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Economia, valore, condivisione. Un altro futuro è possibile?

copertinadi Giovanni Cordova

La crisi economica che a partire dal 2007 ha scompaginato gli assetti politico-economici istituzionali delle economie occidentali – e non solo – lascia tutt’oggi aperte e irrisolte molteplici questioni che quella più o meno improvvisa traiettoria assunta dall’incrocio perverso di capitali, denaro virtuale, transazioni finanziarie scoperte e azioni economiche speculative ha scoperchiato. Lungi dall’esser stati dipanati, quegli interrogativi richiedono ancora oggi un rigoroso approccio ermeneutico. Tuttavia, i grandi fatti sociali – specie quelli totali, tra i quali può senz’altro essere annoverata una crisi economica, sociale e politica dalle proporzioni globali – possono indurre a plurime e contrastanti analisi e operazioni di decodifica. Tante risposte, insomma, quanto molteplici – per quantità e qualità – sono gli sguardi e le prospettive di partenza da cui prende forma un ampio spettro di letture, proposte, interventi.

Ad esempio, per i partigiani del neoliberismo la crisi è stata una distorsione evenemenziale di un sistema la cui auto-evidenza poggia su una complessa articolazione di corrispondenze tra produzione di ricchezza e genetica umana. In poche parole, un sistema che è natura e, pertanto, immutabile, inviolabile. Del resto, quanto i pensatori del pensiero liberale sono stati influenzati dai fisiocratici francesi del XVIII secolo, per i quali la ricchezza – la produzione di valore – giace principalmente nella terra e nell’agricoltura e il libero mercato altro non sarebbe che il naturale e successivo sviluppo? [1]

Ritornando alla crisi, basterebbe in quest’ottica mettere un po’ in ordine i conti, bloccare per qualche anno il rigonfiamento di debito pubblico, scoraggiare alcune pratiche finanziarie un po’ avventate, smembrare ciò che in Europa resta ancora della parvenza di Welfare State e poi tutto tornerà come prima, come d’incanto. Apportare, in pratica, qualche cambiamento superficiale, senza intaccare le strutture e le relazioni sociali economiche (Gluckman 1977). E che nessuno osi mettere in discussione il naturale e congenito perseguimento egoista del profitto e dell’interesse, senza il quale non ci sarebbero civiltà, società, sviluppo. Come si diceva, la risposta dipende da chi è a porsi la domanda e da quali obiettivi ci si prefigge.

In questo contributo, invece, il filo rosso del ragionamento che proveremo a imbastire interroga un punto decisamente radicale, in quanto posto alla radice di qualsiasi ordine del discorso suscettibile d’essere attivato: il rapporto tra economia e società. Per farlo, ci avvarremo degli argomenti e delle prospettive individuate da Mauro Magatti nel suo Cambio di Paradigma. Uscire dalla crisi pensando il futuro (Feltrinelli, 2017).

Cos’è un’economia di mercato? Per dirlo con le parole del grande storico dell’economia, Karl Polanyi, non estraneo a incursioni nei campi dell’antropologia e dell’etnografia, un’economia di mercato è «un sistema economico controllato, regolato e diretto soltanto dai mercati; l’ordine nella produzione e nella distribuzione delle merci è affidato a questo meccanismo autoregolantesi. Un’economia di questo tipo deriva dall’aspettativa che gli esseri umani si comportino in modo tale da raggiungere un massimo di guadagno monetario» (1974: 88). Nella transizione storica tendente all’affermazione di un’economia dai siffatti caratteri, inaugurata dall’avvento della rivoluzione industriale nell’Inghilterra del XVIII secolo, la terra, il lavoro e la moneta divengono merci, i cui rispettivi prezzi assumono le denominazioni di rendita, salario e interesse.

