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Don Pedro Giron de Osuna, vicerè “corsaro” tra Sicilia e Napoli nei primi anni del Seicento

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Bartolomé Gonzáles, attribuito a, ritratto di Pedro Tellez Girón, III duca di Osuna, Madrid, 1607, collezione privata

di Maria Sirago

Introduzione

Don Pedro Téllez-Giron y Velasco Guzmán y Yovar, III duca di Osuna e marchese di Peñafiel, è stato uno dei personaggi politici più complessi del primo Seicento, quasi una “leggenda”, a cui nel 2012 è stato dedicato un volume curato da Encarnación Sánchez Garcia e Caterina Ruta.

Nato da una nobile famiglia spagnola, secondo il suo primo biografo Gregorio Leti (1699) da ragazzo avrebbe accompagnato il nonno, primo duca di Osuna, a Napoli dove era stato nominato viceré (1582-1586). Da giovane aveva combattuto valorosamente nelle Fiandre contro i ribelli fiamminghi fino alla tregua del 1609, ottenendo numerosi successi militari, quasi un inizio della sua folgorante carriera in Italia (Lanario, 1617), iniziata col viceregno di Sicilia e conclusa con la prestigiosa nomina a viceré di Napoli. Ma l’alterigia nel ritenere il suo potere illimitato gli fu fatale: ingaggiata una “personale” guerra con Venezia, stigmatizzata dai ministri spagnoli, fu fatto tornare bruscamente in Spagna, dove morì in carcere, accusato di fellonia.

La politica marittima di Filippo III

Il sovrano aveva scelto come valido, o primo ministro, il duca di Lerma, Francisco Gomez de Sandoval y Rojas, un suo amico di infanzia, a cui era legato anche l’Osuna (Benigno, 1992). Il ministro cercò di limitare le spese militari, ormai insostenibili per le casse spagnole, in seguito alla crisi che dai primi del Seicento si era sviluppata in tutta l’Europa. Anche se il regno di Filippo III è stato definito pacifista, il sovrano ha comunque dovuto fronteggiare sia i problemi atlantici che mediterranei (Buñes Ibarra, 2006). Perciò il primo obiettivo è stato quello di ricostruire la flotta distrutta nel 1588 nelle acque inglesi dove aveva subìto una cocente sconfitta (Pi Corrales De Pazzis, 2001).

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Ritratto di Filippo III, Juan Pantoja de la Cruz Wien, 1606, Museum, Gemäldegalerie

Il sovrano con l’aiuto del ministro nel 1602 fece una riforma delle finanze e riorganizzò il Consiglio di Guerra, emanando a partire dallo stesso anno delle “Ordinanze” per regolamentare le costruzioni navali. L’attenzione per il settore marittimo derivava dalla necessità di proteggere il commercio delle Indie dagli assalti dei corsari inglesi. Ma il sovrano, diversamente da Filippo II, aveva deciso di riorganizzare il settore mediterraneo, dove imperversava la guerra di corsa turca e barbaresca, decidendo di espellere i moriscos spagnoli con decreti del 1609 e 1614 perché si riteneva che fossero in combutta con i barbareschi che avevano costituito dei califfati in Africa settentrionale. Intanto nel 1601 vi era stato il tentativo di assalire Algeri e nel 1609 era stato saccheggiato il porto di Tunisi (Buñes Ibarra, 2006). Ma verso il 1615 cominciò a mancare il denaro per mantenere la flotta mediterranea per cui il sovrano decise di concedere “patenti di corsa” per quelli che avessero armato navi per andare a combattere i barbareschi.

Il problema più spinoso era però quello di Algeri, che si tentò di espugnare varie volte. Nel 1615 il duca di Lerma cercò di organizzare una impresa segreta contro la città barbaresca, appoggiato dal Consiglio di Stato, fidando nella politica pacifista del sultano Ahmed I. Il progetto cominciò a prendere corpo dopo la sua morte, quando gli successe Mustafà I, un sovrano incapace, conosciuto col nome di “sciocco”. La raccolta di truppe e viveri e le costruzioni di navi continuarono anche dopo la caduta in disgrazia del duca di Lerma, a metà 1618, e la sua sostituzione col suo primogenito, Cristobal de Sandoval y Rojas de la Cerda, I duca di Uceda (Sirago, 2018, 211ss.). Al comando dell’impresa fu posto il principe Emanuele Filiberto di Savoia, il cugino preferito del sovrano, un valente uomo d’armi e di mare, priore dell’Ordine di Malta, che aveva vissuto alla corte madrilena tra il 1603 e il 1606, nominato alla fine del 1615 Capitano generale del mare in Mediterrraneo (Buñes Ibarra, 2009).  Per l’impresa si dovevano allestire 73 galere delle squadre di Spagna, Portogallo, Catalogna, Genova, Napoli, Sicilia, Stato della Chiesa insieme ai vascelli dell’Armata dell’Oceano costituita a fine Cinquecento. Uno dei più accesi sostenitori dell’impresa era proprio l’Osuna che da molti anni combatteva contro i turchi e barbareschi. Ma, dati i costi elevati, i ministri del Consiglio di Stato decisero di recedere dall’impresa e ridimensionare la guerra mediterranea (Sirago, 2018, 221ss.).

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Il principe Emanuele Filiberto di Savoia, 1624, Anton Van Dyck, Londra, Dulwich Picture Gallery

Il viceregno siciliano (1611-1616)

In questo contesto si inserisce la nomina dell’Osuna come viceré di Sicilia il 18 settembre 1610, un premio per le sue imprese in Fiandra, scaturito dai piani di Filippo III e dei suoi ministri, che dovevano fronteggiare gli attacchi dei turchi e barbareschi utilizzando la Sicilia come antemurale.

L’Osuna, arrivato a Milazzo il 9 marzo 1611, dopo aver preso possesso della sua carica cominciò ad ispezionare le fortificazioni e i cantieri navali poiché il suo obiettivo era quello di intraprendere una politica navale contro turchi e barbareschi (Fernandez Duro, 1885: 25 ss.; Buñes Ibarra, 2012). Qui poco tempo dopo lo raggiunse il poeta Francisco de Quevedo, suo amico, che poi ne celebrò le imprese (Linde de Castro, 2005, 110ss.).

