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E se fosse un gioco? Un antropologo in spiaggia e i sensi dell’altrove

Frontiere del gioco (foto Montes)

Frontiere del gioco (foto Montes)

di    Stefano Montes

Pieno agosto, in spiaggia. Io, in un sito non molto lontano da Palermo, immobile, osservo assorto. È pomeriggio, il vento soffia. Forte. Soffia forte. Poche persone, sulla sabbia calda. Soffice, cedevole. Distese qui e lì. A gran distanza l’una dall’altra. Poche persone. Qualcuno prende il sole, qualche altro legge. Puntini inerti. Oasi nel deserto. Isole di storia. Seduto su una grossa pietra circolare e bassa, gomiti sulle gambe, rivolto verso il mare, io osservo il mare: i salti degli sportivi sulle onde indispettite; la spuma bianca che si solleva a fiotti. In alto, in basso, su e giù. Spruzzi e sprazzi catturano i miei sensi, interrogano le rigidità del mio corpo, sobillano i miei pensieri fino all’insubordinazione. Il libro di Oakdale, I foresee my life, per terra, giace ormai, tra i miei piedi confusi, sulla sabbia; le onde, in ordine sparso, all’orizzonte, sono segni indecifrabili di un evento inatteso. Il vento soffia. I paracadute, leggeri, volteggiano nel cielo come aquile che mancano la preda. Osano. Eccome se osano! Il lungo affondo lineare si trasforma in guizzo, nell’aria. Affondo e guizzo. A ritmo sostenuto, si susseguono, prima un lungo affondo e poi un breve guizzo. Da una parte e dall’altra, proseguono all’infinito, in serie discontinua, secondo un ordine inaspettato, animano il coagulo di sensi e pensieri miei, dolcemente ribelli a ogni altra mia, indipendente, iniziativa. Tanto, non ho nessuna voglia di agire in controcorrente, di prendere le redini di me stesso: lascio che il ritmo di sensi e pensieri giochi insieme con il mondo, con i volteggi e le accelerazioni lineari, i guizzi e gli affondi curvilinei. Sono agente assente, senziente, nei pensieri, nelle sensazioni. Un pensiero si manifesta con un lungo affondo seguito da un guizzo. E un altro ancora. E ancora. Con lo stesso ritmo, s’improvvisa il rapido alternarsi di direzione delle tavole. Sul mare, le tavole di surf accelerano impazzite, sfiorano l’acqua. Si mette, così, senza preavviso, in scena un dialogo tra l’avanzamento, prima accelerato e poi lento, delle linee orizzontali prodotte dalle tavole e il fioccare di affondi curvilinei e guizzi puntiformi dei paracadute: un dialogo compreso in uno specchio d’acqua mediterranea. Come altro chiamarlo, se non dialogo?

Osservo e penso, tutto solo, srotolato all’esterno, compresso in me stesso e proiettato sulle onde del mare, in apparente contraddizione, ma rilassato, in compagnia degli elementi della natura, privo di intenti e propositi. Ci sono e ci rimango. È tutto un esserci e interagire, ora e adesso. A me stesso presente. Nel flusso. Presente. Piacevolmente pesante. Fuori centro, fuori fase. Compresente. Disteso. Rapito. Mi attesto meglio sul mio luogo di osservazione. Non è un angolo. Nello spazio aperto in cui mi trovo muovo le gambe, affondo i piedi sulla sabbia: le gambe obbediscono; i piedi, come al solito, fanno di testa loro e sollevano un po’ le punte. Prendo posizione. Osservo. Il mondo fuori e il mondo dentro. Le mie percezioni e sensazioni, indistinguibili dal disordine dei miei pensieri. Mi lascio pensare. La mia mente arranca pigra, i miei pensieri incalzano. La mia mente arranca, il mio corpo segue, in sintonia. Si sfidano nei miei pensieri versi e frammenti, poesia e prosa. Fa caldo, ma il vento infuria. Non sudo. Non soffro. Gli Argonauti di Malinowski, Il Cimitero marino di Valéry: si lanciano segnali d’intesa. Dialogano? Volteggiano nella mia mente come i paracadute nel cielo. Sprazzi d’etnografia e frammenti di letteratura si offrono per immagini in rapida successione. Come in un film. Come a voler sfidare le figure del mondo che si mostrano ai miei occhi. L’immaginazione vorrebbe prendere il sopravvento sullo spettacolo in corso, davanti i miei occhi. Esito: tra il cielo azzurro e i ricordi giallini. Il vento leggero accarezza la superficie del mio corpo, sfiora la mia pelle. Decido di lasciar decidere i sensi al posto mio. Non oppongo nessuna reazione a me stesso.