Il ruolo dell’economia in una società che faccia propri dei principî voluti universali nonché fondati su una supposta propensione genetica dell’essere umano alla massimizzazione in un contesto di generalizzata scarsità di risorse è chiaramente onnicomprensivo [2]. Forte di una capacità previsionale, spesso svincolata dalla realtà del comportamento umano, generatrice di modelli cui si affidano i governanti per tracciare il percorso delle azioni istituzionali da intraprendere per organizzare la società, il discorso economico egemonico – in primis quello neoliberale – trae la propria legittimità dall’essere al contempo dentro e fuori la società. Ne è dentro in quanto pretende di produrre un sapere, concretizzabile in coerenti politiche economiche, in grado di codificare e guidare orientamenti e prospettive delle persone. Ne è tuttavia fuori dal momento che tende a segregarsi da altri ambiti della vita sociale che, benché negli ultimi anni siano maggiormente tenuti in considerazione da alcuni orientamenti economici, non sono considerati suscettibili di produrre trasformazioni strutturali o di incidere in maniera rilevante sul tessuto sociale e sulle sue fratture e ricomposizioni. 

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Figure, Giuliano Del Sorbo

La sostanza dell’economia

Embedded, incastonata: con questo aggettivo, a sua volta correlato al sostantivo embeddedness, rivelatore di un assetto comunitario in cui la vita sociale non è ripartita in rigidi compartimenti stagni, Polanyi definiva l’economia nelle società in cui non è il mercato l’istituzione sovrana, ma sono la reciprocità e la redistribuzione i principî regolatori dello scambio sociale (e della produzione). L’economia incastonata nelle relazioni sociali non è che una istituzione tra le altre. In un’economia di mercato, invece, sono i rapporto sociali a essere incapsulati nel sistema economico.

Tuttavia, a ben vedere si tratta di una dicotomia fin troppo rigida, che si è a lungo riflessa nella controversia storica tra le scuole sostantivista e formalista. La prima considera l’‘economico’ come soddisfacimento materiale dei fabbisogni di una comunità, equiparandolo di fatto alla sussistenza. La seconda fa riferimento a una declinazione di ‘economico’ sbilanciata sul rapporto mezzi-fini e sul calcolo come emblema della razionalità umana. In un caso, il significato di economia varia secondo il contesto sociale e culturale che determina una specifica modalità di organizzazione materiale e simbolica; nell’altro, il rimando alle forme astratte e universalizzanti della teoria economica classica occidentale costituisce un imperativo dal quale non si può prescindere [3].

Occorre tuttavia un surplus di prudenza nel giudicare – moralmente e scientificamente – forme, strutture, retoriche e pratiche dell’economia neoliberale. Un approccio eccessivamente ‘impersonale’ ai mercati e al denaro rischia non solo di veicolare e riprodurre quella naturalizzazione dell’ordine sociale per cui le istituzioni sociali o economiche – quali i mercati, ad esempio – si presentano come necessari, inevitabili per il funzionamento e il corretto andamento delle cose, ‘naturali’ appunto, ma impedisce anche di scorgere l’arbitrarietà, la discrezionalità, il fattore ‘umano’ che si cela dietro le oscure logiche e le imponderabili (tranne che per pochi tecnici) leggi dell’economia.

L’antropologia della finanza e del denaro scorge infatti nel flusso di persone, merci, idee, capitali qualcosa di più di un semplice movimento. I rapporti e i traffici economici non sono impermeabili alla dimensione del significato, cioè del senso che gli attori sociali conferiscono alla propria esistenza individuale incardinata entro matrici comunitarie sempre cangianti e reversibili. La personalizzazione del denaro ne è un esempio, riscontrabile tanto negli usi sociali della moneta nelle società occidentali quanto in quelle extraoccidentali in cui il sistema culturale capitalistico viene accolto all’interno di un ordine simbolico che ne riadatta incessantemente i contorni, plasmandone i meccanismi alienanti attraverso cosmologie e mitologie adattive ed esorcizzanti (Taussig 2005, 2017; Gudeman 2008).

