Stampa Articolo

EDITORIALE

1-rosolini-la-festa-di-san-giuseppe-foto-nino-privitera-1969

Rosolini, la festa di san Giuseppe, 1969 (ph. Nino Privitera)

C’è una mostra a Palermo che esemplarmente si intitola “La condizione umana”: pochi oggetti, qualche documento e tante fotografie ospitati tra le pareti scrostate del quattrocentesco Palazzo Ajutamicristo, testimonianze che raccontano la rivoluzione di Franco Basaglia, la cancellazione dei manicomi, il rovesciamento della prospettiva con cui guardare ai cosiddetti malati di mente, la fine dei mezzi di contenzione, la restituzione dei diritti ad una popolazione internata. La mostra mette insieme opere di artisti contemporanei e reperti di quel mondo in cui era segregata la diversità, negata l’umanità dei soggetti resi invisibili. Accadeva quaranta anni fa. Cadeva per la prima volta un muro di vergogna e di dolore. Ne scrivono in questo numero Nino Giaramidaro e Valeria Dell’Orzo e, in modi diversi, connettono quella realtà storica alle inquietanti dinamiche dell’attualità, a certo clima opprimente che produce alienazione, esclusione, criminalizzazione e rifiuto dell’Altro.

Nino Giaramidaro ricorda la figura di Mario Scalesi, intellettuale maudit di origini siciliane, vissuto in Tunisia, che nel segno della poesia fu interprete dell’unità della cultura mediterranea e per il suo spirito di insofferenza e di eccentricità finì e morì nel reparto della Real Casa dei matti di Palermo, poi Ospedale psichiatrico Pietro Pisani. «L’essere border-line, o semplicemente disobbedienti – scrive Giaramidaro – equivaleva a un destino di sedazione e riduzione a numeri di matricola. Il numero 8883 si spense – sì, come una candela che finisce – per “marasmo”, cioè consunzione, alle tre di notte del 13 marzo 1922. (….) Un apologo, questa vita sperperata, sulle successive efferatezze nel mondo degli esclusi, degli espulsi dal vivere sociale».

Valeria Dell’Orzo nel descrivere il percorso doloroso delle esperienze manicomiali tracciato dalla mostra non può fare a meno di allargare lo sguardo sull’«abominio contemporaneo dei centri di detenzione destinati, in varie parti del mondo, ai migranti». Parla del «trauma collettivo che affligge i reclusi e i respinti», della «esasperazione dell’immobilità, della fissità dello spazio e dell’agire», di «luoghi di sospensione di un futuro che sembra non arrivare mai e marcisce in un continuo presente di attesa». Condizioni favorevoli a innescare dei reali disturbi psichici, alterazioni mentali, fino a generare episodi di autolesionismo e gesti estremi. Da qui il ruolo indispensabile degli antropologi, sociologi, psicologi e psichiatri che dovrebbero trovare spazio all’interno delle burocratiche strutture di accoglienza, dove sovente i migranti «circondati dal dolore altrui e incistati nel proprio, rischiano di vedere la propria vita spegnersi a poco a poco».