Agosto in do settima (foto Montes)

Agosto in do settima (foto Montes)

In questo momento, non potrei essere più lontano dall’idea di Valéry, che pur ammiro e faccio sovente mia nella vita quotidiana così come nei progetti a lungo termine, secondo cui io «sono reazione a ciò che sono» (Valéry, 1990, 427). Non oppongo resistenza a quel me stesso scomposto in sensi e pensieri. Altrimenti, che dialogo sarebbe? Adotto un punto di vista, mobile e diffuso, su me stesso e gli altri, sulle microinterazioni che si attuano, più in generale, tra le parti attorializzate del mio corpo e il luogo specifico. Non solo il luogo dove mi trovo mi accoglie – dà corpo e densità al movimento dei miei sensi – nei modi particolari che la sua configurazione consente all’espansione del mio essere, ma risponde inoltre, in qualche modo, alle ‘mie’ molteplici microazioni, retroagendo, su me stesso e la composizione-svolgimento della mia identità, smussando la mia apparente unità del vivere e di soggetto in sé, in apparenza compatto e unitario. È interagendo con me stesso e il mio prossimo, in un luogo anch’esso attivamente in gioco, che sono ciò che sono e penso come penso. Il classico e celebre cogito ergo sum di Descartes? Più che interagire in conseguenza del mio essere, in questo specifico momento sono poiché interagisco. La sabbia soffice avvolge i miei piedi proiettandomi verso il basso. Il senso dell’equilibrio, scompaginato dalle piroette degli sportivi sul mare, mi orienta, con un leggero stordimento, verso l’alto e subito dopo mi scaraventa a capofitto verso la linea dell’orizzonte.Come se fosse un senso più prepotente degli altri cinque, quelli ufficialmente riconosciuti dalla scienza occidentale. Il senso di ovattamento – anche questo, perché no, potrebbe aggiungersi alla lista degli altri cinque di aristotelica memoria – esaspera la percezione sensoriale e trasforma il mondo in serie di gesti e movimenti e carezze del vento sulla pelle e sbilanciamento del senso dell’equilibrio e luccichii di stelle sul mare e tuffi nelle profondità e parabole ascendenti in verticale e nuvole bianche contro l’azzurro denso e l’io in subbuglio, tuttavia mobile e spensierato.

Vivere d'altro (foto Montes)

Vivere d’altro (foto Montes)

Sì, vivo l’effetto di un polisindeto in situazione concreta, in spiaggia: più che l’incalzare delle azioni, sento la leggerezza del loro fluido concatenarsi, l’una dopo l’altra, l’una in congiunzione con l’altra, l’una in opposizione all’altra. Le carezze del vento sulle spalle prendono a tratti un corso più regolare, sistematico, si estendono al resto del corpo: cominciano dall’alto, dai capelli, poi si adagiano sulla superficie delle spalle e infine si propagano verso le gambe. In contemporanea ai voli sulle onde degli sportivi, l’altrove si presenta a scatti, alla rinfusa. L’arrivo di un antropologo in una spiaggia delle Trobriand, la descrizione di una marina da parte di un poeta francese: immagini, più che parole; richiami, più che autori. Il luogo si presta. Sono a casa, non lontano dalla mia città natale. In Sicilia, sul mare. E l’altrove irrompe con naturalezza sotto forma di ricordi e parallelismi con altre spiagge d’antropologi, di sensi alterati e aggrovigliati, carezze sulla pelle e massaggi di sabbia ai piedi. È un altrove. Non richiesto, imprevisto. Passeggiavo, tanto per fare un po’ di moto in spiaggia, e mi ritrovo, incuriosito, incollato a una pietra, con i sensi allerta e il naso in aria. Ed è la ragione per cui non considero questo breve saggio un elogio dell’osservazione: no, non lo è, non è un privilegiare lo sguardo alla maniera di Malinowski. È un tentativo, il mio, di tradurre in scritto e immagine la compresenza, sovrapposizione e irruenza di attività cognitive, emotive e sensoriali talvolta concepite, piuttosto ingenuamente, in isolamento. La linearità del testo scritto si scontra con la compresenza, nel vissuto, di attività cognitive e sensoriali. Questa difficoltà di traduzione del vissuto nel testo scritto non vuol certo dire che, nel processo, distinguiamo nettamente un tipo di attività dall’altra. Come se fosse possibile ‘emettere un pensiero’ e subito dopo, per scelta ‘produrre una sensazione’.