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Figure, Giuliano Del Sorbo

Ma senza andare troppo lontano, anche nelle correnti pratiche mercantili e nelle quotidiane transazioni economiche in cui siamo tutti impegnati, «il denaro, allo stesso tempo, rappresenta un aspetto delle relazioni fra le persone e una cosa distaccata dalle persone» (Hart 1986: 638). Esso «deve essere impersonale per poter mettere in rapporto gli individui con l’universo di relazioni a cui appartengono. Tuttavia le persone tendono a rendere tutto personale, compresi i rapporti con la società» (Hann, Hart 2011: 116) [4]. Contemporaneamente dentro e fuori la società, il denaro e, in particolare, oggi, la finanza, assurgono tuttavia a neutri vettori di traiettorie acefale rispondenti all’incontestabile e ‘naturale’ principio dell’utile e del profitto, che si ripercuote nelle scelte di politica economica intraprese dalle istituzioni politiche ed economiche, di livello nazionale e sovranazionale.

A ben vedere siamo in presenza di una vera e propria cosmologia finanziaria che assorbe ogni critica morale all’interno del suo sistema parareligioso (Applbaum 2003), affiancando l’indeterminatezza e l’incompiutezza storico-fattuale all’efficacia evocativa e simbolica del mito della modernizzazione e dello sviluppo (Ferguson 1999; 2006). Pierre Bourdieu lo ha scritto mirabilmente:

«L’economia neo-liberale [...] deve un certo numero delle sue caratteristiche, presuntivamente universali, al fatto di essere immersa, embedded, in una società particolare, ossia radicata in un sistema di credenze e di valori, un ethos e una visione morale del mondo, in breve, in un senso comune economico, legato, in quanto tale, alle strutture sociali e alle strutture cognitive di un ordine sociale particolare. Ed è da questa economia particolare che la teoria economica neoclassica attinge i suoi presupposti fondamentali, che essa formalizza e razionalizza, costituendoli così come fondamento di un modello universale» (2000: 27).

Mauro Magatti si impegna in una disanima storica del capitalismo occidentale (e italiano in particolare) senza connotarlo nei termini di un portato neutro di assiomi incontrovertibili e apodittiche teorizzazioni. Piuttosto, egli ne considera passato, presente e futuro in quanto scambio sociale suscettibile di variazioni nella forma, dovute alle contingenze storiche e all’articolazione dinamica tra interessi meramente economici, necessità sociali, fasi e azioni politiche. Secondo il peculiare equilibrio entro cui questi tre fattori convergono, è possibile individuare le specifiche configurazioni storiche assunte dal capitalismo. Magatti ne individua tre, che presentiamo sinteticamente dato che non è obiettivo di questo contributo ripercorrere approfonditamente in prospettiva diacronica i fatti cui Magatti dedica pagine lucide e certamente esaustive, alla cui lettura rimandiamo, nel delineare svolte sociali e rotture storiche il cui riverbero non cessa di applicarsi sul nostro presente.

La prima configurazione è all’insegna di uno scambio fordista-welfarista che grosso modo corrisponde al periodo intercorrente tra il secondo conflitto bellico mondiale e la metà degli anni Settanta, prima dell’avvento delle politiche neoliberiste, in un contesto di crescita economica e produttiva, redistribuzione costante della ricchezza in virtù del conflitto sociale, spesa pubblica orientata alla creazione di un sistema di protezione sociale, consenso politico incanalato nei grandi corpi intermedi dei partiti e dei sindacati.

La saturazione di quella fase di scambio sociale venne sancita dal Sessantotto e dalla crisi degli anni ’70, durante i quali si realizzò un’inattesa convergenza (non certo intenzionale) tra le istanze libertarie di una generazione che rivendicava il diritto all’affermazione individuale attraverso la valorizzazione della differenze (negli stili di vita, nelle estetiche del corpo, nell’orientamento sessuale, e così via) e una domanda di liberalizzazione economica dovuta alla saturazione dei mercati interni e a una ritrovata aggressività dei detentori dei capitali nei confronti di una parte sociale, i lavoratori, i cui diritti economici e sociali conoscevano un’incessante fase di espansione.

In un caso, l’obiettivo era demolire un’autorità – politica e morale, dato che i ceti dirigenti di allora esercitavano un’egemonia culturale esercitata perlopiù attraverso il ricorso ai valori e alle istituzioni religiosi – da cui si irradiavano trame di normatività estenuantemente inglobanti. Nell’altro, i fautori del neoliberismo individuavano il rigido sistema di protezione sociale e lo Stato stesso come un apparato elefantiaco, a cui era possibile imputare corruzione e abbassamento dei margini di profitto.