Della vulnerabilità della psiche migrante scrive appunto Alfredo Ancora, psichiatra, che per riconoscere e curare le «ferite invisibili» rivendica la necessità di istituire la figura dell’«operatore transculturale del nuovo millennio, disposto ad attraversamenti di culture, a traghettamenti di luoghi mentali e geografici, a transiti di persone e di sofferenze, (…) un passeur, capace di valicare frontiere esterne ed interiori, pronto a sconfinare in quell’oltre, dove sono possibili nuove acquisizioni di conoscenze e di relazioni». Quanto sia problematica e densa di criticità la gestione della relazione e della comunicazione culturale all’interno dei centri che ospitano i migranti è tema affrontato da altri studiosi in questo numero. «Gli operatori, quel “noi” troppo spesso lasciato in ombra nello sforzo di traduzione-assimilazione di un “loro” che rimane insondabile – scrive Filomena Cillo – sono il punto di partenza per costruire un mutamento di prospettiva che non si chiede cosa perde di senso nell’altro secondo le categorie che ci sono familiari ma cosa, nella nostra visione del mondo, in quelle convenzioni cognitive che abbiamo incorporato e che traduciamo in pratiche istituzionali, produce non senso nella lettura dell’altro». Nel gioco complesso della narrazione, infatti, la veridicità della storia del richiedente asilo è sempre soggetta al codice di interpretazione delle istituzioni, all’autoreferenzialità del sistema, così che la sua identità di persona può trovare legittimità solo dalla legge. Ovvero dal potere di nominare e di scrivere la storia. Ma ci sono storie – precisa Enrico Milazzo – che non trovano le parole per essere raccontate, che hanno vissuti alle spalle inimmaginabili, inintelligibili nel regime linguistico del servizio sociosanitario e delle procedure giudiziarie e amministrative e comprensibili soltanto «a partire dalla critica riflessiva che l’antropologia può portare alle strutture istituzionali e culturali della nostra società». Saperi antropologici ed etnopsichiatrici, che «potrebbero anche solo avvicinarsi ad un’opera di traduzione dei linguaggi tra le parti coinvolte, ma che non sono quasi mai interpellati nei procedimenti e nelle indagini istituzionali».

A fronte di questo contesto di alienante incomunicabilità e di oppressiva custodia e sorveglianza la tendopoli, quale spazio ambivalente e polisemico, pur nell’evidente stigma ghettizzante dell’abbandono, può paradossalmente rappresentare «veicolo di rapporti umani, fonte di sussistenza, roccaforte a partire dalla quale farsi strada nella selva di procedure e politiche repressive che caratterizzano la vita in Europa dei migranti che non trovano posto nelle sempre più ristrette maglie dell’accoglienza e della protezione». Così annota Giovanni Cordova che, muovendo le sue riflessioni dal rogo di San Ferdinando nel reggino, ragiona sull’ipotesi dell’accoglienza diffusa, sui processi di «riterritorializzazione dello spazio attraverso nuove prospettive di abitare e condividere lo spazio sociale». La crescente devastazione del patrimonio eco-paesaggistico italiano può trovare argine e resistenza attraverso la creazione di comunità rigenerate dalla presenza dei migranti e dotate di quella nuova coscienza del luogo da tempo invocata e auspicata da Pietro Clemente. Il quale anche in questo numero rilancia il tema dei piccoli paesi, a partire dalle pagine del libro, Riabitare l’Italia, curato da Antonio De Rossi. Nel dibattito in cui prevalgono l’urbanista, il geografo, l’economista, lo storico e il sociologo, il contributo dell’antropologo vale non solo ad invertire lo sguardo «dalle città alle zone interne, dal mare ai piccoli paesi di montagna o di campagna in crisi», ma anche a valorizzare il patrimonio della cultura materiale e immateriale tradizionale «per ‘riabitare’ la modernità» e contrastare la crisi demografica attraverso il rispetto della memoria e il recupero dei saperi e delle pratiche del passato,  ri-ambientati nel presente, «nel nuovo mondo di tecnologie e di relazioni che esso offre». Guardando alla cronaca dei movimenti di protesta in Sardegna, Clemente è convinto che «la pastorizia in Sardegna è futuro, non è passato, è zone interne, è Riabitare l’Italia. La solidarietà si impone per chi ha vissuto gli anni del petrolchimico, dell’illusione industrialista, con il risultato finale del rafforzamento della pastorizia. I pastori sono la principale risorsa contro il declino demografico. Ma danno anche l’idea della complessità degli scenari. Del rischio monocultura nelle zone interne. Della necessità di alleanze complesse che faccia sì che le lotte siano insieme per i produttori ma anche per i luoghi e la loro diversità». Un modo – una via stretta – di coniugare con lungimiranza la strategia di protezione dei beni naturali e dei contesti locali con le cogenze economiche degli uomini e le urgenze materiali del presente globalizzato.