Fin dal suo arrivo in Sicilia il viceré aveva deciso di intraprendere una politica navale contro i turchi: difatti l’Isola era sempre stata considerata una fortezza strategica a difesa della Cristianità, ruolo che il viceré era ben intenzionato a rafforzare utilizzando il solito donativo di 300 mila scudi concesso dal Parlamento a cui se ne aggiunse un altro straordinario, mai raccolto prima, di 2.700.000 scudi (Pomara Saverino, 2012: 169).

Fin dal suo arrivo in Sicilia il viceré aveva deciso di intraprendere una politica navale contro i turchi. Per queste imprese ebbe il valido aiuto di Ottavio Tagliavia d’Aragona, principe di Castelvetrano, figlio di Carlo, divenuto ben presto suo “braccio destro”. Egli aveva combattuto nelle Fiandre con Alessandro Farnese; poi, tornato in Sicilia, era stato nominato governatore di Messina e posto al comando ad interim delle galere siciliane, con cui partecipò ad alcune imprese contro i turchi (La Lumia, 1863; De Caro, 1961). Con la sua preziosa e valida collaborazione l’Osuna riorganizzò la flotta siciliana, composta da sei galere (Favarò, 2007), nominandolo generale. Per incrementare le costruzioni fece ripristinare l’arsenale di Messina e le fortificazioni dei principali porti siciliani, suscitando preoccupazione tra i veneziani per i suoi “gran disegni” (La Lumia, 1863, II: 5). Durante il suo soggiorno a Messina organizzò una impresa con le otto galere siciliane, a cui si aggiunsero quelle napoletane, comandate dal generale Alvaro di Bazan, secondo marchese di Santa Cruz, contro l’isola delle Gerbe (odierna Djerba) presso le coste africane; e alle due squadre si aggregarono le galere di Genova e del Granduca di Toscana, venute per proteggere il trasporto annuale della seta che si faceva negli antichi Stati italiani e quelle maltesi (La Lumia, 1863, II: 6). Ma non era ancora soddisfatto poiché il suo obiettivo era quello di organizzare spedizioni contro la Porta Ottomana. Comunque dalla Sicilia continuò ad organizzare numerosi attacchi a Tunisi e alle altre città barbaresche mentre a Messina fervevano i lavori in arsenale, che il viceré controllava personalmente. In breve fu completato uno splendido galeone a 32 banchi e vennero allestite varie galere, dotate di ciurma e pronte a partire. A fine marzo 1613 ebbe ordine di tornare a Palermo per controllare la città mentre l’Aragona veniva inviato in Levante dove otteneva ulteriori successi, predando un cospicuo bottino, catturando molti schiavi e impadronendosi di alcune navi (La Lumia, 1863, II: 9ss.)

Per poter difendere l’isola e perpetrare i suoi piani di attacco contro i turchi e barbareschi il viceré aveva organizzato una esquadra di vascelli posta anch’essa sotto il comando di don Ottavio Tagliavia d’Aragona (Linde de Castro, 2005: 102ss.).  La sua abilità navale risiedeva proprio nella scelta di costituire una armata di vascelli per vincere i nemici con le stesse armi. Il vascello era una nuova tipologia di navi in costruzione dalla fine del Cinquecento anche nel regno meridionale ad opera degli asientisti di Ragusa (odierna Dubrovnich) che avevano firmato a Napoli numerosi contratti per costruire numerose unità a Castellammare e Baia, visto che l’arsenale napoletano era adatto solo per realizzare le galere (Sirago, 2018:164ss.). Queste nuove imbarcazioni, di cui si stavano dotando anche i turchi, anche se più lentamente (Inalcik,1980; Başak Dağgülü, 2014) erano a propulsione velica, potevano solcare i mari anche in inverno, a differenza delle galere, ed avevano numerosi cannoni con cui il nemico poteva essere assalito più facilmente (Sirago, 2004).

L’Osuna aveva anche deciso di far creare una catena di fortificazioni costiere per difendere l’isola dagli assalti nemici (Vergara, 1980). Durante il periodo del suo governo il viceré aveva riorganizzato la città di Palermo, dove fu costruita una porta monumentale nei pressi dell’odierna via d’Ossuna, tra la Porta di Carini e la Porta Nuova, che prese il suo nome, ampliando la darsena nel castello a mare e facendo costruire un baluardo nella Fortezza del Nuovo Molo (Giuffré, 2012).

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Palermo, veduta del nuovo molo, 1686, in Teatro geografico Antiguo y Moderno del Reyno de Sicilia, ms n.3, Archivio del Ministero degli Affari Esteri, Madrid

L’Osuna aveva particolare cura per le fortificazioni perché riteneva più pericolosa la guerra da corsa rispetto alle grandi armate ottomane che solo in caso di guerra conclamata si muovevano da Istanbul (Kumular, 2012). Perciò, seguendo la scia della politica del sovrano, aveva deciso che il suo primo obiettivo era quello di combattere i corsari musulmani che attaccavano le coste siciliane, sarde e meridionali, catturando molti prigionieri. Il problema era che essi nella maggior parte dovevano convertirsi all’islamismo perché mancava il denaro per il riscatto, come era successo a Miguel de Cervantres, rimasto prigioniero ad Algeri per cinque anni (Sola De la Peña, 1995). Inoltre molti, come sottolinea Miguel Angel de Buñes Ibarra (2012: 130) erano usati come ciurma per le loro fregate e galeazze (un tipo di imbarcazione a propulsione mista, remica e velica, ideata dai veneziani, Sirago, 2004). Il viceré si era posto l’obiettivo di catturare numerosi uomini per utilizzarli come ciurma nelle navi siciliane o ottenere ricchi riscatti per la loro liberazione. Egli si impadroniva anche delle merci che rivendeva, non dando la dovuta mercede all’erario statale, secondo la legislazione vigente, organizzando un suo “corso” personale con le galere e i vascelli propri ma fatti costruire a spese dello Stato.