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Figure, Giuliano Del Sorbo

La stagione dello scambio finanziario-consumerista, dunque, prese le mosse da quella convergenza tra libertà individuale e liberalizzazione economica. In questa fase, la finanza ipoteca mezzi e tecnologie dello scambio economico, assumendo in modo incontrovertibile i contorni di una proiezione incerta sul futuro, ovvero su di un tempo che ancora non è – l’essenza della finanziarizzazione. Il rischio, ineliminabile corollario dell’investimento economico contemporaneo, assurge a paradigma incontrastato della vita sociale, sovente inglobato dalla retorica del merito, e alimenta diseguaglianze feroci tra agenti sociali in grado di poter maneggiare con relativa sicurezza il limite tra rischio e aspettative di guadagno/perdita e coloro che non dispongono di adeguate forme di capitale economico, culturale e sociale per poterlo fare (Mancuso 2017).

Ma l’elemento centrale di questa peculiare configurazione di scambio sociale risiede nel consumo: l’esplosione del desiderio di riconoscimento della propria soggettività e delle molteplici forme in cui essa si articola trova un esito paradossale nella libertà di poter consumare variegati e personalizzati beni materiali e simbolici. «La grande abilità del capitalismo – essere capace di mutare in ogni fase per intercettare il desiderio dell’essere umano e incanalarlo nel processo di accumulazione – ha trovato qui una nuova originale manifestazione storica» (Magatti 2017: 26). Del resto, il capitalismo è un sistema di percezioni. Nell’atto del consumo si concreta l’identità individuale; per consumare le persone si indebitano, altro tratto centrale della stagione neoliberista che non accenna a recedere. La domanda sociale di crescita per la prima volta dai tempi del secondo dopoguerra non riguarda più i salari o l’accesso al lavoro, bensì l’accesso al consumo. Benché non estraneo ad altre epoche storiche e ad altri contesti socio-culturali (Graeber 2012; Solinas 2007), è nel quadro contemporaneo che il debito assurge a paradigma ontologico dell’esistenza sociale: la finanza è il trait d’union che consente di slegare la domanda di consumo dagli altri due assi portanti del sistema economico: la (re)distribuzione e la produzione.

È noto come la crisi mondiale del 2007-2008 fosse originata da un indebitamento endemico dovuto alla cessione sregolata di mutui ad alto rischio nel settore immobiliare statunitense, i cosiddetti titoli subprime. Le fonti e i dati che Magatti cita, tra l’altro, sono più chiari di mille perifrasi e periodi contorti: negli USA l’indebitamento medio del consumatore è aumentato di quasi il quintuplo nell’ultimo mezzo secolo. Una bolla che solo quando è scoppiata ha lasciato intravedere le macerie e le profonde contraddizioni sociali che l’agguerrita ideologia neoliberista aveva celato per decenni.

E tuttavia, l’ordine del discorso neoliberale non cessa di istituire un regime di verità pervicace e persuasivo grazie a un lavoro istituzionale, economico e culturale che, seguendo Loïc Waquant (2012), si snoda lungo quattro direttrici:

- universalizzazione del principio di mercificazione ed estensione dei meccanismi di mercato come soluzione privilegiata per allocare efficacemente risorse e benefici;

- politiche sociali disciplinari tramite il passaggio da un welfare protettivo a un workfare correttivo, in cui l’assistenza sociale è vincolata alla subordinazione del cittadino-lavoratore alle esigenze flessibili del mercato del lavoro [5];

- politiche penali espansive volte a controllare l’insicurezza e il disordine sociali generate dalle politiche neoliberiste;

- enfasi sulla responsabilità e sul merito individuali come parte di un’antropologia neoliberista incardinata sulla persuasione morale nel perseguire sviluppo personale e autodisciplina di Sé.