Uno dei compiti – e delle difficoltà – dell’antropologo è proprio quello di tradurre realtà ed esperienza in un medium che gli consenta di comunicarne senso ed espressione ad altri. Questa difficoltà, più che scoraggiare, deve invece fare riflettere sulle modalità congiunte di manifestazione di senso e pensiero. Il discontinuo – a cui si cerca di ovviare in qualche modo con la scrittura o la produzione di un filmato o altro – si pone tra la realtà-esperienza e la sua traduzione nel medium scelto. Invece, non credo che «per raggiungere il reale bisogna prima ripudiare il vissuto» (Lévi-Strauss, 1960, 56). Per quanto composita, intreccio di soggettivo e oggettivo, il vissuto è già una realtà. Se di discontinuo si tratta, questo si instaura, semmai, tra la realtà-vissuto e la sua necessaria testualizzazione. Questo presupposto – la continuità di effetti tra realtà e vissuto – mi spinge, talvolta, verso un percorso di ricerca preciso: osservare gli altri, osservando al contempo me stesso – un ‘me stesso’ composito, scomposto e ricomposto – durante l’osservazione in corso. D’altronde, se si volessero prendere sul serio alcune affermazioni illuminanti proprio di Lévi-Strauss, in controcorrente rispetto alla precedente citazione, questo potrebbe essere considerato un programma di ricerca da perseguire sino in fondo: «l’osservatore stesso è una parte della sua osservazione» (Lévi-Strauss, 1950, XXXI, corsivo dell’autore). Io non sono in cerca di una realtà ‘oggettiva’, se questo vuol dire osservare gli altri prendendo le distanze da me stesso, facendo finta di non esserci, azionando una sorta di telecamera che registra l’esterno senza tenere conto dei flussi interni. Il punto di partenza è il mare. È tutto. Tutto qui. Non proprio. Voglio fissare rapito il mare, la linea d’orizzonte, le acrobazie degli sportivi sulle loro tavole, smarrirmi a corpo morto e pensieri a briglia sciolta nel cielo azzurro macchiato di nuvole bianche. Senza scopo, se solo fosse possibile: difficile azzerare gli obiettivi, grandi o piccoli che siano, anche per un momento.

 L'osservatore osservato (foto Montes)

L’osservatore osservato (foto Montes)

Io voglio scrutare il mare e prendere parte agli eventi con tutti i miei sensi e pensieri in tumulto. Le tavole s’avvicinano pericolosamente al lido, si bloccano un istante che pare eterno in una magica immobilità, ripartono a tutta birra dopo un cambio di posizione. Voglio osservare i miei sensi e pensieri come se fossero quelli di un altro mentre le tavole s’avvicinano a velocità vertiginosa verso il bagnasciuga. Voglio osservare il loro incrociarsi e disporsi in sintassi mentre le tavole, dopo un rapido cambio di posizione, ripartono in un’altra direzione. Basta poco. Un salto, uno scatto. Sono bravi, gli sportivi. Sono affascinato. Io immobile, loro in gran movimento. I loro muscoli in azione costante, il mio sguardo perso nel vuoto. Cade in basso, incontra il volto della bimba, tra i miei piedi. La copertina dell’etnografia di Oakdale interviene a dire la sua: la bimba, in braccio a un uomo, sembra guardare sorridente dalla mia parte, rivolgersi a me in tono interrogativo. L’uomo e la bimba sono Kayabi. Se anche potessero parlare, non potrei capirli nella loro lingua. Ma sono necessarie le parole per avviare un dialogo? È già in corso un fitto dialogo tra me e l’orizzonte marino, tra me e i sensi, tra le immagini di letteratura e di antropologia, tra la verticalità dei salti degli sportivi e l’orizzontalità delle linee di fuga dello sguardo, tra il mondo esteriore e quello interiore, tra i flussi scompaginati della sensorialità e quelli ancora più disordinati dei pensieri. A tutto questo si aggiunge, in questo momento, lo sguardo inquisitivo della bimba. E, a ben vedere, non si tratta nemmeno di un dialogo in atto tra voci o tra due istanze dotate di sola parola, ma di interazioni molteplici e incrociate tra attanti diversi del mondo che entrano in contatto con i miei scomposti processi cognitivi, emotivi, sensoriali e somatici. Più che un dialogo tra due sole voci, si tratta qui di interazioni tra attori e figure interocettive ed esterocettive.

