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EDITORIALE

Antonino Buttitta - Mazara 3 dicembre 2016 (ph. L. Tumbarello)

Antonino Buttitta – Mazara 3 dicembre 2016        (ph. L. Tumbarello)

«Ancora una volta il ladro notturno è venuto a decimare le nostre già devastate file». Così si era  espresso Alberto Maria Cirese all’indomani della prematura scomparsa nel 1994 dell’antropologo Italo Signorini. Così ricorda Pietro Clemente, autore in questo numero di una attenta  e puntuale ricostruzione storica della illustre Scuola sarda fondata da De Martino e Cirese. Così potremmo ripetere noi oggi, dopo questo terribile inverno che ha strappato alla nostra comunità di studio delle scienze umane prima Zygmunt Bauman e Tullio De Mauro, poi in una sequenza impressionante Giulio Angioni, Gianfranco Bettetini, Clara Gallini, Pedrag Matvejevic, Antonino Buttitta e Cvetan Todorov. Perdite gravi e irreparabili che segnano il rarefarsi di una generazione di studiosi formatisi all’indomani della fine della guerra, all’ombra di scuole e discipline impegnate nella generosa e fervida riorganizzazione teorico-metodologica dei saperi e delle pratiche, anche in corrispondenza della istituzione delle prime cattedre universitarie. Lasciti ancor più preziosi oggi che genealogie e filiazioni scientifiche sembrano sbiadire e dissolversi nella indistinta e confusa trama delle appartenenze sempre più precarie ed evanescenti. La storia degli studi è fatta anche di risonanze familiari, di parentele spirituali, di debiti intellettuali da saldare e di memorie sentimentali da rispettare.

Anche per queste ragioni Dialoghi Mediterranei  ha deciso di ricordare in questo numero gli antropologi Angioni, Buttitta e Gallini, il linguista De Mauro e lo scrittore Matvejevic. E nel loro ricordo riannoda i fili di una intensa e proficua stagione di studi, ribadisce l’eredità di insegnamenti che attingono alla dimensione eminentemente umana delle scienze. È l’unico modo che abbiamo di elaborare il lutto, di accettare la perdita, di restituire o almeno riconoscere quanto si è ricevuto. Non un retorico e agiografico celebrare i maestri che abbiamo perduto ma un tentativo di ricostruire i contesti, di storicizzare le loro opere, di tracciare un profilo critico del ruolo che ciascuno di essi ha esercitato nello spazio pubblico e nella vita culturale del nostro Paese. Un po’ come salire sulle loro spalle per guardare meglio oltre l’orizzonte.

Quanto grande sia il rammarico della loro scomparsa e quanto ancora necessario e attuale sia il patrimonio etico e culturale del loro magistero, la cronaca si incarica di sottolinearlo ogni qualvolta le allarmanti derive linguistiche si accompagnano al crescente degrado politico e al generale sfilacciarsi del nostro sistema di convivenza civile. C’è ancora bisogno delle loro parole, delle loro lezioni, delle loro intelligenze per capire le dinamiche antropologiche di questo nostro difficile presente, stretto tra sovranismi e tribalismi, etnicismi e razzismi. Abbiamo bisogno di tornare a leggere le loro opere per orientarci su ciò che «la storia tiene in serbo», per trovare le ragioni profonde che spingono al disordine geopolitico, all’implosione dell’Europa e di tutto l’Occidente, alla insensatezza delle mutazioni in atto così violente da scuotere i fondamenti stessi delle democrazie.

Le schegge impazzite d’oltreoceano piovono sull’ignavia delle cancellerie di Bruxelles, mentre nel   Mediterraneo – tragico spazio di deportazioni e genocidi – si consuma un ininterrotto e impunito crimine contro l’umanità. Ancora più cupo è l’orizzonte che si prepara dopo l’assurda decisione, assunta dall’Italia e ratificata dall’UE nel vertice di Malta, di affidare alla guardia costiera libica il compito di pattugliare le coste per bloccare la partenza dei gommoni e respingere i migranti. Un altro baratto internazionale, come quello pattuito con la Turchia per la chiusura della rotta balcanica, concluso con uno Stato fantasma, un complicato e ingovernato puzzle territoriale, un Paese dilaniato e divorato da banditi, tagliagole, miliziani, broker e mercanti di morte. Come ignorare che coloro che dovrebbero controllare le frontiere sono essi stessi i trafficanti di uomini, corrotti e corruttori, i gestori della tratta e i custodi di quell’inferno che sono i centri di detenzione di Tripoli e di Tobruk? Come sostenere ancora la retorica rappresentanza dei diritti e dei valori europei della libertà e della solidarietà avendo consegnato al mattatoio libico le vite e le sorti dei migranti?