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Figure, Giuliano Del Sorbo

Pensare la crisi per ripensare il futuro

Secondo l’ampiezza e l’orientamento della riflessione sull’eredità – che Magatti non esita a definire ‘scabrosa’ – che il ciclo capitalistico finanziario-consumerista ci consegna, sarà possibile tracciare i contorni di un futuro le cui condizioni di possibilità non sono ancora state segnate indelebilmente e che potranno presentarsi all’insegna di una stolida continuità con lo stato di cose presente o piuttosto di un coraggioso quanto necessario cambio di paradigma.

A un decennio di distanza dalla contrazione economica del 2008, le rifrazioni politiche, culturali e sociali di quella crisi hanno inaugurato una ormai perdurante stagione di inquietudine e risentimento diffusi, che trovano una precisa canalizzazione politica nelle forze populiste che cavalcano la paura e invocano guerre tra poveri, come dimostrato dai recenti esiti elettorali un po’ in tutto l’Occidente.  Vari sono i ‘focolai di disordine’ di cui il capitalismo neoliberista si nutre per reinventarsi e rigenerarsi secondo le fasi storiche. Essi producono uno stato di ansietà permanente, e a giusto titolo Magatti vi dedica diverse pagine. Tra questi, grande rilevanza va attribuita al disordine demografico. In Europa, il tasso di natalità va decrescendo continuamente, secondo una dinamica inversamente proporzionale all’incremento della popolazione anziana. E questo non solo per un effetto meccanico dei problemi economici con cui sempre più famiglie devono confrontarsi o per le nefaste conseguenze di uno smantellamento inarrestabile delle garanzie e dell’assistenza che oggi le politiche neoliberiste riarticolano, conseguenze che si ripercuotono in specie sui meno garantiti (giovani in primis). La crisi demografica è anche il prodotto di una cultura dell’individualismo assurto a paradigma ontologico, caduca garanzia di libertà contro il peso e le costrizioni dei legami sociali comunitari primari, come quelli della famiglia. Quale che sia la causa, pare che la società europea non sia più nelle condizioni di riprodurre se stessa. E una comunità incapace di intravedere un qualsiasi scenario di futuro è una comunità che non può far altro che ripiegarsi su se stessa, alimentandosi delle sue proprie paure e dei rancori sociali.

La pressione migratoria, al di là dei numeri reali e della sua buona o mala gestione, viene così percepita come una minaccia alla categorizzazione del reale entro cui fabbrichiamo le tassonomie del ‘noi’ e del ‘loro’, dell’appartenenza rassicurante e dell’estraneità minacciosa (Herzfeld 2006). Congiuntamente all’ingresso nella sfera pubblica di agenzie private e logiche utilitaristiche e della dissoluzione dei corpi intermedi (partiti politici e sindacati), il paesaggio sociale diviene una polveriera, in un clima di sospetto generalizzato e di rabbia indifferenziata, in attesa che un uomo forte giunga al comando e veicoli tali sentimenti contro un capro espiatorio. È in questo contesto che la crisi si fa totalizzante. Non è un caso che i recenti fatti di cronaca riportino con sempre maggior frequenza le condizioni di vita delle periferie italiane, dove le forme di capitale a disposizione degli strati sociali popolari non sono possedute in quantità sufficienti per reggere materialmente e cognitivamente l’urto delle trasformazioni economico-sociali in atto.

In uno scenario di tal genere, il minimo che possa accadere è la delega della risoluzione delle cause del malcontento (tutt’altro che infondate) a forze politiche che riescano a ‘creare’ comunità contro qualcuno, nella maggior parte dei casi soggetti di recente immigrazione. Ma l’escissione del legame sociale perpetuato dall’ideologia neoliberista può comportare un’opzione ancor più deleteria: la psicotizzazione della società, torbido esito di una contemporaneità liquida in cui il disagio e la frammentazione sociale provocano l’assenza di riconoscimento reciproco tra soggetti. Ne consegue l’annientamento di ogni riferimento politico, dal momento che il conflitto e finanche l’antagonismo sociali non possono prescindere dall’instaurazione di un legame sociale comunitario. In una società impolitica, possono pertanto sorgere nuovi linguaggi e nuovi contenitori ideologici adatti a rendere conto di condizioni sociali turbolente.