Iniziò così a praticare in Mediterraneo una politica molto aggressiva usando i vascelli che intimorivano i nemici con le loro spaventose bocche da fuoco, sostenuto dal duca di Lerma. Intanto il Gran Turco a Istanbul armava numerose galere per sostenere questi continui attacchi perpetrati sia dalla flotta siciliana (Buñes Ibarra, 2012: 133) sia da quella napoletana, allestita dal viceré Pedro Fernandez de Castro, VI conte di Lemos (Sirago, 2018: 240-243). In poco tempo il viceré diventò uno dei maggiori esperti di Filippo III nello scenario mediterraneo in cui i viceregni siciliano e napoletano giocavano un ruolo di fondamentale importanza, grazie anche ad un sistema di spionaggio operato in questi territori, che accoglievano quelli che volevano l’aiuto del monarca spagnolo per combattere il nemico ottomano, come gli esiliati greci. Nei porti di Palermo e Napoli sostava il maggior numero delle galere della flotta spagnola e si raccoglievano ogni anno in quello di Messina per salpare alla volta dei Paesi nordafricani o in difesa dell’isola di Malta, continuamente minacciata.

Una delle principali preoccupazioni del sovrano e del duca di Lerma era la difesa degli stretti, un controllo affidato ai territori italiani, primo baluardo difensivo della monarchia, affidato al controllo dei viceré. Ad essi era affidato anche il controllo del mar Adriatico, su cui incombeva la repubblica di Venezia. Lo stesso Osuna aveva ingaggiato una “personale” guerra anche contro i veneziani, alleati con i ribelli del Mar del Nord, in modo da debellare i pirati uscocchi (Buñes Ibarra, 2012: 135ss.). Questi pirati erano di origine bosniaca ma di fede cristiana per cui si erano riversati sulle coste del Mare Adriatico per sfuggire all’avanzata dei turchi. Inizialmente erano diventati famosi per le loro operazioni di feroce guerriglia contro i turchi, ma poi avevano deciso di dedicarsi alla pirateria. Dal loro quartier generale a Segna, presso Quarnaro, organizzavano veloci spedizioni di saccheggio sia contro le rotte turche che contro la Repubblica di Venezia, per cui tra il 1537 e il 1617, al largo dell’Adriatico, svolsero una importante funzione militare contro l’avanzata dei Turchi,  spadroneggiando nel mar Adriatico. A causa delle continue aggressioni a danno di navi veneziane nell’Adriatico gli uscocchi erano diventati oggetto di trattative internazionali, finché la loro sorte venne decisa dalla Pace di Madrid del 1617. In base agli accordi madrileni essi furono cacciati da Segna, dispersi, costretti a lasciare il mare e le loro imbarcazioni bruciate: nella città di Segna giunse poi una guarnigione militare tedesca per cui verso il 1624, quando ormai anche la stella dell’Osuna era tramontata, la loro epopea ebbe termine (Singleton, 1989: 61ss.; Smitran, 2008).

Il viceregno napoletano (1616-1620) e la “guerra” con Venezia

Dopo le belle prove date in Sicilia il re decise di affidargli il viceregno napoletano in luogo del conte di Lemos. Egli era ben conosciuto per la sua alterigia e il suo spirito bellicoso per cui già al suo arrivo a Napoli Girolamo Fracchetta, agente del duca di Urbino, Francesco Maria della Rovere, rimarcava:

«I concetti di questo S[igno]r Vicerè sono smisurati et degni d’un Alessandro Magno. Si è messo in animo di fabricare et armar galeazze et spera di prender Costantinopoli, reconquistar Gerusalemme, pigliar l’Albania et cose maggiori. Vuol far venire qua 1500 Valloni, 500 Alemanni et 4000 Spagnuoli et tener in ordine 6000 regnicoli, per haver un esercito valente»[1].
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Disegno di un pirata uscocco, in Weikhard von Valvasor, XVII sec.

Fin dall’inizio del suo governo il duca aveva dato ordine di armare nell’arsenale napoletano vascelli e galere, destinati a compiere imprese contro turchi e barbareschi. Ma la sua mira recondita era ingaggiare una guerra contro Venezia (Linde de Castro, 2005: 125 ss.), che accampava da secoli diritti sull’Adriatico (Candiani, 2006). Diede ordine di costruire tre vascelli pregevoli nell’arsenale napoletano, facendone rimorchiare nella Capitale altri due in costruzione in Sicilia (Leti, 1699: 324 e 338) confermando il comando di Ottavio Tagliaviva d’Aragona, (Leti, 1699: 349), che lo aveva seguito a Napoli (La Lumia, 1863, II: 26ss.). I suoi vascelli li affidò a Francisco de Ribera (Filamondo, 1694: 165 e 535) e per le galere napoletane nominò il generale don Pietro Gamboa y Leyva, secondogenito di don Sancho de Leyva [2].

In questo periodo l’Europa era attanagliata da una profonda crisi economica, i cui effetti si ripercuotevano anche nel regno napoletano, al punto che dal 1617 al 1621 si ebbero tre svalutazioni. Perciò, Filippo IV, appena salì al trono, decise bruscamente di riportare la moneta ai valori del 1617 (De Rosa, 1955). In effetti la situazione generata dalla crisi finanziaria, ben lungi dall’essere risolta con le riforme del conte di Lemos, si era aggravata ancor più con la politica militaristica dell’Osuna, appoggiato da un altro “interventista”, don Pedro di Toledo, nominato governatore di Milano. Tuttavia il duca credeva di poter agire indisturbato per la nuova piega che avevano preso gli eventi in Spagna: difatti tra il 1615 ed il 1616 la corte madrilena si era divisa in due fazioni, quella del conte di Lerma e quella del duca di Uceda, figlio del conte di Lerma, con il conte duca di Olivares, a cui apparteneva il viceré (Elliot, 1991). Così egli pensò bene di incrementare la politica aggressiva contro Venezia (Monti, 1935), facendo anche redigere una memoria sulle usurpazioni perpetrate dalla Repubblica [3].  

