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Ebrei in Italia. L’indagine storica, un cantiere sempre aperto

613byabhncldi Franca Bellucci

Il 28 gennaio 2021 ho partecipato al Giorno della Memoria di lontano, ricorrendo alle tecnologie in uso, seguendo tramite youtube la celebrazione che l’Istituto storico della Resistenza della Valle d’Aosta aveva organizzato nella Biblioteca regionale del capoluogo. Il prof. Paolo Momigliano Levi, già Direttore dell’Istituto, dialogava con Alessandra Tarquini, docente dell’Università La Sapienza di Roma, autrice di un libro su come le formazioni della costellazione politica della sinistra italiana si sono espresse sul tema degli ebrei (Tarquini, 2019). Nel dibattito, mentre l’ospitante valorizzava l’opera di sensibilizzazione, di analisi e memoria, che l’Istituto conduce, sulla persecuzione subita dagli ebrei, prima con le leggi razziali fasciste dal settembre 1938, poi, durante la Seconda Guerra, con le deportazioni e la soppressione fisica, l’autrice ha contrapposto la sua insoddisfazione. Il punto critico è la diversa prospettiva: la storica non guarda alla tragedia della discriminazione razziale come ad un vuoto, di spazio/entità umana, dietro il quale sta il governo fascista, come nella prospettiva degli Istituti storici della Resistenza, ma come ad una cultura, che essa attribuisce alla “sinistra”: che ha funzionato da catalizzatore intorno alle discriminazioni.

Ammetto di avere ascoltato il dibattito con partecipazione in qualche modo turbata. Nell’arco degli studi che coltivo, la storia ha un posto importante. Mentre al di qua dello schermo assistevo al dibattito tra i due storici, quel che rilevavo era il diverso orizzonte. Più familiare, anche per contatti che ho ripetuto con gli Istituti storici della Resistenza, mi risultava la posizione di Momigliano Levi: la memoria che si è cumulata tramite le ricerche viene tenuta viva presso le generazioni, anche come monito che non si ripeta una tale tragedia. Quanto alle ricostruzioni storiche cui lo studioso si riferiva, esse affermano che non ci furono moti generali contro i provvedimenti razziali, né formule efficaci collettive di allarme o rimedio tra i gruppi colpiti, ma molte e varie iniziative si attivarono occasionalmente, per senso di umanità diffusa, che comunque furono numericamente marginali.

Ma il piano su cui si mostrava la Tarquini era un altro: essa difendeva in modo strenuo la tesi che “la sinistra italiana” non si è interrogata fino in fondo sulla relazione con gli ebrei, di fronte ai tre temi: «l’antisemitismo, il sionismo e il conflitto arabo-israeliano» (Tarquini, La sinistra italiana e gli ebrei. Socialismo, sionismo e antisemitismo dal 1892 al 1992, 2019: 10). E intendendo per “sinistra italiana” l’insieme di partiti e movimenti influenzati dal marxismo, la storica esamina tale soggetto negli sviluppi fino dalla sua costituzione, in un arco temporale che essa propone tra il 1892, anno della fondazione del partito socialista, e giunge in un secolo al 1992.

La novità della posizione mi spingeva a riflettere. La tesi incontrava il mio bisogno di ulteriori approfondimenti sul tema dell’annientamento razziale che, promosso dal governo italiano fascista, realizzò di lì a poco la piena intesa con il governo tedesco alleato. Ho dunque letto con interesse il libro, per verificarne più precisamente il percorso, concludendo che valga la pena tenerlo presente, anche se mantengo riserve. 

Senza ambire alla sintesi sistematica, intendo riferire alcuni snodi: nel disegno complessivo Tarquini esamina come in Italia a partire dall’Ottocento viene tematizzata la relazione con gli ebrei e l’ebraismo. Di tale relazione la studiosa, concentrandosi sul tempo che intercorre tra le date limite segnalate, 1892-1992, raccoglie tutte le gradazioni, dalla solidarietà all’avversione, lungo la memoria di ricostruzioni culturali, di politiche, di pratiche. Contemporaneamente richiama i concomitanti accadimenti pratici e culturali nello spazio dell’Europa e del mondo occidentale. Il disegno condotto nei sei capitoli, ma sono da aggiungere l’Introduzione e, importante, il Prologo, è dunque complesso: certo selettivo, poiché il focus scelto è precisamente circoscritto, non concedendo accostamenti a tematiche similari, che ad altri in effetti appaiono concomitanti. La documentazione, comunque, che l’autrice cita nell’intreccio dei fatti proposti è ampia e attentamente esaminata.