Nel concitato e avvelenato dibattito che si agita nel nostro Paese è sempre più difficile parlare in modo equilibrato e rispettoso d’immigrazione, di diritti dei profughi e tutele umanitarie, di civili sistemi di accoglienza, di nuove norme sulla cittadinanza, di progetti interculturali di dialogo e inclusione nelle scuole, negli ospedali, nei luoghi del lavoro e negli uffici pubblici. Nulla di tutto questo trova spazio nelle tribune politiche e mediatiche dove pure sul fenomeno non si cessa di discutere, di dividersi, di produrre slogan e invettive, di distillare paure, diffidenze e risentimenti, per tentare di costruire effimere fortune elettorali.

È vero, sono considerazioni che abbiamo ripetuto più volte negli scritti e negli editoriali di  questi quattro anni di vita della rivista, che alla immigrazione ha dedicato fin dal primo numero un’attenzione centrale e fondante della sua stessa ragion d’essere. Ci ostiniamo a ribadire tesi già ampiamente espresse perché, mentre tutto sta cambiando nella mappa degli equilibri transnazionali e continentali, il paradigma strategico che governa la politica dei flussi non è affatto mutato: nessuna libera circolazione dei migranti, nessun corridoio umanitario che consenta ingressi legali e sicuri, che sottragga le partenze al racket ed eviti pericolose traversate e tragici naufragi; nessuna nuova norma che modifichi radicalmente l’incongruo sistema di accoglienza, che emancipi finalmente le strutture dalla eterna fase emergenziale, che cancelli i centri di identificazione per trasformarli in luoghi ospitali, familiari, che servano non per trattenere in cattività, in lunghe e penose attese, ma per riparare, proteggere, includere. Stenta perfino ad essere approvata dal Senato la legge organica che prevede misure di tutela nei riguardi dei minori stranieri non accompagnati, più di 25mila arrivati in Italia nell’ultimo anno, esposti ai rischi indicibili delle reti criminali internazionali. Lontana e forse del tutto tramontata è pure l’approvazione della riforma della cittadinanza ferma in Parlamento dal 2015.

Un quadro politico cupo e sconfortante che è specchio ed effetto di una classe dirigente inadeguata e priva di autorevolezza ma anche di una società egoisticamente ripiegata su stessa, di un Paese invecchiato e un pò incattivito. «Il cielo sopra l’Europa vede Faust che ancora alza “gli occhi ai comignoli delle case che nella luce della luna sembrano punti interrogativi” (Dino Campana). Demone primitivo, alacre attorno a muri e muretti che spuntano immemori di quello di Berlino, (…) La Friedrick Strasse tagliata a metà, tutto tagliato a metà. Il mondo tagliato a metà e pieno di spie e spioni». Così scrive Nino Giaramidaro su questo numero di Dialoghi Mediterranei, radunando – come sempre – in poche righe gli umori grevi dell’aria che tira, gli oscuri presagi di ciò che si prepara al di là delle nuove cortine di ferro.

Dall’ampio osservatorio che la rivista offre al lettore chi ha voglia di conoscere più da vicino cosa è un centro di accoglienza e cosa vi accade all’interno può utilmente trarre profitto dal diario di campo scritto da Carolina Galli durante la sua esperienza di stage. Ne ricaverà l’immagine di un luogo opaco e autoreferenziale, la cui extraterritorialità assicura pratiche violente di tipo concentrazionario, distruttive della personalità e della dignità degli “ospiti”. Da qui le parole di uno di loro che ben riassumono questa condizione: «Siamo qui perché noi serviamo a loro e loro servono a noi. Noi siamo soldi e loro sono documenti». Una consapevolezza frutto di uno scaltrito pragmatismo e di una resistenza silenziosa.