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Filippo Napoletano, La Torre di San Vincenzo a Napoli con una nave in costruzione, Plymouth, Museum

In quel periodo la flotta spagnola si trovava a mal partito. Perciò dal 1616 il Consiglio di Guerra aveva fatto notare al re la necessità di ricostruirla totalmente: tra il 1617 ed il 1623 oltre alle galere si decise di costituire anche una “Armata dell’Oceano” con potenti vascelli (Thompson, 1981) alla cui formazione dal 1623 partecipò anche Napoli, fornendo 8 vascelli e un petaccio, o nave appoggio (Sirago, 1994). In questo grave frangente per la monarchia spagnola l’Osuna pensò solo a ritagliarsi una fetta di potere, organizzando una sua “personale” guerra contro la Repubblica di Venezia.

Uno degli obiettivi primari del viceré nell’ambito del governo napoletano era quello di reperire ingenti somme per sostenere i suoi piani. Perciò era necessario ridurre l’enorme potere conseguito da Miguel Vaaz, conte di Mola, presidente della Sommaria (il principale organo finanziario), che era stato consulente del viceré conte di Benavente, Juan Alonso Pimentel Herrera e aveva aiutato il viceré conte di Lemos nella stesura della riforma finanziaria, per cui era a conoscenza di tutte le questioni economiche. Quando il Lemos era tornato in Spagna, sostituito dall’Osuna, il Vaaz era riuscito a stento a fuggire a Genova aiutato da Francisco Ruiz de Castro, viceré di Sicilia, fratello del conte di Lemos, e potè tornare a Napoli solo dopo il 1620, quando l’Osuna fu destituito (Sirago, 2015).

Il diarista Francesco Zazzera (ff.49v. ss.) riferiva che ai primi di marzo del 1617 il viceré aveva armato «le due galere sue, la Verde e la Negra, a sette per remo, tutte e due alla foggia turchesca, fatte rosse con fanali turchi, pitture et bandiere con le mezze lune et provisti li Marinari ancora di turbanti» con un centinaio di soldati, poste al comando di don Ottavio d’Aragona, facendo intendere di voler preparare una spedizione a sorpresa contro i turchi, notizia riferita anche dall’agente del duca di Urbino il 14 aprile al suo signore. Intanto a Napoli si stavano armando otto imbarcazioni, tra galeoni e bertoni, o navi appoggio, «senza sapersi che effetto» e altre quattro navi si stavano armando con artiglierie tolte a San Lorenzo per inviarle a Venezia (Palermo, 1846: n.144), segno che ormai l’Osuna stava manifestando apertamente i suoi intenti di fare guerra alla Repubblica Veneta, anche se la Spagna era in pace.

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Galera turca

Nella stessa lettera l’agente del duca di Urbino, preoccupato dalle ripercussioni che avrebbe potuto avere la politica interventistica in Adriatico, dava notizia che il viceré aveva fatto fabbricare dieci “barche lunghe” da dare agli Uscocchi, i pirati che infestavano l’Adriatico nordorientale, protetti dalla Corte austriaca, perché potessero infastidire La Serenissima.

Tra la fine di giugno e i primi di luglio, i vascelli napoletani, insieme alle galere comandate dal generale Pietro Gamboa y de Leyva, erano partiti da Brindisi per compiere delle sortite nelle acque di Lesina [4], mentre quella veneziana, comandata da Lorenzo Venier, cercava di assalire la costa pugliese. In ottobre aveva fatto armare i galeoni (Zazzera, f.83). Questa armata composta da quindici vascelli e trentadue galere, tra cui quelle napoletane e siciliane, e sette di Genova, il 24 novembre si era scontrata in battaglia per dieci ore con quella veneta composta da sei galeoni, tre galeazze e 30 galere, con gravi perdite di uomini da entrambe le parti (Zazzera, ff. 89ss., Canosa, 1987: 149-151).

L’Osuna aveva potuto agire indisturbato perché aveva fatto credere che i preparativi navali erano volti ad un attacco contro Algeri o Costantinopoli. In realtà egli mirava a Venezia, come aveva ben compreso il Consiglio di Stato, che disapprovava la sua politica interventista, il 2 gennaio 1618 dava ordine di far rimanere i galeoni nel porto di Brindisi per non farli combattere contro i veneziani [5]. Lo stesso parere era espresso dai ministri in una riunione del 14 febbraio, in cui si ribadiva la preoccupazione per quella guerra, pericolosa per l’«hereija que ha comencado à entrar en Italia» proprio da Venezia [6]. In quel periodo la preoccupazione per i venti di guerra era costante: era scoppiata la guerra in Savoia e a breve i problemi in Boemia avrebbero portato la Spagna ad entrare in quella che fu poi definita la “guerra dei trent’anni”. Perciò il duca di Lerma, che si era opposto strenuamente all’intervento in questa guerra, lo stesso 1618 era stato destituito (Elliot, 1991).  

L’Osuna, che faceva parte della fazione del duca di Lerma, aveva pensato di poter agire a suo piacimento, combattendo una guerra “personale” contro Venezia, non voluta dalla Spagna e per la quale la Repubblica ebbe a lamentarsi duramente col Pontefice (Parrino, 1694, II: 101). Il sovrano fin dal febbraio del 1617 aveva ordinato all’Osuna di ritirare le armate e restituire merci e navi predate ai veneziani (Parrino, 1694, II:104). Ma il viceré non aveva obbedito, sostenendo che il sovrano aveva impartito gli ordini senza conoscere le azioni compiute dai veneziani (Canosa, 1987:152), che avevano utilizzato navi olandesi e inglesi (Cooper, 1970). Lo supplicava di non disarmare i regni d’Italia prima che la pace stipulata a Parigi l’anno precedente fosse ben stabilita [7]. E per avere armate pronte ed efficienti continuava a far allestire la flotta di galere, avvertendo il re che era stata anche completata la poppa per la galera reale da inviare a Genova [8]. Inoltre proponeva al sovrano dei sistemi per aumentare il numero dei vascelli, in modo da diventare “senor de la mar”, consigliandogli   di ordinare ai signori spagnoli di non dare “lance” per il servizio regio ma di convertire tale servizio nell’allestimento di venti galere [9].