Non immediatamente perspicue sono le coordinate dell’autrice, per quanto riguarda il lessico e per quanto concerne lo spazio proposto: il termine “sinistra”, scelto nel titolo ma abbinato nel sottotitolo a “socialismo”, allude ad un campo di storia ideale che, pur non essendo una dizione standard, non è giustificato in modo esplicito. Nel Prologo i “socialisti europei” sono associati alla “questione ebraica”: termine adeguato per un dibattito di attualità tra gruppi e diplomazie contrapposti. L’antefatto prende le mosse dal delinearsi di imperialismi, con la rivalità ottocentesca tra Francia e Inghilterra, che puntavano ad approfondire l’influenza su parti dei continenti: in Europa in primis, ma anche in Asia, in Africa, in quell’America che già produceva rivoluzioni.

img_20210815_194541Il titolo del primo capitolo, Le origini del problema è certo sinonimo della “questione ebraica”. L’Italia acquisisce specifica evidenza nel tempo: nel primo capitolo condivide lo spazio con l’Europa della Seconda Internazionale e in particolare con la Francia, per l’Affaire Dreyfus e per il sindacalismo di Georges Sorel. Poi l’Italia prende spazio proprio: l’autrice rileva il contributo specifico di Cesare Lombroso ad alimentare l’antisemitismo. La “sinistra” giunge ad affiancare “i socialisti” nel secondo capitolo, L’inadeguatezza della sinistra. Questo termine, “sinistra”, dunque, non ha che fare con le vicende del Parlamento, il che sarebbe poco appropriato per la prima data posta nel titolo: mi riferisco al termine che si usa nella topografia politica dell’aula parlamentare, disponibile, ma poi da circostanziare, dal 1790 (Enciclopedia storica, 2000: 445: il modello fu l’Assemblea nazionale francese: così il lemma “destra, sinistra, centro”).

È, direi, una trama di relazioni connotate dalla clandestinità, da abboccamenti di testimoni il cui riscontro nella popolazione era del tutto incerto, se non velleitario. Il capitolo è senz’altro indicativo della prospettiva in cui Tarquini si colloca: della sua originalità, come delle radicali selezioni che opera, ma riguardo alle quali avverto in qualche modo come fossero ellittiche. Nella trattazione, che va dal dopo la Grande Guerra alla conclusione della Seconda Guerra, quindi alla vigilia del riconoscimento internazionale dello Stato d’Israele, la storica evidenzia che i partiti propostisi sull’area socio-politica dei lavoratori hanno assunto impronte connotanti, sulla questione degli ebrei, pur movendosi nello spazio difficile della clandestinità.

Nel riordino del mondo successivo alla Grande Guerra, Tarquini seleziona pochissime situazioni, disimpegnandosi brevemente con una frase: «Negli anni del conflitto mondiale, e in quelli del dopoguerra, i protagonisti di questo volume cambiarono radicalmente» (ivi: 55). Preparato con incontri tra emissari francesi e inglesi, sul territorio mediorientale dell’Impero ottomano si stabilisce il controllo inglese sulla Mesopotamia, quello francese su Siria e Libano, ma anche la prospettiva in Palestina di un focolare nazionale, o Stato, per il popolo ebraico. È in questa fase che si pongono caratteristiche durevoli, in una situazione non partecipata, che si chiariranno con il riordino degli Stati stabilito dai patti conclusivi della Seconda Guerra.

Per quanto riguarda la nomenclatura intorno alla “questione ebraica”, che nel saggio resta dizione prevalente, notiamo che l’esposizione si arricchisce di altre espressioni impegnative ma non illustrate (“causa ebraica, ebrei, ebrei dell’ovest, ebrei russi, sionismo”, nonché “antisemitismo”). Tarquini interpreta che a causa dell’infatuazione per la Russia sovietica le sinistre italiane non recepirono e non denunciarono l’ambivalenza praticata nei confronti delle comunità ebraiche: in effetti l’Urss si aspettava la loro completa sovietizzazione. Né si tenne conto che a metà degli anni Trenta l’Urss vietò la lingua ebraica, sostituita per decreto con lo yiddish.

