive. «Comunità – per usare le parole di Luigi Vitelli – da cui è necessario ripartire per inventare un nuovo welfare sociale e culturale. Che ci sbattono in faccia l’urgenza di ricominciare proprio da quelle rovine, da quei luoghi tralasciati dal neoliberismo, dai piccoli paesi degli appennini e delle montagne. Che ci mettono di fronte alla necessità di aprire un nuovo cantiere di immaginazione per guidare la transizione ecologica e umana e rifondare, non solo simbolicamente, i luoghi del margine attraverso una nuova cultura della cura».

In questo numero, così denso di testimonianze e di ritratti (tra tutti quello della giovane attivista tunisina Ben Mhenni, a cura di Emanuele Venezia), abbiamo voluto ricordare il grande scultore siciliano Pietro Consagra nel centenario dalla nascita e a quindici anni esatti dalla morte; e lo abbiamo fatto recuperando le parole dei suoi libri e quelle di chi lo ha conosciuto o ne ha semplicemente apprezzato e studiato le opere. Più voci e prospettive diverse per restituirci l’uomo, l’artista, il «maestro e pioniere della cultura astratta internazionale» (Modica G.), «un visionario contemporaneo» (Tosco), «una delle pagine fondamentali della storia dell’arte del secondo dopoguerra in Italia» (Modica M.), con «un’idea di arte – di forma – che di per sé rimanda ad un dialogo col mondo e un nuovo orizzonte della scultura, quale territorio di incontro, di scambio umano e sociale» (Pasinati). «Una voce che gli architetti avrebbero dovuto ascoltare», scrive Antonietta Jolanda Lima, un genio artistico che la stessa città natale non ha pienamente accolto né compreso e che Dialoghi Mediterranei, attraverso questi contributi promossi e proposti dalla “periferia” della sua Sicilia e con altri in pubblicazione nel prossimo numero, tenta in qualche modo di risarcire dei torti subìti e dei riconoscimenti negati.  In questo stesso fascicolo si è voluto rendere omaggio anche alla figura del maestro della semiotica Paolo Fabbri, scomparso appena un mese fa. Nel ricordarlo la sua allieva Tiziana Migliore riprende l’immagine del Ficus macrophylla usata da Fabbri che ne fece l’elogio perché «le sue radici aeree colonnari, con i rami che si allungano, toccano terra e formano altre radici, è metafora degli allievi di oggi e di domani». Ci piace pensare che quel ficus simbolico di cui parlava l’attento semiologo era dolce memoria di uno di quelli plurisecolari che stanno a Piazza Marina a Palermo, città dove Fabbri ha insegnato e ha lasciato antiche e affettuose amicizie.

Unitamente a tantissime letture di libri e riletture di film (Antonioni, Pasolini), questo numero che guarda con particolare interesse all’attualità (vedi l’intervista sulla Libia ad una delle massime esperte di geopolitica del Mediterraneo, Michela Mercuri; l’intervento di Paternostro e Sottile nel dibattito sul dialetto e il suo insegnamento a scuola; la riflessione di Martellozzo su populismi e democrazie, di Sugamele sulla criminalizzazione delle donne e di Vigli sulla crisi intestina nello Stato del Vaticano), non ha trascurato di documentare i patrimoni immateriali connessi alle esperienze storiche delle migrazioni, alle tradizioni popolari, ai miti del passato e ai riti come quello descritto e partecipato da Sergio Todesco presso alcuni santuari calabresi dove è ancora attestata l’incubatio, una strategia culturale che ricerca nel sogno il contatto con la divinità, la protezione e la guarigione dai mali. Di questa pratica magico-religiosa le foto di Attilio Russo ci restituiscono il silenzio del pathos e le suggestioni del sacro. In un capitolo a parte (“Immagini”) sono raccolti i contributi non meno notevoli dei fotografi Bognanni, Cusimano, Mizzotti, Pierantoni, Sabato e Valacchi, che si sono cimentati nella scrittura su temi ispirati dalle loro stesse immagini. L’attenzione che Dialoghi Mediterranei sistematicamente destina alle forme della comunicazione visuale muove in tutta evidenza non solo dalla consapevolezza della centralità dei linguaggi iconici nella cultura contemporanea ma anche e soprattutto dalla volontà di far dialogare la scrittura con le immagini  nella costruzione di un testo dello stesso autore che non è ovviamente mera traduzione ma può essere metariflessione sul lavoro fotografico, per quanto – come ammette Cusimano – «non è facile parlare della fotografia, perché il rischio è quello di aggiungere ornamenti o infingimenti a ciò che l’immagine deve dire da sé. Essa è già un linguaggio che raramente ha bisogno di traduzioni». Resta vero tuttavia che l’esito di questo esercizio di connessione simbiotica di segni è operazione antropologicamente densa di significati.

Ripartire, ripartenza. Chissà che cosa avrebbe scritto Antonino Buttitta a proposito di questa drammatica e surreale esperienza della pandemia, della faglia in cui siamo rimasti incagliati, del tempo sospeso che attende un ricominciamento. Lui che richiamandosi al valore e al potere dei simboli amava ripetere che la realtà è abitata più da cose invisibili che visibili, chissà quali storie avrebbe raccontato sul virus partorito dal ventre di un pipistrello e con quali parole avrebbe accompagnato i morti sepolti o inceneriti senza il pianto e il rito collettivo del commiato. Per ricordarlo, a distanza di tre anni dalla scomparsa, abbiamo ripescato un testo poco noto, scritto in occasione di un convegno su Ernesto De Martino che si è tenuto nel 2002 presso l’Università della Basilicata. In sorprendente consonanza col nostro precario e cupo presente, così scriveva Buttitta: «Noi stiamo vivendo, senza averne consapevolezza, la fine di un mondo. (…) L’Occidente, per giocare con le parole, è alla fine di quella che Borges chiama la strada d’Occidente. Una ragione, ma non la sola, dell’esaurirsi di questa cultura è il fatto che l’Europa sta conoscendo, anche per effetto di grandi e inarrestabili processi migratori, come conobbe quanto meno a partire dal sesto millennio avanti Cristo, un grande mutamento antropologico. (…) Noi stiamo vivendo, e non ce ne rendiamo conto, una svolta epocale nella storia dell’umanità: una fine e sperabilmente un principio. Che dire allora di Ernesto De Martino e della impressionante attualità di La fine del mondo? Che dire di chi ha elaborato il concetto di ethos del trascendimento, che, prima di essere una prospettiva scientifica, è un progetto per il superamento del tramonto che stiamo vivendo? Come rifiutare questa utopia? Come non apprezzare nel suo giusto valore un intellettuale che riesce, malgrado tutto, ancora a farci sperare?».

Le parole di Antonino Buttitta nel ricordo di Ernesto De Martino ci sembra possano essere un contributo prezioso nell’incerto dibattito dentro cui ci muoviamo e a stento ci orientiamo, una voce di speranza, non di consolazione né di rassegnazione, ma di esortazione che si aggiunge a quella del Poeta: «E senti allora, /se pure ti ripetono che puoi/ fermarti a mezza via o in alto mare, / che non c’è sosta per noi,/ ma strada, ancora strada,/e che il cammino è sempre da ricominciare». E la strada da percorrere indicata da Montale non è probabilmente in luminosa pianura ma ci auguriamo non sia in rovinosa discesa.

Buona estate a tutti, per quanto è possibile!

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Editoriali. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>