Intanto il residente veneto Gaspare Spinelli tempestava Venezia con notizie allarmanti: il 17 aprile 1618 scriveva   che il viceré voleva rimanere a Napoli almeno altri otto anni e che aveva fatto mettere in cantiere un nuovo galeone. Concludeva che questi disprezzava gli ordini regi, arrivando a ipotizzare che forse lo stesso sovrano non era sincero, visto che l’Osuna continuava a ribadire di voler assalire la Serenissima (Canosa, 1987: 154). Il 7 maggio quattro galeoni furono inviati a Messina per incontrarsi con quelli che erano a Reggio «per andar contro Mori» (Zazzera, f.109). Lo stesso mese di maggio a Venezia si era diffusa la voce che il viceré aveva tentato di organizzare una congiura contro la Repubblica insieme all’ambasciatore spagnolo don Alonso II de la Cueva y Benavides y Mendoza-Carrillo, marchese di Bedmar. E questi a sua volta si sarebbe avvalso dell’avventuriero francese Jacques Pierre, un abile uomo di mare e corsaro, prima al soldo dell’Osuna poi della Repubblica Veneta, che lo accusò di tradimento e giustiziò (Luca, 2015). Lo stesso Zazzera (f.112t.) parla di un «Tradimento di alcuni Francesi, li quali volevano dar fuoco all’Arsenale» ed erano stati impiccati. Ma l’ipotesi della congiura, o “complotto”, su cui si è molto discusso (Zambler, 1986; Schipa, 1912; Coniglio, 1955: 1; De Rubertis, 1956), secondo Giorgio Spini (1949) appare inconsistente, anche se l’Osuna continuò a contrastare i piani veneziani di dominio sull’Adriatico.

Nell’estate del 1618 il viceré scriveva al sovrano di aver radunato a Napoli una «Armada de alto bordo» composta da diciotto vascelli [10]. Intanto Ottavio d’Aragona, che era stato inviato in Levante con sette galere napoletane, riferiva al sovrano di aver catturato tre vascelli turchi [11]. Ma il viceré si preparava alla guerra con Venezia: il 14 settembre l’agente del duca di Urbino scriveva al suo signore che l’Osuna aveva fatto venire 12 mila fanti e 2 mila marinai da imbarcare sui bastimenti alloggiati a Napoli con gran danno della città, per cui i Seggi si erano riuniti chiedendo la riconferma del privilegio di non dover alloggiare truppe (Palermo, 1846: n.40). Lo stesso agente il 12 ottobre dava notizia che era stato inviato al sovrano il frate cappuccino Fiorenzo da Brindisi per denunciare i soprusi perpetrati dall’Osuna (Palermo, 1846: n.16). Ma, morto il cappuccino, erano stati mandati Francesco Spinelli e Lelio Brancaccio, per cui l’Osuna aveva deciso di inviare a Madrid il generale Ottavio d’Aragona perché spiegasse la necessità di una politica navale aggressiva contro Venezia (Coniglio, 1955: 1).

L’8 dicembre l’agente del duca di Urbino riferiva che Alvaro Bazan, II marchese di Santa Cruz, generale delle galere spagnole, era tornato da Madrid recando al viceré l’ordine regio di non poter «dispor di cosa alcuna dell’armata e della soldatesca, senza la partecipazione e il consenso di detto Marchese» (Palermo, 1846: n.62), segno del deterioramento dei rapporti con la corte madrilena e di un lento esautoramento dei poteri vicereali. Ma il viceré non aveva capito quanto fosse profonda la frattura perciò continuava a perseguire la sua rovinosa strategia. Il 2 gennaio del 1619 avvertì il sovrano di aver ordinato la confisca dei beni dei genovesi che avevano legami con i veneziani [12]. Questo ulteriore errore tattico suscitò le ire del potente ceto mercantile che operava a Napoli fin dal Cinquecento (Otte, 1986), soprattutto come banchieri e asientisti (cioè firmatari di contratti) (Musi, 1996), in particolare per le galere da unire alla squadra napoletana (Sirago, 2001). Questo gesto suscitò fiere proteste della “Nazione genovese” (Brancaccio, 2001) che subito chiese aiuto ai ministri spagnoli secondo gli antichi privilegi di cui godeva.

Ormai la misura era colma: la Spagna cominciò a chiedere conto al viceré della sua amministrazione poco accorta, accludendo alla missiva firmata tra aprile e maggio una lunga relazione sul suo operato a partire dal 20 novembre del 1617 [13]. Ma il viceré non si arrese, poiché credeva di poter dimostrare le sue ragioni nella politica interventista contro Venezia: in aprile inviò al sovrano un memoriale con i “descargos” per giustificare il suo operato, ritenuto il più valido in tali circostanze [14]. In luglio ne inviò un altro simile in cui faceva presente di aver dovuto sanare il deficit causato dal malgoverno del suo predecessore, il conte di Lemos, e sistemare la squadra delle galere da lui trovata «senza gente de remo». Aggiungeva di aver organizzato una squadra di galere e galeoni inviata in Adriatico per dare un avvertimento ai veneziani, vantandosi di aver «fatto metter in fuga tre volte l’Armata venetiana». Poi ricordava di aver armato tre “tercios” di fanti italiani e raccolto 1.500 cavalli inviati al “soccorso” di Milano.