Con un accostamento che sorprende ritrovare in un testo di economia, Magatti evoca infatti le parabole esistenziali dei giovani jihadisti europei, le cui traiettorie biografiche fanno i conti con l’esigenza irrinviabile di reperire ulteriori matrici identificative, dopo il collasso dei riferimenti culturali comunitari e familiari originari (Roy 2017). Le risposte alla condizione di crisi che finora sono state pensate e attuate sono del tutto prive di un reale potere taumaturgico. Fornendo le condizioni di appartenenza politica su base nazionale, il populismo è stata una risposta conservatrice e formalmente stabilizzante, infarcito di regolari richiami alla tradizione e al recupero di identità fisse e messe in pericolo dalla globalizzazione, al termine di una fase storica che ha conosciuto il venir meno di certezze e categorie epocali.

Dall’altra parte, la società digitale si presenta come una fabbrica disciplinare in grado di aumentare la portata del controllo su ogni consumatore/essere umano che lasci tracce di sé nell’universo della rete (e il caso di Cambridge Analytica non è il primo e non sarà l’ultimo). Un “neotaylorismo digitale”, per riprendere le parole di Magatti che si instrada nel solco di una ulteriore recessione del legame sociale a vantaggio di un individualismo tecnologico/digitale, foriero di opzioni di consumo indotte e in cui ogni ambito della vita sociale e personale (compreso il tempo libero) può essere controllato, disciplinato e reso produttivo. Il consumatore e il lavoratore costituiscono gli ingranaggi funzionali di questo scenario: entrambe le pedine necessitano pertanto di un’educazione/disciplinamento, come testimoniano in modo inquietante le recenti disposizioni di applicazione di strumentazione tecnologica sui corpi dei lavoratori per controllarne e indirizzarne movimenti e produttività. Una società resa ‘ordinata’ in ogni sua piega può inizialmente tranquillizzare e incontrare il consenso di quanti si percepiscono allarmati dalla difficoltà nel decodificare la liquidità dei nostri tempi. Ma si tratta, a ben vedere, di un ordine intinto di coartazione e repressione. 

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Figura, Giuliano Del Sorbo

Rifondare il legame sociale, condividere il valore dell’appartenenza

Nell’ultimo paragrafo di questo contributo vorrei limitarmi a segnalare le vie d’uscita dall’empasse che Magatti intravede in fondo al tunnel. A onor del vero, più che di vie d’uscita si tratta di passaggi che preconizzano una vera e propria rifondazione antropologica della società. Infatti, il cuore pulsante del rinnovamento passa per l’abbandono dell’individualismo monadico che l’ideologia neoliberista ha fatto assurgere a modello incontrastato di soggettività.

Ancor di più, forse, il mutamento di paradigma non si potrà concretizzare fino a quando lo sviluppo non verrà emendato dei miti del profitto indiscriminato e della crescita, progetto cui tuttavia l’autore non rinuncia del tutto, preferendolo a quello latouchiano di ‘decrescita’, a patto che non corrisponda alla crescita ‘drogata’ e virtuale dell’ultima stagione neoliberista. Se sviluppo e prosperità potranno essere interrelati, ciò avverrà unicamente se la produzione del valore poggerà su basi condivise e, dunque, sostenibili. Il “valore condiviso”, nell’accezione data al concetto dagli autori Porter e Kramer (2011), non è un semplice richiamo alla responsabilità sociale d’azienda o un invito ecumenico alla coniugazione di produttività e sostenibilità sociale e ambientale. Esso mira piuttosto a decostruire la catena di attribuzione e produzione di valore, senza il quale verrebbe meno l’idea stessa di economia, ma rideclinandolo in modo che questo germini all’interno di un processo sociale in cui sia l’intera comunità a fabbricarlo e a condividerne presupposti istituzionali e culturali.