Per giocare a spingere i concetti al di là della loro stessa portata, si potrebbe dire che, più che una polifonia, è una polisemiosi. È un concerto di voci e segni, attanti e attori. Sì, è proprio così: un concerto più che un dialogo a due. Non capisco perché il tutto si dovrebbe ridurre a due sole voci e a un dialogo ristretto a due sole entità di essere umani. Come se gli altri attori del mondo e del corpo fossero in attesa di partecipare una volta che si libera il posto. Quale posto? Per quale ordine? Per dirla tutta, se proprio si vuol parlare di dialogo, bisogna ricordare che il dialogo non è solo affar di umani in carne e ossa. Come ribadisce Lévi-Strauss, anche i miti dialogano tra loro: «il pensiero mitico, messo di fronte a un problema particolare, lo mette in parallelo con altri» (Lévi-Strauss, 1988, 194). È dunque un problema di pertinenza e di tipi di relazioni attivate: il livello di pertinenza scelto da Lévi-Strauss non tiene conto della possibilità per i nativi di prendere parte a questo dialogo. È quello che gli critica Tedlock: «tutte quelle centinaia di pagine sui miti sudamericani […] Non si impegna [Lévi-Strauss] in un dialogo con loro? Ma, se gli diamo un’altra occhiata, non è consentito a un solo indiano sudamericano di esprimersi in tutte quelle pagine» (Tedlock, 1983, 335). A sua volta, Tedlock, pur elogiando le virtù del dialogo in antropologia, si limita al dialogo relativo all’oralità e subordina tutte le altre forme di dialogo, ivi compreso quello riportato o creato per iscritto, a quello orale. Il medium analizzato da Tedlock è solo ed esclusivamente orale: come se i suoi nativi non avessero altre possibilità, come se il diritto alla registrazione dell’alterità (e all’analisi) appartenesse per diritto all’antropologo non nativo. Anche in questo caso, dunque, consapevolmente o meno, il dialogo è una forma specifica basata sulla selezione di alcuni tratti resi pertinenti: un livello di pertinenza identifica alcune relazioni e ne lascia fuori altre.

Qual è il livello di pertinenza specifico da me scelto, qui, in questo saggio? Più che il pensiero, mi interessa il pensare e le sue connessioni con le sensazioni; più che la sintesi che rispetta le convenzioni talvolta obsolete del genere scientifico, mi interessa la narrazione che rende maggiormente l’ampiezza del vissuto. La difficoltà sta nell’affrontare il processo del pensare e della sensazione insieme, senza separarli d’acchito, anzi, cercando di farli dialogare. Come se fossero materia viva, tutt’intorno a me, alle mie spalle, sotto i miei occhi, di fronte. Nello spazio a me antistante, intanto, gli sportivi hanno anch’essi i loro problemi nel trasformare la forza del vento in direzione ordinata e salti equilibrati. Non se la cavano male: si danno però un gran da fare, tra la superficie marina e il piano verticale del cielo; io sono invece solidamente seduto su una pietra, le gambe ben ferme sulla sabbia. Io non sono proprio per terra e loro non proprio tra acqua e mare. È un parallelo? Una pietra si offre alle mie natiche mentre una tavola da surf si propone ai loro piedi su gambe flesse. Sono incantato, in questa posizione da un tempo che a me pare immemorabile. Guardo automaticamente l’orologio. Mi rendo conto del lasso di tempo trascorso. Non più di una mezz’oretta – penso – di fatto. Ma i fatti sono lontani e il tempo trascorso sembra un’eternità. Il tempo perde tempo.

Sensi sovversivi (foto Montes)

Sensi sovversivi (foto Montes)

Qui, all’aria aperta, gli sportivi sono costretti a parlare a gran gesti per il gran vento che annulla ogni altro suono. Ma loro lo sanno già. Sembrano conoscersi tutti da tempo. Sembrano sapere cosa fare e cosa dirsi. La comunicazione fila liscia. Senza intoppi. Sono in effetti una comunità di pratica: «gruppi di persone che condividono un interesse, un insieme di problemi, una passione rispetto a una tematica e che approfondiscono la loro conoscenza ed esperienza in quest’area mediante interazioni continue» (Wenger, McDermott, Snyder, 2007, 44). Perso in questa meditazione, che è in fondo una meditazione sul senso profondo – o rizomatico? – dell’identità, mi accorgo, con la coda dell’occhio, che uno sportivo cade in acqua. D’improvviso, è alto il mio stupore sull’immensità del mare. Al vederlo, io mi immedesimo e sento di adagiarmi come un tuorlo d’uovo infranto sulla padella curvata, trasportato dalle onde distese, cullato dall’orizzonte ancora azzurro del tardo pomeriggio. So che pare strano, ma non so come altro dirlo, se non con una metafora che traduce al meglio le mie sensazioni. Contrariamente a quanto si crede, le metafore non sono puro abbellimento poetico o letterario, ma strumento per una migliore comprensione della realtà, con i loro balzi concettuali e con le molteplici traduzioni di elementi dell’immaginario. Oltre a essere materia per la strutturazione di un testo letterario, le metafore costituiscono un vero e proprio dispositivo culturale attraverso il quale le nostre esperienze sono categorizzate e forniscono un senso persino alla vita ordinaria. Lo ribadiscono, in un testo ormai classico, Lakoff e Johnson quando rivelano il motivo per cui si sono dedicati allo studio della metafora nella vita quotidiana: le teorie del significato nella linguistica e filosofia occidentali avevano poco «a che vedere con ciò che la gente trova significativo nella propria vita» (Lakoff, Johnson, 1998, 15). Anche in spiaggia, dunque, attraverso le metafore che sembrerebbero scaturire spontaneamente, si può pensare a ciò che la gente trova significativo nella propria vita.