In regno aveva allestito «un’armata di vinti galeoni d’alto bordo et di galere rinforzate e [raccolto] dieci sette mille e cento huomini tra quali … 1.500 spagnoli e [fatto preparare] cinquanta mille quintali di biscotto» per le galere. Respingeva pertanto le accuse mossegli (peraltro vere) tra cui quelle di aver preso 300 mila ducati per “spese secrete” e di aver utilizzato la gente pagata dal sovrano per i suoi propri vascelli, utilizzando anche l’artiglieria «tolta in tutti due i Regni» per il loro armamento, confermando che aveva fatto tutto ciò per il bene della Spagna. Concludeva che, dato il costo della “Armata dell’Oceano”, aveva dovuto sopperire alle varie necessità con ogni mezzo, visto il difficile momento. Infine per la «restitutione delle robbe de Venetiani» predate sulle loro navi faceva presente che aveva consegnato «le maone (navi da trasporto) e la roba che sta[va] nello castello» al residente veneto di Napoli, ma che i vascelli erano stati presi per essere aggregati alla flotta spagnola e i veneziani catturati erano stati posti sulle galere come remieri [15].

L’Osuna era convinto di aver agito in modo corretto, tanto che ancora il 4 giugno scriveva al sovrano per consigliargli di mantenere in Regno venti galere e dodici vascelli tondi con 6.000 fanti, 2.000 per i vascelli, 2.000 per le galere e 4.000 per “le piazze” (fortificazioni) del Regno a difesa dagli attacchi barbareschi [16]. In questo frangente anche il marchese di Santa Cruz riteneva necessario allestire dodici navigli per difendere il regno dagli assalti nemici, tra cui però non includeva i veneziani [17].

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Vincenzo Coronelli, 1688, Incisione su lastra di rame, “Golfo di Venezia … dedicato … a Giulio Giustinian, Procuratore di S. Marco”

Ma ormai la sua situazione alla corte di Spagna era compromessa. L’interesse per il Mediterraneo diventava marginale rispetto alla “guerra totale” che stava per divampare in Europa. Inoltre, la destituzione del duca di Lerma, nel 1618, acuì ancor di più la crisi economica sviluppatasi in tutta l’Europa (Stradling, cap. I). Anche a Napoli la situazione stava diventando esplosiva: mancava il denaro per pagare «la marineria y gente de cabo de galeras, gente de mar de los galeones y atrezos de mar y otros bajeles», per cui il viceré chiedeva l’intervento del sovrano: egli temeva che i piloti, data la loro buona conoscenza delle coste si sarebbero licenziati e avrebbero offerto i loro servigi a Tunisi, Algeri o in altra piazza del Levante, con grave danno del regno, per cui aveva ottenuto che vi provvedesse il marchese di Santa Cruz [18]. Lo stesso marchese aveva riunito le squadre a Messina in attesa del principe Emanuele Filiberto di Savoia, grande ammiraglio di Spagna, che compiva imprese in Levante [19].

Il primo ottobre 1619 l’agente del granduca di Toscana, Cosimo II de’ Medici, scriveva al suo signore facendogli presente che i veneziani, approfittando di questo momento di stasi, avevano ripreso a depredare i vascelli spagnoli e a spadroneggiare nell’Adriatico (Palermo, 1846). Pochi giorni dopo, il 19, l’Osuna scriveva al re di aver saputo che il Senato veneziano in marzo aveva fatto una lega con gli olandesi (Cozzi, 1992: 105) e aveva dato ordine al generale Marc’Antonio Venier di fare uno sbarco in Puglia. Ma l’Osuna faceva notare che poteva armare solo diciannove galere delle ventiquattro previste in quanto il principe Filiberto di Savoia aveva utilizzato le ciurme per rinforzare le galere spagnole [20]. Il 2 novembre l’agente del duca di Urbino scriveva che il viceré cercava di reperire denaro per assoldare i soldati «per mandar fuora li galeoni» (Palermo, 1846: 232, n.66). proponendo al re di vendere alcune città demaniali (Del Vecchio, 1985) [21].

Ma il sovrano aveva bisogno di denaro per i “soccorsi in Alemagna”, per cui il 15 marzo del 1620 aveva richiesto tramite Ottavio d’Aragona che dal regno fossero inviati 1 milione di ducati per le guerre in corso nel Nord [22]. Così il viceré il 5 aprile riferiva che aveva inviato a Cadice tre navigli da guerra, aggiungendo che a breve ne avrebbe inviati altri tre; ma aveva inviato sei vascelli a caccia di corsari [23], e tre giorni dopo dava ragguagli sulla raccolta dei soldati da inviare nelle Fiandre [24].

In questo frangente aveva mostrato anche la sua volontà di riprendere buoni rapporti con Venezia, obbedendo agli ordini inviati dal sovrano ai primi di gennaio del 1620 [25]: il 4 aprile aveva fatto allestire otto galere da inviare nel golfo di Manfredonia per inseguire gli Uscocchi entrati in Brindisi e da lì diretti a Venezia, per predare le navi della Repubblica (Pagano de Divitiis, 1985: 238).

L’Osuna era ignaro delle dense nubi che si addensavano sul suo capo. Perciò continuava la sua solita vita dispendiosa, dedito come al solito a balli e feste. Il primo marzo aveva organizzato una sfarzosa “festa a ballo” per celebrare la guarigione di Filippo III (De Miranda, 2000) nel nuovo palazzo reale ancora in costruzione, fatto iniziare dal viceré Fernando de Castro, conte di Lemos, e dalla moglie, donna Catalina de la Cerda (Sirago, 2020). Nel salone di rappresentanza era stata ricostruita la collina di Posillipo, luogo di “delizie”, una scenografica cornice per la rappresentazione che era stata allestita intitolata Delizie di Posillipo boscarecce e marittime, una disputa favolosa tra le forze silvestri capeggiate da Pan e quelle marine guidate da Venere per la conquista della collina di Posillipo (de Mendoza, ecc., 1620).

Ancora una volta la festa serviva per ribadire la potenza dell’Osuna in grado di allestire magnifiche feste in un momento cruciale sia per la politica che per le finanze. Ma ormai i giochi erano fatti anche se nulla faceva presagire i successivi eventi. Il re e il Consiglio di Stato avevano ormai deciso di destituire l’Osuna, un evento unico in tutta la storia vicereale napoletana. Ma per evitare spiacevoli inconvenienti, dato il carattere ribelle del duca, avevano deciso di inviare a Napoli, come luogotenente, l’ambasciatore di Spagna a Roma, il cardinale Gaspar de Borja y Velascoia. Questi il 3 giugno arrivò di nascosto a Napoli e, ottenuto il possesso della carica dalle autorità napoletane, il 20 scrisse al sovrano di essere riuscito a far imbarcare l’Osuna sul suo più bel galeone, scortato da cinque galere, al comando di don Ottavio d’Aragon [26]. Intanto l’8 giugno il sovrano aveva ordinato a Pedro de Leyva di condurre a Cartagena la duchessa d’Osuna Catalina Enríquez de Ribera y Cortés Zúñiga e di tornare rapidamente in Italia per assumere l’incarico di generale delle galere spagnole [27].

