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Dal silenzio alla musica, la ribellione di Damiana

foto-copertinadi Valentina Richichi

Quando raccontiamo una storia, le parole conducono il senso attraverso i loro suoni, ma non esauriscono in tal modo la loro funzione: sono infatti anche in grado di descrivere i silenzi. Il silenzio, esattamente come il suono, possiede numerose altezze e intensità, può essere un rifugio di riflessione o una spaventosa condizione di sospensione tra l’attesa e la reazione. Alla lettura silenziosa affidiamo, mentalmente, i suoni di cui le parole sono portatrici, i loro significati, le armonie e le dissonanze delle storie che si muovono dalle pagine verso la nostra immaginazione, che non è, appunto, silenziosa, ma si fa cantiere di esperienza in costruzione e di narrazione personale.

Qui si narra una vicenda in cui il silenzio assume quasi il ruolo di un ulteriore personaggio, complice di un disegno di vendetta, velo di rassegnate sottomissioni, ma soprattutto custode della dignità con cui coloro i quali appaiono come i più deboli riescono invece a mantenersi saldi ai propri principi e con la vera forza che caratterizza le vittime dell’altrui prepotenza. Damiana (edizioni Arianna, Geraci Siculo, 2017), di Vincenzo Muscarella, è il nome della protagonista, una donna che del silenzio ha fatto la sua pratica di resistenza e il suo nodo interiore: un fortino da cui scagliare parole come uniche armi a sua disposizione contro una condizione di subalternità a cui non si arrende.

Siamo in un piccolo centro della Sicilia, negli anni Settanta, periodo di un generale rinnovamento dei consumi culturali e tecnologici che già da due decenni il boom ha innescato in una corsa inarrestabile. Le nuove generazioni devono tuttavia fare i conti con un retaggio valoriale postbellico che pone ancora le donne in una condizione di subalternità. Così, mentre il televisore porta nelle case di tutte le famiglie italiane gli occhi truccati e la voce sensuale di Mina, le canzoni dagli altoparlanti si diffondono nei tinelli e si infrangono contro il lavoro silenzioso delle madri di famiglia che sulle ginocchia sbucciano e rammendano, lavoro accurato di mani e anime che reggono fili delicati, tessono relazioni, annodano segreti. Damiana potrebbe certamente assomigliare a una di queste donne aracnidi che filano, tessono e tagliano i fili del destino come le Parche, perché anche lei custodisce un segreto, così atroce da condurla a tessere anche la tela fatale della vendetta.

Sullo scenario di un piccolo paese in movimento verso il futuro, la famiglia che Damiana amorevolmente custodisce, il marito Pinuzzu e le tre figlie, ma anche l’amato fratello Nirìa ‒ unico uomo dalla parte delle donne ‒ si avvicenda in una quotidianità semplice, fatta di lavoro onesto, solide amicizie e piccole gioie, come quella della scoperta dei classici della letteratura. Angiolina, la figlia quattordicenne di Damiana, è sin dall’infanzia una brava alunna e un’appassionata lettrice e la madre, per una iniziale volontà di conoscere le ragioni di tanto amore per i libri, si avventura tra le loro pagine; grazie alle storie e alle emozioni che tanto la coinvolgono, si concede anche lei un’alternativa al silenzio tra le più ricche ed edificanti. La ragazza sta rapidamente crescendo, e la decisione di mandarla alla scuola superiore nel paese vicino è oggetto di riflessione in famiglia, perché le sue forme non più acerbe sono ormai di donna ed è possibile preda della voracità maschile. Tra gli altri, un uomo ha già puntato gli occhi sul corpo armonioso di Angiolina, ed è Lillino, rampollo violento e spregiudicato della famiglia mafiosa dei Viras, che in paese detta legge da generazioni. Anche lui, come i suoi coetanei, si destreggia negli usi che fanno da cesura con il mondo tradizionale dei genitori e dei nonni, ma con in più uno strumento che gli concede molto più spazio di azione: il potere, sotto forme ricodificate dai tempi e in contrasto con le consuetudini con cui i suoi predecessori l’hanno a loro tempo esercitato: non più un accaparrarsi il rispetto dei timorosi subalterni attraverso un’autorevolezza basata sul “non-detto”, alla maniera degli antichi, ma un quotidiano linguaggio di violenza e di ostentazione di potere e ricchezza, con automobili sportive e abiti alla moda.