Il quotidiano non è, come si potrebbe credere, l’ambito in cui qualcosa accade solo ‘alla lettera’: quotidianamente, ordinariamente, il letterale e il metaforico si intrecciano strettamente. Io trovo significativo esplorare questo processo complesso, metaforico e non, in cui l’osservazione – se considerata, come io credo debba essere, un elemento in divenire che ritaglia il continuum della soggettivazione e oggettivazione – si scompone e si ricompone. All’origine di tutto si trova una domanda. La mia domanda è semplice, tutto sommato. Che ci faccio qui?, direbbe Chatwin. Che ci faccio qui, in questa spiaggia?, riformulo io. Le mie parti del corpo entrano, qui, in spiaggia, in contatto con gli elementi della natura giocando a ridefinire l’osservazione diversamente dal solito: non più in quanto spettacolo di un soggetto che sta al di qua di una frontiera che stabilisce ciò che va osservato, ma come dinamismo dell’osservazione le cui frontiere sono mobili e ricomposte.

Se frontiere più statiche ci sono, esse sono flebili: il soggetto osservatore è anch’esso oggetto osservato e, parimenti, soggetto dell’interazione con le parti del suo corpo. Così è per il corpo e il pensiero. Corpo e pensiero non sono i termini di un dualismo accettato in quanto tale; semmai, si scambiano le parti: il corpo diventa soggetto pluriattoriale e il pensiero a sua volta si trasforma in disordine che resiste alla direzione di un solo ‘io’ centrale. Talvolta si instaura un divenire-corpo del pensiero; altre volte, si instaura un divenire-pensiero del corpo. ‘Io’ sono in spiaggia, tutto preso dalle acrobazie di individui che praticano uno sport che non so nemmeno come chiamare esattamente ed è come se fossi in acqua con loro. Questo sport sembra una bizzarra unione tra il surf e il paracadutismo. Direi addirittura, nella mia scontata ingenuità, che si tratta dell’incontro di due sport diversi, all’origine molto lontani l’uno dall’altro: il surf e il paracadutismo. Eppure mi piace, mi tiene incollato per terra con lo sguardo in aria e i sensi in tumulto, mi spinge a uno strano monologo con me stesso. Parlo con me stesso e con i miei sensi, parlo con i miei flussi di pensiero. Ma è un monologo classico in cui io assumo tutta l’autorità dell’agire, pensare e sentire? Per niente; semmai è il contrario: in spiaggia, assisto a un concerto dialogato tra le varie componenti attanziali del mio corpo di cui io – quale ‘io’? – mi sento destinatario paziente. È pur vero che, in generale, i monologhi non sono quasi mai pura parola autoriflessa, fine a se stessa, ma veri e propri indirizzi, talvolta dissimulati, di comunicazioni molteplici attraversati da voci e segni, suoni e sensi.

Riflessività piano franta (foto Montes)

Riflessività piano franta (foto Montes)

La parola è intrinsecamente dialogica, persino laddove si manifesta come astratta e neutra: «La parola nasce nel dialogo come sua replica viva e si forma nell’interazione dialogica con la parola altrui nell’oggetto. L’atto con cui la parola concepisce il suo oggetto è dialogico» (Bachtin, 1979, 87). Prendiamo un esempio in cui il monologo sembra, invece, ingenuamente, monologo e nient’altro: la scena teatrale con un solo personaggio. Nella finzione teatrale, un monologo, per quanto in principio discorso rivolto esclusivamente al soggetto che lo enuncia, prevede inoltre un pubblico al quale si destina in concreto la comunicazione. Un monologo, più in generale, può addirittura costituire flusso di comunicazione terapeutica indirizzata a se stesso in quanto altro da sé: parlare a voce alta, in questa prospettiva, aiuta a prendere coscienza delle diverse parti che costituiscono una ‘stessa’ identità, aiuta a risolvere un dubbio o a prendere una decisione determinante. Un monologo è quasi sempre attraversato dall’alterità. Se accettata, questa prospettiva potrebbe rivelarsi un campo di studio a tutto tondo per l’antropologia, per una ‘antropologia dei monologhi’ intesi nel senso precedentemente menzionato: una antropologia che focalizza l’attenzione sulla polifonia implicitamente contenuta, comunque da rivelare, in quella che è in apparenza la parola rivolta a se stesso. Naturalmente questa antropologia dei monologhi attraversata da voci multiple sarebbe l’opposto, almeno nelle mie intenzioni, di una ‘antropologia monologica’ che tende invece a mettere in risalto le parole e la concezione emananti dall’autorità di un solo e unico soggetto. Piuttosto, la mia ‘antropologia dei monologhi’ sarebbe più vicina a un gioco e all’apprendimento della flessibilità di stili di comportamento assunti attraverso il gioco:

«Il bambino sta giocando a essere un arcivescovo. Non mi interessa che, ricoprendo quel ruolo nel gioco, impari come essere un arcivescovo, ma piuttosto che si renda conto che esiste qualcosa come un ruolo. Impara o acquista un nuovo modo di vedere, flessibile e rigido a un tempo, che viene poi tradotto nella vita, quando si accorge che in un certo senso il comportamento può essere legato a un tipo logico o a uno stile. Non si tratta di imparare lo stile particolare richiesto da questo o quel gioco, ma la flessibilità degli stili e il fatto che la scelta di uno di essi o di un ruolo è collegata alla cornice e al contesto di comportamento. E il gioco stesso è una categoria di comportamento, classificata in qualche maniera da un contesto» (Bateson, 1996, 35).

Mentre penso e ripenso alle connessioni tra la flessibilità dell’antropologo e la flessibilità di chi ha imparato tanti giochi, le mie gambe suonano l’allarme. Sento un formicolio ai polpacci, devo sgranchirmi un po’. Mi alzo. Scuoto le gambe. Mi stiracchio. Respiro profondamente e alzo le braccia in alto verso il cielo. In questo preciso momento, dalla battigia uno sportivo in difficoltà fa gran segni. A chi? A me? Non riesco a sentire cosa dice: il vento è troppo forte. Lo sportivo mi fa allora segno di chiamare un altro sportivo che si trova a due passi da me, intento a prepararsi prima di entrare in acqua. Lo chiamo, non mi sente. Lo chiamo ancora, e niente. Grido, e non si gira. Lui mi dà le spalle, non può vedermi. Mi avvicino e gli dico quasi all’orecchio: «guarda che dalla battigia ti chiamano». Ancora niente. Mi ignora. Mi risolvo a dargli una leggera pacca sulla spalla per attirare la sua attenzione. Lui si gira e mi fa cenno, col capo, di aver capito. Poi, si precipita verso l’altro sportivo per aiutarlo a riprendere il mare, sostenendogli il paracadute nella direzione del vento. Era un non udente e non lo avevo capito subito. Insistevo, nonostante il vento che copriva il suono, ad attirare la sua attenzione con il suono della voce.

 Soffia il vento (foto Montes)

Soffia il vento (foto Montes)

D’improvviso, il senso di ovattamento iniziale, dimenticato, perso nel corso dell’interazione con i miei sensi e pensieri, ritorna a farsi vivo, presente. Penso: per un non udente librarsi nell’aria, atterrare sul mare, dirigere la tavola a gran velocità verso un punto scelto deve essere un tutt’uno con la (non)sensazione di (non) sentire. D’improvviso, a questo pensiero, ho una piccola epifania. È come se capissi, adesso veramente, per la prima volta, anch’io cosa significa essere non udenti e allo stesso tempo potere contare sul principio generale di sinestesia sensoriale che fa sì che i sensi si rimandino l’un l’altro e formino un insieme di traduzione continua persino nella vita quotidiana, per chiunque. Il fatto è che non lo sappiamo, non ne siamo consapevoli. In spiaggia, questo principio sinestesico su cui si reggono i sensi è maggiormente percepito, soprattutto in una giornata di forte vento che ottunde il senso dell’udito e il potere della voce: l’esaltazione degli altri sensi non soltanto rimedia al deficit di udito, ma consente, pure, di interagire con gli altri sportivi come se fossero anche loro non udenti, con i gesti e i segni, grazie alle competenze acquisite facendo questo sport, insieme agli altri, in una comunità di pratica precisa, fatta di tante interazioni. E, mentre il non udente si avvia in mare, io decido di tornare al lido da dove ero venuto con l’idea di cominciare anch’io a fare presto questo sport dai mille sensi interrelati e dai mille spazi incrociati.

