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Dalla morte delle ideologie al cappello da chef

Bar-Jamaica, foto di U. Mulas

Bar Jamaica, foto di U. Mulas

 di Nino Giaramidaro

Definizione popolare sintetica, azzeccata, irridente o sorridente a seconda della modulazione fonica: mancia e dormi. Dal formulario dell’arguzia stradale, incollata alla sagoma accasciata al tavolino di un bar, intenta nella lentezza di colui al quale anche lo spostamento di un’anca reca laborioso fastidio. Insomma, il nullafacente professionista, il cui unico impegno lavorativo è quello di manciari e dòrmiri.

La vita li scovava nei luoghi più improduttivi, chiusi nel loro lindore proveniente dal decoro di mogli devote, sorelle affaticate, zie – soprattutto – sprovviste di prole e votate alla luminaria per l’effigie del facoltoso coniuge buonanima e al duro lavoro a beneficio dell’erede, chiamato con doppio pizzicuneddu: Turuzzu, Tonineddu, ‘Ntriuzza, Bastianeddu, Culicchia e altra anagrafica e vezzeggiata nomenclatura. Mangiavano a sbafo ma suonavano la chitarra, dormivano su letti non loro, amorevolmente rifatti e odorosi d’azolo, ma sapevano annodarsi il pappagghiolo, abilissimi con il Brill, e non dimenticavano di dare la quotidiana corda al pendolo.

Si aggirano nelle mie sfocature della memoria mazarese con leggerezza e con i nomi mutilati dall’irrimediabile oblio, spesso ancorati a un biliardo, un tratto simbolo di strada, una pieghevole del caffè, una sedia significativa del circolo, all’impiedi nel fumo delle salette-bisca dove sudate fortune disinvoltamente si trasferivano.

Naturalmente non disponevano mai di tempo libero da dedicare a micro fatiche, anche con pecuniaria retribuzione, loro richieste da parenti e amici: erano sempre assediati da impegni che sapevano magistralmente rimandare. La loro palese stanchezza annoiata si vitalizzava quando potevano diffondere l’esatta procedura nella preparazione della pasta con l’olio, oppure narrare mitiche imprese delle quali erano stati spettatori e, qualche volta, protagonisti con dubbio degli ascoltatori.

Tutto questo non diminuiva la considerazione del loro nome, spesso epigono di antiche casate, con l’aggiunta posticcia di cavaliere e persino barone e baronello. Insomma, rex inutilis vel nil faciens. Erano custodi di una filosofia di vita che potremmo chiamare old age – senza i Nirvana – un vecchio modo di sopravvivere, un po’ levantino, dal quale le esortazioni erano di uscire.

Invece sembra – nei nostri giorni tutto sembra – che il binomio mancia e dormi sia diventato un traguardo di carriera, un cursus honorum approvato dalle televisioni, giorno e notte. Il più grande pasticciere, Grandi chef, Detto fatto (parte padellosa), Le olimpiadi del macellaio, La prova del cuoco, Pronto in tavola. Credo di dimenticarne un’altra decina di trasmissioni buongustaie. Ma queste rifanno il look al plum cake, nobilitano la cicerchia, addizionano i piatti di sapienza coocking style, con un solo spaghetto attorcinato compongono una porzione bombardata di additivi – dalla mentuccia alla gramigna, con largheggiare di spezie intercontinentali e sconosciute – e poi panne cotte e crude, formaggi, aglio privato dell’anima, e un giro avaro di olio extravergine d’oliva che è il sigillo per spacciare la cosa come piatto della cucina mediterranea.

Quasi sempre a condurre queste trasmissioni a fuoco lento c’è una donna che non sa fare neanche l’uovo sodo, ma la credibilità è salvata da incredibili chef prestidigitatori e da signore che poi vengono accompagnate nelle case di riposo, esauste dal tritare, pelare, bollire, soffriggere, mantecare, infornare, assaggiare.

 (foto Giaramidaro)

foto Giaramidaro

Anche di notte. Tu alle due ti svegli, e non c’è verso; allora accendi la Tv e ti appaiono loro, nel fumeggio di una sardina sottoposta a una tortura più pesante dei tratti di corda. Non è un sogno indigesto bensì la replica del durevole diurno. Le teste d’uovo – perdonatemela – della Televisione hanno calcolato che le ore e ore di cucina quotidiana non bastano e che per essere adeguati c’è bisogno di un supplemento nel dormiveglia.