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Filippo IV, ritratto di Diego Velasquez, 1631, Londra, National Gallery

Conclusioni

Il duca era partito per la Spagna pensando che non tutto era perduto. Al suo arrivo non fu incarcerato per cui pensò che la sua stella non era ancora tramontata (Beladiez Navarro, 1996). Ma pochi mesi dopo la morte di Filippo III, il 31 marzo 1621, determinò la rovina di tutti i suoi favoriti: i duchi di Lerma e di Uceda furono processati ed anche il duca fu posto in carcere, dove morì il 24 settembre 1624 Coniglio, 1955, 2: 205-206).  

Stessa sorte ebbe il valoroso Ottavio d’Aragona: inviato dall’Osuna a Madrid per perorare la sua causa, era poi tornato in regno per accompagnare il destituito viceré a Marsiglia. Ma poi non aveva voluto accompagnarlo fino in Spagna per non essere responsabile della sua incarcerazione. Tornato in Sicilia fu posto in carcere per il suo atto di insubordinazione. Liberato nel 1621, compì un’ultima “impresa” in Levante; poi a dicembre di quello stesso anno si ritirò in un convento di Cappuccini dove morì ai primi di settembre del 1623 (La Lumia, 1863).

Dopo l’incarcerazione del duca fu disposta una accurata “giunta”, cioè una indagine, sulle spese effettuate dall’Osuna per armare la flotta e i suoi propri galeoni, una delle accuse più gravi poiché ad un viceré non era permesso armare propri vascelli o imbarcazioni[28]. I vascelli, sequestrati insieme alle altre imbarcazioni, furono risistemati a Napoli tra 1620 e 1621 ed incorporati nell’Armata del Mar Oceano che si stava organizzando in quegli anni (Sirago, 1994). Si decise poi di ridimensionare la flotta napoletana, poiché mancavano i fondi per il suo mantenimento, per cui le galere da ventuno vennero ridotte a dodici (Thompson, 1981: 244). Infine furono poste sotto il comando di Pietro Gamboa y Leyva, che prima aveva ricoperto la carica di generale di quelle siciliane (Enciclopedia de Mèxico, 1988).  

In realtà, l’Osuna, malgrado gli errori commessi ed il pessimo carattere, mostrava di avere una chiara visione della politica marittima che però la Spagna non poteva perseguire, impegnata com’era in altre guerre. Romano Canosa parla di una «strana guerra» tra la Spagna e Venezia accesasi nel 1617, strana perché le iniziative belliche non erano partite direttamente da Filippo III ma dal viceré Osuna, coadiuvato dal marchese di Bedmar (Canosa, 1987: 149-151). Ma l’iniziativa personale del viceré fu duramente punita, visto che la Spagna, entrata l’anno dopo in quel conflitto chiamato poi “Guerra dei Tren’anni” non poteva aprire ulteriori fronti di guerra, soprattutto i veneziani, da sempre a guardia dell’Adriatico.

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Il conte duca di Olivares, ritratto equestre di Diego Velázquez, 1634, Madrid, Museo del Prado

Cesareo Fernandez Duro, autore di una pregevole storia della marina spagnola scritta a fine Ottocento, ha dedicato pagine entusiaste al felice tentativo dell’Osuna di formare una squadra di vascelli per difendere i regni di Napoli e Sicilia, biasimando la Spagna che ne aveva impedito un esito positivo. Egli ricordava anche l’abilità del viceré nell’utilizzare nuove scoperte scientifiche, in particolare quelle proposte da Galilei, e concludeva: «con la esquadra formada por Osuna con los capitanes de su escuela, todavia algun tiempo flotò respetada la bandera espanola» (Fernandez Duro, 1885).

Distrutta la squadra allestita dall’Osuna, anche se veniva formata con i suoi vascelli la Armata napoletana dell’Oceano (Sirago, 1994), il Regno cominciò ad assumere un ruolo marginale nello scacchiere mediterraneo, utilizzato solo per finanziare quella che Robert Stradling ha definito la “guerra totale”, assumendo sempre più il ruolo di avamposto di Europa con la sua “frontiera disarmata”, come ha sottolineato Raffaele Ajello. La vicenda dell’Osuna è stata a lungo studiata per la sua eccezionalità. Il quadro che emerge dalle varie fonti è controverso, come si evince dagli studi pubblicati nel volume pubblicato nel 2016 a cura di Encarnación Sánchez Garcia e Caterina Ruta.

Nel 2017 Alessandro Martinengo ha esaminato una delle fonti coeve, il testo del maestro di cerimonie Miguel Díez de Aux riportato nel volume dei cerimoniali a cura di Attilio Antonelli del 2015.  Egli aveva esercitato la sua funzione nella corte vicereale per circa cinquanta anni, durante i quali aveva servito molti viceré. Nella parte dedicata all’Osuna il de Aux rievocava le sue gesta marittime sia in Sicilia che in Napoli, ricordando che aveva inviato 12 galeoni nel porto di Brindisi per frenare le imprese dei veneziani e aveva destinato truppe al governatore di Milano don Pedro di Toledo per aiutarlo nella guerra con duca di Savoia per «las diferencias con el duque de Mantua», imprese degne del suo valore, aggiungendo che il Borgia era stato chiamato dallo stesso Ossuna come luogotenente nel periodo in cui doveva andare in Spagna per parlare di alcuni affari segreti. Invece nella parte dedicata al Borgia parlava di colloqui segreti tra il cardinale e il Consiglio Collaterale in merito al possesso del governo, portando con sé ordini regi di dover obbedire solo a lui come viceré mentre l’Osuna accettava questa estromissione forzosa, di cui non si è mai avuto «ejemplar ninguno», con «mucha paciencia y cordura», restando nel suo palazzo fino al 14 giugno, quando si imbarcò per la Spagna con otto galere al comando di Ottavio d’Aragona, che lo lasciò a Marsiglia per tornare in Italia. Egli fu poi ricevuto a Barcellona con grandi onori dal duca di Alcalà, poi si recò a Madrid dove prese dimora a casa del duca di Uceda, visitato da molti nobili cortigiani. La testimonianza è particolare perché non vi è alcun accenno alla “guerra” contro i veneziani e ai numerosi eccessi e scandali di cui fu accusato il viceré, come accade anche nei racconti del diarista Francesco Zazzera, che accenna solo alla partenza del duca e al suo viaggio con le sei galere napoletane poste al comando di don Ottavio d’Aragona (f.168t.ss.).