In questo numero di Dialoghi Mediterranei così particolarmente denso di contributi eterogenei e pure ancora una volta in qualche modo consonanti o dialoganti si possono leggere interessanti osservazioni desunte da inedite ricerche sulla potenza simbolica dell’immaginario etnico che può essere piegato a rovinose torsioni e manipolazioni politiche (Martellozzo, Sirchia, Sorce, Sugamele); sulle straordinarie virtualità sperimentali delle arti che meglio di ogni altra espressione culturale possono aiutarci a leggere le migrazioni oltre i confini ideologici e disciplinari (De Bernardis, De Luca, Di Maggio, Modica); sul valore antropologico delle lingue (Prato), su quella siciliana in particolare (Sarica, Sorgi, Sottile) e su quella araba anche in relazione al Corano quali luoghi paradigmatici dell’identità. Come testimoniano Paolo Branca intervistato da Pierantoni e soprattutto Elena Biagi la quale così conclude il suo raffinato e acuto ragionamento: «“In quale lingua sono nato?” chiedono spesso i bambini ‘migranti’, i figli dello spostamento dalla terra d’origine, gli eredi di una ricerca identitaria ancora sospesa. In quella domanda si rivela il ruolo dominante che la lingua esercita nel processo di identificazione del sé. Processo, quest’ultimo, che, attraverso le riflessioni qui proposte, vogliamo pensare nei termini di una huwiyya: l’atto creativo di un io che si costruisce nella dinamica di relazione con l’alterità, poiché, come nuovamente suggerisce l’arabo, l’esistenza (wuğūd) non è che l’essere trovati (wuğida) dall’altro».

Non mancano come sempre gli scritti sul Mediterraneo, spiegato e illustrato attraverso un duplice sguardo sulla Tunisia (Casalini, Venezia), uno splendido racconto su Alessandria d’Egitto (Sebastiani), la scoperta di una Odessa napoletana e siciliana (Sirago), lo studio di alcuni centri archeologici dell’Albania quali snodi cruciali delle relazioni tra Oriente e Occidente (Niglio), il critico ripensamento delle frontiere e delle diaspore (Guarrasi) e lo straordinario documento fotografico delle carcasse delle barche usate dai migranti nelle loro traversate e abbandonate nel molo di Capo Passero (Grosso).

Tra i contributi per immagini vale poi la pena segnalare le rassegne sulle feste che nella struttura grammaticale dei riti suggeriscono suggestive e significative corrispondenze: così il repertorio di Gaetano Pagano realizzato nei primi anni settanta sulla sagra del Tataratà di Casteltermini, gli scatti eseguiti negli anni sessanta da Nino Privitera sulla stupefacente offerta di ex voto di cera in occasione delle ricorrenze di S. Sebastiano a Melilli, di S. Giuseppe a Rosolini, di S. Ciro a Marineo, quelli più recentemente effettuati da Gregorio Bertolini per il  festino di Santa Rosalia a Palermo partecipato dagli immigrati nonché infine quelli di Attilio Russo e di altri fotografi destinati ad illustrare la cerimonia mauriziana del Cavadee, organizzata dalle comunità induiste in Sicilia in ottemperanza alle grazie ricevute dal dio Murugan.

Anche le feste – come l’arte, il teatro, il cinema o la letteratura – sono luoghi di incontro tra le popolazioni locali e i migranti, di contaminazioni simboliche, di condivisione di spazi, di gesti, di prassi rituali, riconducibili a comuni istanze di religiosità, di gestione del sacro, di espiazione, di protezione e di propiziazione. Sulle dinamiche di queste forme di interazione e di ibridazione e su ogni esperienza di partecipazione collettiva all’esercizio della piena cittadinanza nella vita quotidiana delle nostre città, Dialoghi Mediterranei intende continuare a tenere alta l’attenzione scientifica e la puntuale documentazione di studi e ricerche non foss’altro per contrastare e confutare la soffocante vulgata politica – omofoba e xenofoba – di questo nostro lungo inverno che, in nome di corporativismi e sciovinismi identitari, istiga odio sociale e proclama esclusioni giuridiche, discriminazioni economiche e incompatibilità culturali.