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Vincenzo Ognibene

Quando Pinuzzu, rimasto all’improvviso senza il suo impiego di trattorista, riceve la proposta di lavorare per i Viras, nulla è per caso: da una parte un’offerta che non è disinteressata, dall’altra la necessità di sostentare la famiglia. Ed è proprio in quest’ultimo estremo che si consuma la tragedia familiare di Damiana: la sua Angiolina subisce il più efferato dei torti dal giovane spregiudicato, che la stupra non temendo alcuna ritorsione dal padre Pinuzzu, totalmente asservito ai suoi voleri attraverso un ricatto insinuato nelle pieghe del suo ambiente domestico. Damiana è dunque vittima due volte. La violenza carnale subita dalla figlia si riverbera e si amplifica davanti al diniego di Pinuzzu, che le intima il silenzio e si volta dall’altra parte. Persino nell’intimità della camera dei coniugi, nessuna ammissione di responsabilità, soltanto un ottuso calpestare la propria dignità di padre in nome di una fedeltà giurata al proprio carnefice. Condannata al silenzio, Damiana farà di questa dimensione forzata il suo riscatto, grazie al quale troverà la sua personale soluzione alla dignità, sua e della sua famiglia, brutalmente violata.

Vincenzo Muscarella, al suo primo romanzo, porge al lettore una storia che si racconta da sé anche oltre le parole che ha sapientemente intrecciato, grazie a un andamento cinematografico – e auguro qui a Damiana una futura trasposizione sul grande schermo – in grado di restituire circostanze e luoghi dell’anima in modo asciutto ed efficace. Il romanzo non è suddiviso in capitoli, ma procede senza soluzione di continuità nel rispetto di una storia che non può e non deve concedere pause. Nessuna parola in più, niente da aggiungere, neanche la sintesi di un titolo di sezione: si rimette al lettore la facoltà di chiudere il libro quando sarà anche lui troppo stanco e amareggiato per sopportare, riprendere fiato e tornare al fianco di una donna che trova il più grande nemico non fuori, nella sola truce persona di Lillino Viras, ma nell’intimità della propria casa, e ha gli occhi bassi e le mani violente del marito, un padre che non vuol vedere la realtà umiliante in cui è caduto.

«- Nun nu vogghiu chiù a stu Lillino nna me casa!

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Vincenzo Ognibene

Non ebbe il tempo neanche di pronunciare il nome per intero, e Damiana sentì le mani nodose di Pinuzzu stringerle le braccia come in una morsa, poi senza sapere come, si ritrovò a sbattere con le spalle sul letto, mentre il lato destro della faccia sembrò esplodere colpito da un tremendo schiaffo. Non ebbe neanche il tempo di capire, e a seguire un altro schiaffo sull’altro lato pareggiò il conto». 

Damiana non è una storia di mafia, ma una storia di coraggio, in cui la prepotenza mafiosa è l’avamposto di una violenza domestica che cresce con rapidità perché la vicinanza ai capi innesca un circolo perverso di timore e sete di prestigio. Se la sfera pubblica, fatta di bar che si affacciano su assolate piazze come quartieri generali, automobili fiammanti in lenta parata, è appannaggio degli uomini di potere e delle loro corti di tirapiedi, la sfera privata è l’ambiente domestico in cui le donne lottano e si ribellano anche pagando il prezzo più alto, come è avvenuto per Lia  Pipitone che, secondo le rivelazioni di alcuni pentiti, sarebbe stata uccisa dal padre mafioso, e la cui storia è narrata in Se muoio, sopravvivimi. La storia di mia madre che non voleva essere più la figlia di un mafioso, grazie alla ricostruzione del figlio Alessio Cordaro insieme al giornalista Salvo Palazzolo (Melampo Editore, 2012).