La vera storia è stata ricostruita attraverso i documenti ufficiali degli archivi spagnoli, dove si possono leggere le varie fasi della vicenda in cui è stato coinvolto l’Osuna. Egli era un abile uomo di mare che pensava di poter agire indisturbato anche contro Venezia grazie all’appoggio di Filippo III e dei suoi potenti amici. Ma dopo la morte del sovrano e la caduta in disgrazia dei ministri che lo appoggiavano è stato travolto dalle nuove urgenze della guerra europea, ben più complessa di quelle mediterranee contro turchi e barbareschi, una politica diversa perseguita da Filippo IV e dal suo primo ministro Gaspar de Guzman, il conte duca di Olivares, che si occuparono in primo luogo di riorganizzare le Armate dell’Oceano (Pi Corrales De Pazzis, 2001).

Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Palermo (1846): 227 ss., lettera dell’1/10/1616
[2] Archivo General, Simancas, poi AGS, 1880, 19/9/1617, lettera del Veditore delle galere sul pagamento al de Leyva dal 3/10/1616, quando ebbe la nomina di generale delle galere napoletane
[3] Biblioteca Nazionale,Napoli, poi BNN, ms. X B 4, ff. 106-112, Ragioni fundate da Orazio da Feltro all’Ecc.za del Duca D’Ossuna Vicerè di Napoli circa l’usurpatione de’Venetiani nel Mare Adriatico
[4] AGS 1880, 2/7/1617, lettera dell’Osuna, e 18/7/1617, lettera del generale de Leyva al sovrano.
[5] AGS 1881, 10/2/1618, Consiglio di Stato con relazioni dell’Osuna del 20/12/1617 e 2/1/1618.
[6] AGS 1881, 14/2/1618, Consulta del Consiglio di Stato su di una lettera dell’Ossuna del 20/12/1617.
[7] AGS 1881, 28/2/1618, lettera dell’Osuna al sovrano.
[8] AGS 1881, 7/4/1618, lettera dell’Osuna al sovrano.
[9] AGS 1881, 14/4/1618, lettera dell’Osuna al sovrano.
[10] AGS 1881, 24/7/1618, lettera dell’Osuna al sovrano.
[11] AGS 1881, 25/8/1618, lettera di Ottavio Aragona al sovrano.
[12] AGS 1882, 2/1/1619, e pp. 101-105, 21/2/1619, lettere dell’Ossuna al sovrano.
[13] AGS 1882, aprile-maggio 1619.
[14] Biblioteca Nacional, Madrid, ms. 1431, ff. 130t.-132t., Copia de carta del Duque de Osuna para su Mag]esta]d, Nàpoles 3/4/1619.
[15] Biblioteca Nacional, Madrid, ms. 954, ff. 58-66; copia in Biblioteca de la Real Academia de Historia de Madrid, ms. Salazar 9.30.3.6276, fasc.15 e in Coniglio (1966: 525-530).
[16] AGS 1882, 4/6/1619, il viceré al sovrano.
[17] AGS 1882, 18/6/619, il marchese di Santa Cruz al sovrano.
[18] AGS 1882, 30/6/619, il viceré al sovrano.
[19] AGS 1882, 7/7/1619, il viceré al sovrano; 19/10/1619, relazione del viceré con la notizia dell’unione a Messina il 22/7 con il principe Filiberto.
[20] AGS 1882, 19/10/1619, il viceré al sovrano.
[21] AGS 1882, 20/1/1620, il viceré al sovrano.
[22] AGS 1883, 15/3/1620, Ottavio d’Aragona al Segretario di Stato Antonio Aroztegui.
[23] AGS 1883, 5/4/1620, il viceré al sovrano.
[24] AGS 1883, 8/4/1620, il viceré al sovrano.
[25] AGS 1883, 26/1/1620, il sovrano al viceré.
[26] AGS 1883, 20/6//1620, il viceré cardinal Borjia al sovrano.
[27] AGS 1883, 8/6/1620, il sovrano al generale de Leyva.
[28] AGS 15133, relazione del 1621.
Fonti
I documenti dell’Archivo General de Simancas sono pubblicati nella Colecion de documentos ineditos para la Historia de Hespaña, Imprenta de la Viuda de Calero, Madrid, 1842-1896, voll. 112, voll. XLVI, XLVII, XLVIII.
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Maria Sirago, dal 1988 è stata insegnante di italiano e latino presso il Liceo Classico Sannazaro di  Napoli, ora in pensione. Partecipa al NAV Lab (Laboratorio di Storia Navale di Genova). Ha pubblicato numerosi saggi di storia marittima sul sistema portuale meridionale, sulla flotta meridionale, sulle imbarcazioni mercantili, sulle scuole nautiche, sullo sviluppo del turismo ed alcune monografie: La scoperta del mare. La nascita e lo sviluppo della balneazione a Napoli e nel suo golfo tra ‘800 e ‘900, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2013; Gente di mare. Storia della pesca sulle coste campane, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2014, La flotta napoletana nel contesto mediterraneo (1503 -1707), Licosia ed.Napoli 2018.

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