Su come debolmente reagirono le formazioni d’area socialista in Italia ‒ cinque, comprendendovi il gruppo di “Giustizia e Libertà”, fondato a Parigi nel 1929 da Carlo Rosselli ‒ quando nell’autunno 1938 fu adottata la legislazione razziale antiebraica, la storica valuta che la ragione principale risieda nella scarsa circolazione delle informazioni conseguente al regime totalitario: come poche erano le informazioni dall’interno, e ardua la battaglia per la sopravvivenza, la persecuzione degli ebrei non fu percepita come un problema prioritario.

È dopo tale capitolo che la trattazione entra davvero nell’assetto contemporaneo: dal variegato mosaico degli antefatti si giunge al riconoscimento internazionale dello Stato d’Israele il 14 maggio 1948, con il terzo capitolo, Un’amicizia precaria. Da allora i rapporti fra la sinistra italiana e gli ebrei, che la storica ora limita a quelli d’Israele, non subirono evoluzioni, e nei capitoli successivi ‒ il quarto, La scoperta degli ebrei, la cui cronologia va dal 1960 al ventennale dello Stato d’Israele nel 1968, il quinto, La crisi, dal 1970 al 1978, infine il sesto, Grandi speranze, che dagli anni ’80 giunge al quarto decennale dell’istituzione statale ‒ si arriva alla data proposta nel titolo, il 1992, in cui la situazione diversa e nuova, favoriva diversi soggetti al di là della tradizione marxista. Era l’anno dei possibili nuovi rapporti, rispetto allo scenario disegnato alla fine della Seconda guerra. La caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Urss proponevano la possibilità di confluenze nuove. I quattro capitoli hanno struttura parallela, fissando ciascuno due linee di narrazione: sul tema medio-orientale sono riferite le reazioni dei partiti della sinistra italiana, mentre sul tema dell’antisemitismo d’epoca fascista si osserva la produzione letteraria e l’emersione di nuove puntualizzazioni. Questi recuperi, come quelli relativi alla risiera di San Sabba, hanno dato piano piano nuovo assetto alla conoscenza storica in Italia.

A consuntivo, sottolineo che un’efficacia particolare Tarquini esplica nella denuncia di vezzi e miti diffusi e persistenti, come il «mito del buon (o bravo) italiano», recepito soprattutto per mancanza di rigore in molta parte di intellettuali. Auspico infine che i sondaggi degli storici sulle connivenze della “sinistra” continuino, senza però proporli come alternativi alla ricerca delle responsabilità del governo fascista. Né può porsi la questione dello Stato d’Israele senza un’adeguata attenzione alla condizione sociale e diplomatica dei palestinesi. Ogni trascuratezza rischia qui di essere manifestazione di quell’“Orientalismo” denunciato da Edward Said, del resto intellettuale di origine palestinese. Spero che i fondi archivistici ora disponibili offrano nuove possibilità. Inoltre che si continui a cercare documenti prodotti dalle componenti culturali, sociali, diplomatiche che pure erano operative durante il fascismo.

img_20210815_195154La narrazione della storia non è intoccabile: cambiano i paradigmi e cambiano i fondi della documentazione ‒ me lo dico, mentre proseguo una meditazione amara innescata leggendo il titolo-tema su «Il manifesto», questo 4 agosto 2021, che grida: «Il lavoro è morto». Non è un’iperbole: la testata avverte che nel susseguirsi dei morti sul lavoro si consuma un’epoca, quella del lavoro posto a base della società. Proporsi, da storici o da cittadini, in scambi che toccano il livello delle nazioni implica la possibilità di incontrare errori e correzioni.

“Nazione” è un termine per molteplici usi: in una riflessione che mi pare abbastanza standard, lo accetto come dottrina politica operativa solo a partire dalla fine del XVIII secolo, dal formarsi degli USA nel 1776. Ma “nazione”, prima e ancora, vale per “comunità religiosa” riconosciuta: le leggi “Livornine”, in vigore dal 1590 al 1868, riconobbero le “nazioni”, cioè i gruppi riconoscibili dai riti esercitati, assicurando con la libertà religiosa la prosperità degli scambi. “Nazione”, “nazionalismo”, “interesse di stato” sono termini che ho imparato a graduare tra valore positivo, di crescita soggettiva entro la comunità, e valore negativo, di dirigismo, come stile che non rispetta le persone. Questa scala di valori mi è presente in ogni lotta nazionale, che auspico quando la riconosco come tale ‒ certo è il gruppo che si autopromuove, ma decisiva la pronuncia di organi internazionali: e l’aspetto culturale e morale ha un peso ‒. Ma non è riconoscimento facile, né sempre durevole. Lo dimostrano la “questione balcanica”, che diventò casus belli nella Grande Guerra, o nomi geografici come Semeni, Leitha, Kosovo: la “questione nazionale” non è esaurita, forse non potrà mai esaurirsi.