Se tanto per l’economia marxista che per quella liberale la determinazione del valore origina dalla valutazione del lavoro necessario alla produzione delle merci (da cui poi, secondo la prospettiva adottata, si alimentano sfruttamento e profitto o puro scambio e definizione di prezzi per le preferenze individuali dei consumatori), è facile intendere la portata innovativa del valore condiviso. Non solo nell’impresa, ma in ogni ambito della vita sociale e degli scambi tra Stato, mercati e cittadini. Sono le relazioni sociali a fare il valore condiviso. È il caso del Welfare, cui l’autore dedica un ampio ragionamento teso a rivelarne l’attuale natura mercantilistica e burocratica, e che potrebbe – dovrebbe, se teniamo conto dei mutamenti sociali in atto quali l’invecchiamento progressivo della popolazione e il macigno del debito pubblico – rigenerarsi in quanto bene comune, condividendo tratti di dimensione pubblica e di autorganizzazione sociale.

È questa, forse, la parte più densa del libro, in cui Mauro Magatti dispiega la sua visione di presente e futuro, e che non intendo qui rivelare per intero. È senz’altro suggestiva l’idea di individuare un terzo spazio tra bene pubblico, percepito di fatto come ‘estraneo’, ‘altro’, non appartenente a nessuno, e bene privato, sovente oggetto di speculazione e mire proprietaristiche. Il ritorno economico, ad esempio nelle forme di reddito, può conciliarsi con la partecipazione dell’intera comunità nella messa a disposizione per tutte e per tutti di conoscenze e saper-fare specifici? La partecipazione personale alla produzione di valore si configurerebbe così non come episodico dono (come già previsto da alcune esperienze di scambio di competenze e prestazioni) ma come assetto istituzionale e sociale fondativo di uno scambio sostenibile-contributivo. In esso,

«solo chi (imprese, territori, nazioni) è capace di produrre valore economico, ma anche sociale, ambientale, istituzionale e cognitivo, si troverà nella condizione di sostenere i propri consumi [...] garantiti dalla partecipazione diffusa alla produzione di valore condiviso, in un quadro che massimizza la qualità, l’integrazione sociale e sistemica, la contribuzione e la valorizzazione delle capacità personali».

Tra i meriti maggiori di questa prospettiva vi è l’evocazione di uno scenario in cui valore sociale e valore economico si integrano a vicenda, liberando l’azione sociale dall’orpello dell’obbligatorietà della calcolabilità e della misurazione. Inoltre, nella presentazione di questo quadro il concetto di ‘bene comune’ non obbliga quello di ‘espressione personale’ a diluirsi nel primo. La realizzazione di sé può integrarsi nel raggiungimento di obiettivi condivisi e dalla portata collettiva, salvaguardati da un’istituzione mediana e non più totalizzante come lo Stato.

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Figure, Giuliano Del Sorbo

Certo, dov’è il conflitto sociale nella descrizione di questo futuro che, per certi versi, è già tra noi? Pur riconoscendo la matrice ‘riformista’ – benché radicale – da cui l’autore si muove per disegnare i tratti di un cambiamento che si realizzi senza fratture rivoluzionarie tra chi possiede i mezzi dell’accumulo e della produzione e chi ne viene espropriato per sistematica spoliazione (Mellino 2014), è ipotizzabile che gli attori sociali, astratti dalle classi e dalle categorie di appartenenza cui essi stessi si riconducono, pervengano alla definizione di valore condiviso senza che alcuni interessi non tentino di emergere? O ancora, senza  un arroccamento in difesa di rendite e privilegi da parte di gruppi corporativistici? Non è del tutto improprio ricordare come i principali (ed ultimi) avanzamenti in materia di diritti e riconoscimenti politici – di qualsiasi ambito e stagione (Marshall 2002) – vadano collocati nel contesto di lotte sociali tra parti antagoniste, sullo sfondo di un’inesauribile tensione dialettica tra cittadinanza e democrazia (Balibar 2012).