Sì, il dormire. Il materasso, corredato di cuscini, coperte, lenzuoli, piumini e piumoni lo trovi in successione di canali e di tutte le marche, suggerito da insonni attempati con vispe ragazze a lato che, anche alle tre di notte, sorridono. Ce n’è di tutte le fibre: ovviamente sconosciute, petroliere e coltivate, tutte migliori di quelle del materasso che c’è nel tuo letto e che, dato che ti svegli a quell’ora, non dev’essere buono. Ma gli attempati offrono a pochissimo prezzo – rateabile – “soluzioni per dormire” nella convinzione che portando a tre le parole per dire materasso il sonno duri più a lungo.

Tu eri convinto di essere sfuggito alla danza delle ore di Marzullo, e finisci in mezzo a fibre cave siliconate, di mais, di soia a cinque strati, con tecnologia agli ioni d’argento, fibre di chitosano, di bamboo, di carbonio con calore irraggiante e riflettente, tutti anti acaro e con maniglie pratiche ed eleganti. E ti regalano pure la rete, inclinabile a mano o elettricamente, come quella dell’ospedale.

Siccome le alternative sono esplosioni distruttivissime, assassinii crudeli e con altre aggravanti, ferimenti con prognosi riservata, torture indicibili, sangue, coltelli gocciolanti, seghe lorde: bisogna mettere la testa sotto le coperte o rifugiarsi in un western di Iris, dove sparacchiano le obsolete Colt e qualche finto Winchester.

Cosa si può chiedere alle nostre televisioni, dove Friuli Venezia Giulia è scritto Fvg? Bisogna accogliere l’Opinione Unica se non si desidera spingersi ai margini, alle frontiere delle terre dove vivono uomini e cose senza qualità. Stuart Mill, uno dei padri della liberaldemocrazia, scriveva: «La protezione dalla tirannide non è sufficiente: è necessario anche proteggersi dalla tirannia dell’opinione e del sentimento predominanti, dalla tendenza… a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello».

La morte delle ideologie, quei credo fatti di acciaio del pensiero, ci ha portati verso l’inox 18/10 dove, a fiamma viva, si scontrano dietisti una volta dietologi, nutrizionisti, vegetariani e vegani, locovori, macrobiotici, flexitariani, crudisti, fruttariani e fruttariani simbiotici con molti eccetera. Tutto sotto gli occhi acutissimi di sportelli per depositi, derivati, obbligazioni, titoli buoni e tossici attrezzatissimi per lasciarvi soltanto quel po’ di soldi insufficienti anche per una dieta di scalora, accia e giri.

So che l’ironia è malaccorta in una materia cha da Pitagora a Margherita Hack ha avuto illustrissimi praticanti, ma bisogna pur ricordare che dal vegetarianismo sociale il grosso delle popolazioni italiane e soprattutto insulari è uscito da pochi decenni. Credo ancora stiano sospesi sotto la ionosfera i vapori dei pentoloni di nirvia, in solitaria o con “ruttame” di pasta, che abbuttavano lo stomaco di affamati cronici. Sino alle anemie perniciose, alla pellagra del mais e del sorgo.

foto-Giaramidaro

foto Giaramidaro

La carne fu una conquista sudata. Ora, che ci saranno le Olimpiadi del macellaio, si aggira fra le non durevoli certezze scientifiche con la qualifica di monatta del cancro. Sì, 34 mila trapassi l’anno ascritti alla carne rossa, certificata cancerosa. Ma le grandi compagnie di food hanno un asso nella manica: gli insetti. Si profilano pantagrueliche abbuffate di costolette di scarafaggio, arrosti di formiche, spezzatini di cavallette e qualche brodo di scarabeo che, malgrado il nome bellissimo, sempre scravacchio è.  Diventeremo tutti silfi e silfidi, schifatini main”. A rischio di padella.

De Andrè cantava che bisogna muoversi “in direzione ostinata e contraria”. Come tutti gli aruspici, ci avvertiva per tempo. Noi invece abbiamo permesso che dire a uno “comunista” è come se gli si imprimesse la lettera scarlatta, le stigmate del lebbroso. Dovremmo diventare studiosi – meglio praticanti – della discordia anziché infilarci il cappello da chef.

Oggi bisogna tagliarsi i capelli alla mohicana, indossare pantaloni che poi toglierli è un problema, chiamare cappotto una cosa più corta della giacca. E pensare positivo sicuri del proprio look. Pensare un nulla variegato di insulti e usare una lingua vittima di reiterate sincopi tanto da far rimanere i balbettanti intrappolati nella tela di ragno dell’incomunicabilità, con grande soddisfazione di Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni.

Forse Jacques Prévert, il poeta delle midinettes, aveva azzeccato la sua semiclandestina rima: «Se lo si lascia solo il mondo mentale mente. Monumentalmente».

Dialoghi Mediterranei, n.17, gennaio 2016

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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie degli anni sessanta in una mostra dal titolo “Alla rinfusa”.

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