La nazione si configura su percorsi diversi, non si costituisce in un’esperienza unica, ma è importante che si rifletta sull’ambito concettuale su cui questa parola verte, nonché sui modelli e sui tratti culturali implicati nel riconoscimento. Un esperimento importante di nascita della nazione, nel primo Ottocento, fu la Grecia: un caso particolare, ma osservato dalle grandi potenze europee come un vero laboratorio nel periodo 1821-1832. Qui furono coinvolti principalmente questi tratti: la valorizzazione della religione, la reviviscenza della lingua, la cura della cultura: davvero complessa, poiché già intorno al 1835 qui è legittimo parlare di “orientalismo”. Da questo laboratorio ho appreso che anche la lingua, in un fervore di aspirazione nazionale che si generalizza, può implementarsi, riparametrarsi: nel 1828 ci furono incontri tra Andrea Mustoxidi e Gino Capponi, per riorganizzare in chiave nazionale laica la lingua greca (e si dice ora greco moderno), pressoché ridotta a quell’epoca a usi liturgici o informali (Bellucci, 2012: 38). I due intellettuali ricercavano la lingua nel codice appreso nelle seguenti situazioni: le cure casalinghe, il popolo, la lingua degli scrittori.

Busto di Vincenzo Salvagnoli, Emilio Santarelli, 1842, Empoli, Biblioteca Comunale Renato Fucini

Busto di Vincenzo Salvagnoli, Emilio Santarelli, 1842, Empoli, Biblioteca Comunale

Non diversamente del resto era accaduto in Italia, ma non quando è diventata nazione ottocentesca: infatti allora già la “questione della lingua” aveva attraversato fasi per assettarsi. Era accaduto prima, quando la lingua volgare, tra XIII-XIV secolo, fu normata: la popolarità di Dante nell’Ottocento venne anche dal riconoscimento dell’apporto in tale ambito. Politico dell’epoca della costruzione nazionale è Vincenzo Salvagnoli, il cui archivio ho potuto frequentare per studi storici: un altro caso di studio interno al compimento del percorso verso la nazione. Salvagnoli fu patriota partecipe a tutte le vicende risorgimentali e infine ministro dei Culti nel governo Ricasoli, che condusse la Toscana a annettersi al Piemonte nel marzo 1860, in vista dell’Unità d’Italia. È questo l’ultimo studio che ho compiuto (Bellucci, 2019).

Giurista e esperto di legislazione anche internazionale, Salvagnoli, con un’azione ispirata all’illuminismo, riformò i servizi di stato civile, separandoli dalle autorità religiose cattoliche e creando una rete laica intorno ai servizi. La Toscana legittimò quindi il culto israelitico, già ammesso in Piemonte dal 29 marzo 1848. I cittadini di religione ebraica, poi, furono del tutto riconosciuti nella loro specifica scelta cultuale, una volta costituito lo Stato unitario. Limitandomi alle osservazioni in Toscana, risalta a quell’altezza la presenza degli ebrei a tutti i livelli, tanto più che i cittadini di cultura ebraica, considerando importanti gli studi universitari, furono ben presenti nella vita sociale del giovane Stato: nelle professioni, nell’associazionismo, nelle riviste, nei salotti. L’osservazione di questi ambienti offre un profilo di indagine che non può essere tralasciato.

img_20210815_195029Non di rado è tema della mia conversazione con Caterina Del Vivo, sensibile intellettuale, archivista a Firenze del Gabinetto Vieusseux, competente su cultura e vita di donne e uomini ebrei nella Firenze di primo Novecento. Essa ha curato a Firenze nel 2011 la mostra documentaria: «Narrando storie. Laura Orvieto». Per sua cura, riordinando i materiali di Laura e Angiolo Orvieto risalenti al 1903 depositati in archivio, è stato pubblicato il romanzo Leone Da Rimini, inquadrandolo nel dialogo virtuale che si instaura con il tema del disagio, presente nei romanzi di Enrico Castelnuovo (Orvieto, Laura, Adolfo Orvieto, 2016: 13-23). La prefazione è di Alberto Cavaglion, che in un’agile sintesi evidenzia lo scarto che presso gli ebrei la nuova generazione avvertiva rispetto al periodo risorgimentale: in positivo. Questi cittadini ora si sentivano a loro agio «superate le antiche lacerazioni. Cosa d’altri tempi appare il dilemma speranza ‒ timore» (Orvieto, Laura, Adolfo Orvieto, 2016: 9-12).