Come a dire, le cose non cambiano da sole, né per concessione; il cambiamento – ivi compreso un mutamento di paradigma tanto audace quanto quello auspicato da Magatti – va conquistato, ‘strappato’, estendendo di volta in volta la porzione del campo di possibilità da cui si inaugura una nuova stagione di diritti e giustizia sociale. Inoltre, la competitività di sistema, che l’autore annovera tra i benefici di un possibile scambio sostenibile-contributivo, non richiama gli assunti ideologici marginalisti dell’economia neoclassica, secondo cui  l’essere umano è un attore razionale chiamato a scegliere tra fini alternativi e in competizione sullo sfondo di una cronica penuria di mezzi e risorse?

I tempi che viviamo mostrano come un mutamento di paradigma sia non solo necessario ma favorito dall’emergenza delle contraddizioni delle attuali relazioni sociali economiche che la crisi ha reso evidenti. Un’economia che pretenda di poter procedere per calcoli sofisticati, divenendo sempre più simile a una biologia, è disumanizzata e disumanizzante, dal momento che espunge dal proprio oggetto di interessi e ricadute applicative il benessere psico-sociale e «la soddisfazione di tutti i bisogni umani – non solo quelli che si appagano con le transazione del mercato privato, ma anche [...] beni pubblici quali l’educazione, la sicurezza, un ambiente sano e, per quanto riguarda le qualità intangibili, la dignità» (Hann, Hart 2011: 11). Un’economia propriamente ‘umana’ (Hart et al. 2010) dovrà districarsi sulla soglia mobile dell’azione economica contemporaneamente interessata e disinteressata, dal momento che siamo tutti esseri al contempo individuali e sociali, e bilanciare desiderio di autosufficienza e imprescindibilità del legame sociale. Un’impresa ardua, dacché le esperienze storiche di costruzione di un’‘alternativa’ non hanno ottenuto il successo sperato, pur con qualche flebile eccezione. Ma un’impresa non più procrastinabile.

Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018 
Note
[1] Anche al di fuori della tradizione economica liberal-marginalista abbondano gli esempi di pratiche simboliche che istituiscono e certificano la corrispondenza tra ciclicità produttiva e ciclicità cosmologica. Il lavoro della terra, sottoposto ad un articolato dispiegamento tecnico-rituale, ne costituisce senz’altro l’espressione più evidente (Bourdieu 2003).
[2] La neuroeconomia applica la tecnica sperimentale della scansione elettronica del cervello per indagare i processi decisionali umani. I risultati dell’osservazione del comportamento neuronale incrinano le certezze e gli assunti dell’economia neoclassica, come quando si sottolinea che il calcolo razionale, fondamento dell’azione orientata all’economico bilanciamento tra costi-benefici e mezzi-fini, non è elaborato se non in una limitata parte del cervello. Inoltre, le decisioni sono fortemente influenzate da fattori emotivi, sociali e culturali più che da astratte e asfittiche scelte razionali (Henrich 2004; Hann, Hart 2011).
[3] Per una sintesi del dibattito tra sostantivisti e formalisti cfr. Hann, Hart 2011; Wilk 2007.
[4] La ‘vita sociale delle cose’ si è da anni imposta come ambito privilegiato di alcuni settori dell’antropologia economica (Appadurai 1986). La cosiddetta cultura materiale (Miller 1987) e l’analisi etnografica del consumo dei beni materiali e simbolici (tra cui i beni culturali) ne costituiscono dimensioni recentemente sondate con profitto da vari autori (Dei 2012).
[5] Il workfare si configura come «uno scambio tra una prestazione assistenziale previdenziale percepita da un soggetto privato e una prestazione lavorativa resa da questo stesso lavoratore in favore della collettività (Treccani, http://www.treccani.it/vocabolario/workfare_%28Neologismi%29/)».
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Giovanni Cordova , dottorando in ‘Storia, Antropologia, Religioni’ presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma, si interessa di processi migratori – con particolare riguardo al sud Italia, società multiculturali e questioni di antropologia politica nel Maghreb. Per la sua ricerca di dottorato sta esaminando la dimensione politica ‘implicita’ nella vita quotidiana dei giovani tunisini delle classi sociali popolari nonché la commistione tra i linguaggi della religione e della politica. Prende parte alla didattica dei moduli di antropologia nei corsi di formazione rivolti a operatori sociali e personale della pubblica amministrazione in Calabria e Sicilia.
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