Si narra, dunque, tra le pagine di Damiana, dell’oppressione di genere, delle difficoltà delle donne di accedere all’opportunità di autodeterminarsi sul piano intellettuale, coltivando le proprie inclinazioni, e sul piano dell’autoconservazione, dal momento che non è concesso loro di far valere i propri diritti, che sono i più basilari diritti umani, e in particolare il diritto alla giustizia a fronte di una violenza carnale.

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Vincenzo Ognibene

Il silenzio quale spazio dell’immaginazione è ascrivibile a quanto si possa desumere da una sistematica indagine sull’intimità delle donne, «intesa come spazio delle relazioni (sessuali, d’amore, parentali, ecc.) degli affetti e del sé […] e in cui [corsivo mio] norme di genere, definizioni del maschile e del femminile, concezioni del matrimonio e della maternità, forme di controllo e di violenza s’incarnano» (Mattalucci, 2012: 20), così da garantire un ulteriore ambito di codificazione del linguaggio. Ne è consapevole Vincenzo Muscarella, che insieme all’aver compiuto l’impresa non facile della stesura di un romanzo sull’oppressione femminile, ha anche il merito di essersi confrontato con le voci delle donne, ma soprattutto coi loro silenzi, ed essersene fatto abile interprete. Nella costruzione dei personaggi, insieme alla loro caratterizzazione psicologica, ha infatti posto un discrimine tra gli ambiti e gli attori del silenzio e della parola: agli uomini è affidata gran parte dei dialoghi e le numerose e incisive terminologie dialettali, aspetto che verrà approfondito più avanti; le donne sono invece velate dal discorso indiretto libero e dalle aggraziate descrizioni, salvo Damiana e sua madre, Donna Pitrina, personaggio femminile a lei speculare, che si rivolgono agli uomini senza mezzi termini. Ad Angiolina non sono concesse che poche battute, sibili sciolti dalla sua femminilità ferita, raggomitolata su se stessa, il cui silenzio esprime l’impotenza e la passiva accettazione della condizione di oggetto cui la violenza maschile l’ha relegata. Non siamo tanto lontani dalle parole, poche ma coraggiose, pronunciate nel 1965 da Franca Viola per accusare il suo stupratore, sostenuta dal suo difensore Ludovico Corrao e da un padre che, a differenza di Pinuzzu – padre sordo d’orecchie e di cuore – tenne salda al petto la dignità della propria figlia.

L’epilogo amaro della vicenda avviene in sordina, il lettore è chiamato a tacere e a non commentare una decisione, quella di Damiana, in cui non può e non deve rispecchiarsi (la giustizia privata), ma in fondo al libro trova un conforto: … e pi Damiana cantu!, il cd allegato al volume, prodotto dal cantautore palermitano Francesco Giunta e contenente cinque brani dedicati a Damiana e a tutte le donne vittime di violenza carnale e domestica. A cantare e a rompere il silenzio per Damiana sono esclusivamente voci maschili, non perché non sarebbe stato opportuno un canto femminile, ma perché, davanti alla brutalità commessa da uomini, sono altri uomini (veri uomini, aggiungo) a voler ergersi in difesa delle donne e a portare alto, anche attraverso la musica, il valore del rispetto nei confronti delle loro madri, figlie e mogli. Donne che li hanno portati in un grembo verso cui è necessario esprimere riverenza per quel “mondo amniotico” a loro sconosciuto e non facente parte della loro corporeità maschile. Osserva in proposito, in un suo penetrante studio, Silvia Vegetti Finzi: «Le femmine nascono in un corpo dello stesso sesso, i maschi in un corpo di sesso opposto. L’esperienza di estraneità, che contraddistingue la loro prima relazione, fa sì che per tutta la vita gli uomini debbano superare, negli scambi interpersonali, un’iniziale reticenza, un’impercettibile diffidenza» (2017:10), e gli uomini, grazie al superamento di tale insondabile diffidenza, si aprono con fiducia alle donne e le rispettano. Anche col canto.