Di fronte a tali premesse, alla constatazione di visibili apporti presenti nel tessuto civile e culturale dell’Italia unita nel primo XIX secolo, continuo a interrogarmi soprattutto sulla storia interna all’Italia: su quali considerazioni, scopi generali, consulti si è fondata la legislazione contro gli ebrei, come non si siano proposte occasioni di protesta. È falso che non ci fosse tessuto di aggregazione. Né è credibile che tutte le eventuali espressioni, le testimonianze, siano state erose. Quel sistema che è stato definito “armadio della vergogna”, se vogliamo trovarvi una motivo che incoraggia, sta a dimostrare che non è ancora utopia sperare nel ritrovamento di altri analoghi “tesoretti di memorie”: come i “tesoretti di monete” utili a rivedere i tratti della storia dispersa del passato.

Mi accorgo che i quesiti che formulo sono diversi dal terreno indagato da Tarquini. Per me gli enigmi essenziali sono depositati ancora nei vari livelli in cui si strutturavano governo e società italiani: poiché in quel 9 maggio 1938 che Montale ha fissato in Primavera hitleriana, ma in una scrittura definita nel 1946, c’erano piani, già stilati, e partivano dall’Italia. Inoltre, ripeto, l’assenza dei palestinesi e delle loro rappresentanze, in una trattazione che chiede ai politici italiani informazione sullo Stato d’Israele limpida come fossero prima fonte, la considero un limite, nel libro della Tarquini.

Il punto di vista di Tarquini mi dimostra però quanto è importante tenere aperto il cantiere. Me ne viene l’invito a ripercorrere letture. Più consonante con le mie esplorazioni e con il mio sentire, trovo la testimonianza di Vera Pegna, intellettuale contemporanea di cultura ebraica, autrice di una sua descrizione del Novecento che mi ha fornito riflessioni sulla contemporaneità (Pegna, 2018). L’ambito è analogo, per spazio geografico e temi, a quello indagato nel libro della Tarquini: le convenzioni dei due statuti, uno storico, l’altro autobiografico, sono ovviamente diversi, ma è anche vero che non di rado si sono utilizzate biografie nelle ricostruzioni storiche. Pegna è bene informata, professionale nell’uso di archivi, e vi è fitto intreccio tra esperienze private e dati generali. Ma qui mi limito a segnalare l’opera, riportandone la tesi centrale.

pegnaPegna, nata a Alessandria d’Egitto nel 1934, vi è vissuta fino al 1952, in un gruppo familiare intellettuale, progressista e repubblicano, ma inserito piuttosto nell’ambiente monarchico di re Farouk. Ha poi perfezionato studi linguistici a Ginevra e dal 1959 ha scelto come sua base l’Italia, dopo aver incontrato l’impegno pacifista, e poi quello politico, all’epoca vicina al PCI, contro la mafia in Sicilia, a Caccamo. Si schierò quindi con il gruppo del Manifesto: ha talora dialogato, ma anche polemizzato, con Rossana Rossanda. Sulla sua vita le informazioni sono ben reperibili: tra l’altro, a firma di Daniela Tedone, le è intitolato un articolo sulla enciclopedia delle donne in internet (http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/vera-pegna/).

Schierata politicamente a sinistra, fu internazionalista e pacifista accanto a Lelio Basso, così come a Guido Fubini, La notorietà del suo sostegno alla lotta dei palestinesi le procurò uno spiacevole equivoco nel 1978, quando Aldo Moro fu nelle mani delle Brigate Rosse: fu diffuso, tra gli scoop, anche quello che lo statista fosse prigioniero dei palestinesi, il che portò il fratello, Carlo Moro, a cercare Lelio Basso. Questi smentì l’attendibilità della voce, attestando piena stima a Vera Pegna, che era allora la persona di fiducia dei palestinesi in Italia.  