In conclusione, cosa ho voluto dire raccontando qualche ora trascorsa in spiaggia ad osservare gli sportivi in mare? Considero questo mio breve scritto una vera e propria etnografia, più che sul mare, sul modo di concepire la spiaggia e le interazioni che vi si svolgono in un’ottica di antropologia dei sensi, in cui si prende in carico anche la questione più ampia del dialogo e del sé riflessivo. In alcune etnografie i sensi sono assenti; se non lo sono, relegano talvolta in secondo piano il pensare del soggetto che sente. Io, da parte mia, ho voluto mostrare invece che si tratta di un intreccio complesso di attività: cognitiva, sensoriale e persino più ampiamente somatica. Una antropologia (delle interazioni) dei sensi non può dirsi tale se non prende in conto anche i pensieri che si presentano a ruota libera, indipendentemente da un centro di direzione – un ‘io’ – che sembrerebbe invece controllarli. Descrivere il mondo intorno senza accennare al mondo interiore, all’incastro di esterocettivo e interocettivo, è una contraffazione bell’e buona dell’essere umano. Non solo non esiste una frontiera, posta in maniera fissa, tra il mondo esteriore e il flusso dei pensieri, ma, di più, essi si presentano secondo linee di sovrapposizione e di continuità tali da richiedere nuovi modi teorici di concepire il loro groviglio.

Che ci faccio qui (foto Montes)

Che ci faccio qui (foto Montes)

In questa prospettiva, una antropologia dei sensi – fondata soltanto sulla loro esplorazione, in isolamento da altre componenti quali il corpo-attore e il pensare per flussi – è insufficiente. Noi percepiamo lo spazio intorno a noi attraverso i sensi. Questo è ovvio, sempre più accettato, almeno a partire da Merleau-Ponty. È meno ovvio, invece, fare passare l’idea che la percezione dello spazio intorno a noi avviene attraverso un corpo le cui parti possono diventare veri e propri attori agenti nelle interazioni con gli altri, con l’individuo stesso e con la sua attività cognitiva più disordinata. Per potere parlare pienamente di agentività distribuita, quindi, bisogna tenere conto dell’attribuzione di attorialità alle diverse parti del corpo; questo non solo perché l’agentività è distribuita e attribuita, ma anche perché essa è gerarchizzata tra gli attori sensoriali e corporei. In definitiva, se un antropologo deve occuparsi dei modi in cui la cultura ritaglia i sensi – Geurtz, per esempio, parla di un sesto senso previsto dagli Anlo-Ewe e mostra chiaramente che la percezione non è soltanto un fenomeno mentale o fisiologico, ma, soprattutto, culturale – a maggior ragione, all’interno di una cultura, ci si deve dedicare ai modi in cui le modalità sensoriali interagiscono e si traducono, l’un l’altra. Per fare soltanto un esempio, ma eclatante, ci si potrebbe chiedere perché uno scrittore come Don DeLillo associa il colore bianco al suono in White Noise (Rumore bianco) facendo ruotare la narrazione attorno a questo senso in un testo che è comunque affidato alla codificazione scritta? Per dare una risposta bisognerebbe analizzare il suo testo, cosa che non posso ovviamente fare qui. Per finire, invece, posso accennare, a due punti importanti, anch’essi da sviluppare in futuro nell’ottica di una antropologia del linguaggio orientata verso i flussi sensoriali e cognitivi.

Il primo punto è che questa mia breve etnografia è una sorta di variazione intorno a un verso di Valéry tratto dal Cimitero marino (“Il vento si leva!… Si deve tentare! Vivere!”). E questo non soltanto perché, in spiaggia, c’era effettivamente un forte vento, ma anche perché il vivere è, in fondo, un coagulo inestricabile di sensazioni e pensieri: il senso del vivere risiede anche, se non soprattutto, nelle sensazioni che se ne ricavano e nelle possibilità di interazione molteplice con il mondo esterno, con le condizioni climatiche, persino quelle avverse. Se il vento soffia forte, come si è visto, gli altri sensi attivano altre forme di sinestesia sostitutiva. Il secondo punto è che, nel mio progetto, senza ostentarlo ho inteso questa mia breve etnografia in ‘contrappunto epistemologico’ a quelle di altri tre brillanti e famosi antropologi che hanno dato un ruolo di rilievo alla spiaggia nelle loro opere: Bronislaw Malinowski, Marc Augé, Michael Taussig. Sintetizzo qui alcuni tratti che meriterebbero però maggiore analisi e spazio.