Nel cd di omaggio a Damiana è contenuta una selezione di brani di Francesco Giunta ed Ezio Noto (uno dei quali è la trasposizione musicale di una poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia, interpretata da Moni Ovadia), di Edoardo De Angelis e del cantautore selinuntino Pino Veneziano. Testi e musica insieme, tra sonorità semplici e strumenti della tradizione popolare, sono un balsamo per il cuore offeso di Damiana e di tutte le donne, e per i loro corpi, grazie alle vibrazioni che con gentilezza musicisti e cantautori liberano dalle loro sensibilità creative. Un bouquet di canzoni offerto a Damiana su iniziativa di Francesco Giunta che – così scrive l’editore sul risvolto di quarta di copertina – «decide di dedicare a Damiana un disco “corale”» dopo aver letto il romanzo per la prima volta.

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Vincenzo Ognibene

Una coralità di voci e armonie a far da contrappunto alla condizione del silenzio, attraverso i suoni delle musiche, e alla quale si aggiunge l’attenzione per i suoni delle parole di Roberto Sottile, che scrive la prefazione al romanzo evidenziando, insieme a una commossa partecipazione alla vicenda, l’importanza dei termini dialettali con cui Muscarella ha scelto di esprimere luoghi e circostanze attraverso le voci dei personaggi. Parole e locuzioni dialettali contenute nel romanzo sono patrimonio peculiare dell’area di provenienza dell’autore, il paese di Cerda, in provincia di Palermo. Il progetto editoriale di cui Damiana è apripista conta di raccogliere romanzi e racconti ambientati nelle località situate lungo la Strada Statale 120 detta “dell’Etna e delle Madonie” e individuata come corrispondente alla possibile linea lungo cui determinate pronunce hanno “viaggiato”. Scrive lo stesso Sottile: «i paesi che si affacciano sulla “Nazionale” hanno un che di comune che urge scoprire e valorizzare», sul piano della ricerca dialettologica e insieme – aggiungo – sul versante della scoperta di vicende di importanza sociologica e antropologica, che si tratti di storie vere o di vicende frutto di invenzione, dal momento che luci e ombre degli esseri umani circolano da un mondo all’altro passando per una membrana che mette in stretto contatto realtà e immaginazione.

Una nota per le illustrazioni, ad opera del pittore Vincenzo Ognibene: tavole in cui l’essenziale è visibilissimo ai nostri occhi come il riverbero di emozioni antiche quali la paura e il coraggio; sulla copertina del libro, linee scomposte, fili che circondano una figura stretta su se stessa, ma diritta e fiera malgrado tutto: fili che sembrano sollevarsi verso il cielo come silenziose onde sonore, echi felpati che raggiungono chi ha voglia di ascoltare una storia, una tra tante di quelle che non vorremmo mai conoscere, ma che è necessario raccontare.

Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
Riferimenti bibliografici 
Cordaro A. – Palazzolo S., Se muoio, sopravvivimi. La storia di mia madre che non voleva essere più la figlia di un mafioso, Melampo editore, Milano 2012.
Mattalucci C., (a cura di), Etnografie di genere. Immaginari, relazioni e mutamenti sociali, Edizioni Altravista, Lungavilla (PV) 2012.
Vegetti Finzi S., L’ospite più atteso. Vivere e rivivere le emozioni della maternità, Giulio Einaudi editore, Torino 2017.

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Valentina Richichi, laureata in Beni demoetnoantropologici presso l’Università di Palermo e specializzata in Antropologia culturale presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca, si interessa di educazione nelle classi multietniche, di processi migratori e retoriche geopolitiche. Ha svolto ricerca nel contesto dell’accoglienza ai migranti minori non accompagnati. Attualmente opera, tra Milano e Palermo, nell’ambito dell’editoria e degli studi sull’emigrazione storica siciliana.

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