Nel libro lo sguardo verso il territorio del Medio Oriente costituisce nucleo di interesse centrale, in coerenza con la conoscenza ampia della storia mediterranea, anche per le memorie della famiglia. Tale conoscenza parte da lontano, dal 1897, primo congresso sionista mondiale, nonché dal 1917, Dichiarazione di Balfour, così che Pegna può narrare i capitoli di storia lunga e articolata dell’«opposizione al sionismo» (Pegna, 2018: 113), cui hanno partecipato gli ebrei in Italia, con organi d’informazione qualificata, e con disamine ampie. Più volte Pegna torna su come si debba interpretare l’espressione biblica «popolo ebraico… eletto da Dio»: è da accettarsi, essa dice, in riferimento all’osservanza delle norme della Torah, ma è l’adozione di «istituzioni rappresentative … l’unico criterio universalmente accettato per connotare un popolo in senso politico»: perciò «la rivendicazione di Israele di essere … lo Stato di tutti gli ebrei del mondo» è «uso fraudolento del termine biblico».

Lo Stato d’Israele è stato basato in modo complesso su «un sistema di alleanze», comunque ora «Israele ha il diritto di esistere non come Stato del “popolo ebraico”, ma come Stato del popolo israeliano nel cui futuro si configura necessariamente la convivenza con i palestinesi che torneranno sulla loro terra» (Pegna, 2018: 117-118). Attenta alla semantica delle parole, evidenzia che “essere ebreo” indica la pratica religiosa: chi, non scegliendola, partecipa invece delle tradizioni sviluppatesi intorno, è «di ascendenza, o di origine cultuale» ebraica (Pegna, 2018: 135, 143).

Questa tesi è proposta nel libro a più riprese, con coerenza, così che Pegna respinge per tale territorio la proposta di due Stati, come sostenuta in particolare da John Kerry nel 2016 (Pegna, 2018: 156) e poi da Trump. Tornando nella parte finale dell’autobiografia all’inizio della sua maturazione, avvenuta in Sicilia a Caccamo, ipotizza intitolazioni a Nelson Mandela, in quanto «paladino della riconciliazione nazionale» (Pegna, 2018: 256): il che è coerente con il suo sogno di uno Stato d’Israele affidato alle due componenti: israeliani e palestinesi. Torna infatti il nome di Mandela a pag. 269, a confermare, per il territorio del Medio Oriente, l’analogia della difficile ricomposizione affermatasi in Sudafrica con la Commissione per la verità e la riconciliazione.

In generale, l’auspicio di Pegna è che nelle relazioni internazionali sia spostata l’attenzione dalla guerra, come evento generatore di realtà, alla cura ampia, sapiente della giustizia: si vis pacem cole iustitiam (Pegna, 2018: 269). Personalmente condivido tale prospettiva: così come la giurista Marta Cartabia auspica che la giustizia cieca, distruttiva delle Erinni, sia superata da quella sapiente delle Eumenidi, esercitando una sollecitudine che abbia come orizzonte l’intera società.   

Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021 
Riferimenti bibliografici 
Bellucci, Franca, La freddezza del politico e la partecipazione dell’uomo. 1859-1861: gli anni dell’annessione nelle carte di Vincenzo Salvagnoli, in “Quaderni d’Archivio” a. VIII-IX, n. 8-9, 2019: 139-154
Bellucci, Franca, La Grecia plurale del Risorgimento (1821 ‒ 1915), Pisa, ETS, 2012
Enciclopedia storica, a cura di Massimo L. Salvadori, Bologna, Zanichelli, 2000
«il manifesto», 4 agosto 2021
Orvieto, Laura, Angiolo Orvieto, Leone Da Rimini a cura di Caterina Del Vivo, Livorno, Salomone Belforte, 2016
Pegna, Vera, Autobiografia del Novecento, Milano, Il Saggiatore, 2018
Tarquini, Alessandra, La sinistra italiana e gli ebrei. Socialismo, sionismo e antisemitismo dal 1892 al 1992, Bologna, il Mulino, 2019
Tedone, Daniela, http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/vera-pegna/

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Franca Bellucci, laureata in Lettere e in Storia, è dottore di ricerca in Filologia. Fra le pubblicazioni di ambito storico, si segnalano Donne e ceti fra romanticismo toscano e italiano (Pisa, 2008), nonché i numerosi articoli editi su riviste specializzate. Ha anche pubblicato raccolte di poesia: Bildungsroman. Professione insegnante (2002); Sodalizi. Axion to astikon. Due opere (2007); Libertà conferma estrema (2011).

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