Negli Argonauti, Malinowski ha descritto il suo arrivo alle Trobriand, mettendo in primo piano il ruolo della spiaggia che lo accoglieva in quanto eroe solitario pronto ‘al sacrificio’ pur di portare a termine la sua missione di osservatore-partecipante e di fondatore di un nuovo modo di concepire l’antropologia. Da soglia iniziatica, stretta tra la terra e il mare, la spiaggia diventava, per Malinowski, parte integrante degli elementi di pertinentizzazione del campo inteso come luogo esotico e lontano, dove trascorrere un lungo periodo di tempo. Le cose cambiano con Augé, il quale, in Disneyland e altri non luoghi, dedica un breve capitolo a una ricerca sulla spiaggia condotta in prima persona. Diversamente da Malinowski, trasgredendo a uno degli assunti di base dell’osservazione-partecipante, Augé dedica pochissimo tempo alla sua ricerca in spiaggia che, tra l’altro, l’autore deve portare a termine non per sua esclusiva iniziativa, ma, quasi controvoglia, per scrivere un articolo commissionatogli.

Cambiano quindi le regole, nonostante si continui a osservare il principio che ‘per conoscere’ bisogna recarsi sul posto e osservare. Ma come osservare allora? Con Augé, non si tratta più di un’antropologia esotizzante e nemmeno di un’antropologia a carattere oggettivante. Augé, contrariamente a Malinowski, si inscrive nel testo della sua etnografia almeno con un triplice ruolo: in quanto autore, antropologo e persona comune che va in vacanza come tutti gli altri individui. Uno degli elementi d’interesse della sua etnografia deriva dalla intenzionale commistione di questi diversi ruoli che, nelle varie ricerche, Augé combinerà in modo sperimentale gettando nuova luce sui modi di essere etnografo, aprendo una strada a un quesito essenziale: il fieldwork non è in fondo in stretta continuità con la vita, persino quella ordinaria, cioè con l’essere sempre e comunque ‘sul posto’ di ogni individuo? Il terzo esempio a cui voglio accennare è quello di Taussig e delle sue spiagge stranianti in Cocaina, un testo formidabile e trasgressivo che si legge quasi come un montaggio cinematografico in cui l’osservazione-partecipante è centrale, ma lo sono pure il ruolo assegnato alla narrazione e il ricorso all’immagine-immaginazione. Le spiagge sudamericane descritte da Taussig sono luoghi di sedimentazione delle logiche di potere internazionale, luoghi cioè non più vacanzieri o di spensieratezza, ma luoghi in cui emerge il peso del colonialismo, della povertà e dello sfruttamento. I tre modi di prendere in conto la (nozione di) spiaggia sono comunque interrelati e fanno riflettere non soltanto sui modi di situarsi su un tipo di spazio, ma, anche, sui modi possibili di concepire, mettere in atto e scrivere etnografie in futuro.

E la mia spiaggia, infine? La mia spiaggia è quella di un semio-antropologo che non crede più nel principio che l’osservazione sia un processo unitario o una metodologia da dissociare dalla vita vissuta: l’osservazione è un’attività complessa, polisensoriale, cognitivamente non sempre irreggimentata da un ‘io’ centralizzato, connessa alle diverse forme di agentività distribuita e attribuita, ordinarie e straordinarie. In una parola, ho cercato di sottrarre l’osservazione all’autorità dello sguardo, sottomettendola piuttosto al disordine, sovente caotico, interconnesso del pensiero e dei sensi, così come alla loro sottile e sistematica interazione. Per quanto riguarda le forme di interazione e i dialogismi – tra me stesso e i sensi, tra me stesso e il mondo esteriore, etc. – ho sottolineato il fatto che essi non sono, sempre, il risultato di una pacifica e piacevole condivisione di uno o più punti di vista. L’interazione può non soltanto essere disordinata e contraddittoria, ma, anche, polemica e conflittuale. Si può essere in accordo o in disaccordo, in conflitto o in armonia. L’interazione è tutto questo. L’idea che un’interazione o un dialogo, come sembra evincersi da tanti studi, siano finalizzati all’accordo non è purtroppo sempre vera.

Dialoghi Mediterranei, n.10, novembre 2014
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Stefano Montes, ha insegnato Letteratura francese, Antropologia Culturale e Semiotica nelle Università di Parigi, Catania, Tartu, Tallinn, Palermo e Agrigento. Al di là delle etichette disciplinari, s’interessa ai modi molteplici secondo cui dinamiche culturali organizzano forme testuali (letterarie ed etnografiche). Nelle sue ricerche, ha privilegiato le analisi delle narrazioni di vita, lo studio delle modalità di produzione della cultura in alcuni testi esemplari, l’enunciazione della soggettività nelle teorie e pratiche antropologiche. Da alcuni anni i suoi campi di interesse scientifico vertono sulle strategie di conversione religiosa e sull’esperienza turistica.

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