Tra gli altri aspetti dell’immigrazione sono in questo numero documentate realtà ed esperienze che, nonostante le evidenze statistiche, non trovano spazio nella comunicazione mediatica. Così è per il  ruolo di emancipazione sociale e civile assolto dalle forme nascenti dell’associazionismo femminile, dalle scuole d’insegnamento della lingua italiana e dalla diffusione dell’imprenditoria etnica che dimostra –  come scrivono gli autori dello studio – che «il lavoro, oltre ad essere offerto agli immigrati (nella prima fase del loro insediamento), può essere da loro stessi creato (nella fase di una compiuta integrazione): un’energia positiva da promuovere e incanalare a beneficio di loro stessi e del “sistema Italia”». Un modo di guardare alla situazione e alle evoluzioni di ciò che accade con un’ottica rovesciata rispetto alle più corrive descrizioni e rappresentazioni.

In perfetta consonanza con questa prospettiva è l’invito formulato, nel suo contributo, da Rosolino Buccheri ad assumere uno sguardo più largo ed olistico, una postura intellettuale – nell’organizzazione del pensiero e dei “modelli mentali di realtà” – meno autoreferenziale e più aperta al dialogo, come antidoto al pervasivo processo di frammentazione in tanti aspetti della società umana (conoscitivo, sociale, politico, religioso, etc), cesure e scissioni radicali a cui vanno ricondotte le cause dei settarismi, dei nazionalismi e dei furoreggianti populismi del nostro presente. Non diversamente Stefano Montes, nel suo intervento, auspicando un’antropologia culturale ispirata al modello di “una conversazione tra diversi punti di vista”, ovvero una forma di conoscenza e di decentramento rispetto a un pensare monologicamente impostato, rivendica il diritto a procedere a zigzag in direzione multiprospettica e nient’affatto lineare così da spostare in perenne divenire la frontiera ingenuamente posta tra soggetti e soggetti e tra il soggetto che indaga e l’oggetto di studio indagato.

Appartiene, del resto, questo metodo, per certi aspetti, all’approccio antropologico che la comunità di Dialoghi Mediterranei si è impegnata ad adottare per osservare e interpretare i fatti dell’attualità, per leggere la storia e le culture nelle loro peculiari differenze ma anche nella loro sostanziale unità, per attingere al cuore delle questioni sociali e politiche che riguardano l’uomo e l’umano, oltre gli specialismi e i tecnicismi disciplinari, nel rispetto della vocazione umanistica del sapere che nella diversità delle risposte aspira a ritrovare il carattere universale delle domande. Per cercare infine quel minimo comune etico che nella pluralità delle culture costitutivamente tutte le attraversa e le comprende e  fa di un uomo un uomo, fino al demartiniano “elementarmente umano”. Ne scrive Lombardi Satriani in questo numero e il suo autorevole contributo, che si aggiunge a quello di altri  prestigiosi collaboratori, incoraggia il lavoro della nostra piccola impresa editoriale, in gran parte affidato agli esiti di ricerca degli studiosi più giovani e valenti.

Dialoghi Mediterranei, sempre più ricca di nuovi apporti e rinnovate energie, continua a far dialogare le voci dei diversi autori che in questo numero intrecciano accurate memorie della storia di Ellis Island e riflessioni articolate intorno alle cronache recenti dell’inquietante America di Trump; ragionamenti sui beni culturali, sulle dinamiche urbane e sulla costruzione del genere, elaborazioni teoriche e semiotiche, testimonianze e interviste nonché numerose letture di mostre e di libri. Nella sezione Immagini due fotografe palermitane, Agata Katia Lo Coco e Morena Anzalone, declinano in modi differenti la loro idea del Mediterraneo, evocativa e narrativa l’una, suggestiva e documentarista l’altra.

Nella consapevolezza di aver perduto un fondamentale punto di riferimento umano e intellettuale, vogliamo infine dedicare questo numero ad Antonino Buttitta, a distanza di poco meno di un  mese dalla sua scomparsa. Dell’indimenticabile maestro pubblichiamo un inedito, la recensione dell’ultimo suo libro a cura di Orietta Sorgi e il ricordo commosso di un allievo “periferico”.

Dialoghi Mediterranei, n.24,marzo 2017
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