Mentre gli altri si affaticano a chiedersi, con distinguo nominalistici e sottili esercizi sofistici, se possiamo chiamare fascismo quello a cui stiamo assistendo, se possiamo chiamare razzismo quello che stiamo vivendo, noi continueremo a interrogarci “se questo è un uomo”, se l’antropopoiesi cioè che stiamo costruendo prevede ancora l’esistenza di forme di umanità diverse da quelle che ci somigliano, se è possibile ancora «coltivare l’umanità», come auspicava Martha Nussbaum, avere interesse per gli altri, per la condizione umana, per l’universalità dell’uomo nella sua complessità e varietà di vite e di culture. Se è ancora possibile – per usare le efficaci parole di Sonia Giusti nel suo contributo a Dialoghi – «rispettare modi diversi di essere umani». Sono domande tanto radicali quanto indifferibili in un tempo che sembra voler mettere in crisi l’idea stessa di un’appartenenza comune e di un destino condiviso del genere umano. Sono l’impegno che perseguiamo a difesa di quel frammento di umanesimo che, mentre non si arrende all’indifferenza della sofferenza e al disprezzo della dignità degli altri, ci fa indignare e ci fa ancora provare vergogna. Un sentimento, quello della vergogna, semplicemente ed esclusivamente degli umani, che – ha scritto Goffredo Fofi, autore di un affettuoso profilo di Marcello Cimino – «sopravvive di rado in questa Italia grigia o nera».

Molto altro – in tutta evidenza – contiene questo intenso fascicolo di Dialoghi Mediterranei che raccoglie tra i numerosi contributi anche alcune delle relazioni (Pilo, Prato, Schiavo, Siddiolo, Vitrano) presentate al Convegno internazionale “Peoples and cultures of the world”, promosso da Stefano Montes e tenutosi presso l’Università degli studi di Palermo (24-25 gennaio 2019).

Ci piace infine dedicare questo numero speciale all’amico e collega fraterno Pino Aiello che ci ha lasciato appena  due settimane fa. Ne abbiamo affidato il ricordo alla testimonianza di Janne Vibaek che a lungo lo ebbe vicino nelle imprese e nelle avventure del Servizio Museografico dell’Università di Palermo. Una feconda esperienza umana e scientifica che ha accompagnato e segnato il percorso professionale di quanti hanno partecipato e condiviso con lui tutte le iniziative culturali nate e progettate attorno ad Antonino Buttitta nel piccolo e oscuro spazio del “corpo basso” della Facoltà di Lettere dell’Università di Palermo. Pino è stato umile compagno e guida superba. Della vita possedeva l’elegante concretezza degli artigiani e la giovanile e anarchica curiosità del “bagarioto” che amava interpretarla e raccontarla senza mai prendersi troppo sul serio. Pino sbrogliava matasse e tesseva relazioni tra le diverse generazioni di studenti che sono passate attraverso quel sottoscala e il mondo dei docenti e dell’accademia del piano superiore. Pino conosceva la cultura materiale della Sicilia prima ancora di averla studiata, perché semplicemente l’aveva vissuta e abitata. Degli oggetti che noi ci sforzavamo di descrivere lui sapeva cogliere nel tratto fiammingo di un disegno il dettaglio più minuto, l’invisibile essenza. Pino è stato davvero – come ha scritto Janne Vibaek – l’aiutante magico delle nostre ricerche.  Delle nostre pagine sparse. Dei nostri incerti cammini. Nel suo estremo e improvviso congedo c’è qualcosa del suo modo di stare nel mondo che come sempre ci sorprende e ci lascia alla fine da soli col malinconico peso dei nostri debiti.

Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Editoriali. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>