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Dal carcere al teatro. Dialogo con la regista Elisa Taddei

1di Sabina Leoncini 

Introduzione

R. T., detenuto di 47 anni, si è ucciso nella sua cella a Sollicciano lo scorso 13 luglio. Il sesto suicidio in questa struttura in neanche un anno [1]. Diverse testate giornalistiche locali hanno commentato questi fatti di cronaca come conseguenza delle pessime condizioni in cui si trova la Casa circondariale di Sollicciano ormai da tempo. Nei prossimi anni è stata progettata una grande opera di ristrutturazione, ma al momento molti sono i detenuti che vivono in una condizione di forte disagio psicologico. R. T. aveva più volte minacciato il suicidio, spesso veniva visto con qualche filo o qualche piccola cordicella attorno alla gola, si era procurato vari tagli nel corpo per autolesionismo, a volte ingeriva pile stilo. Al figlio aveva raccontato di aver visto topi in cella, e della sporcizia, che si sentiva solo, inascoltato, senza rispetto. Racconta il figlio:

«Lo Stato non garantisce la tutela del detenuto e non ha garantito quella di mio babbo. […] Era il mio compleanno e ci tenevo tantissimo a festeggiarlo insieme a lui, così andai a trovarlo in carcere. Stava già crollando, giorno dopo giorno. Aveva i capelli lunghi, la barba lunga, abbassava gli occhi perché si vergognava di fronte a me di farsi vedere in quelle condizioni» [2] .

Richiamata più volte dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo per la grave situazione di sovraffollamento che esiste nelle carceri presenti sul nostro territorio, l’Italia ha ancora oggi strutture da riqualificare, talvolta fatiscenti, che hanno vissuto il susseguirsi di governi che mai sono riusciti a risolvere questo problema (Saudino, 2023). Nella mente di chi progetta un carcere c’è l’idea di un posto di interscambio, basato sul principio per cui la socializzazione sia fondamentale. (Michelucci, 1993: 39) Nella realtà, però, molte carceri, proprio come Sollicciano, sono situate in zone periferiche rispetto alla città e questo scambio non esiste. Dunque, perché un carcere che si sposta dal centro alla periferia della città, isolandosi da tutto il resto? Purtroppo mancano ancora oggi i presupposti fondamentali per questo rapporto: un’apertura da parte della società nei confronti del concetto di devianza e un’idea di sicurezza interpretata più correttamente.

Da questo punto di vista le scienze umane, sono le discipline di riferimento per lo studio della realtà carceraria. Il legame con il territorio, quindi con gli istituti scolastici superiori, le associazioni e gli enti locali sono fondamentali proprio per la rieducazione. Come racconta Valentina Guerrini, dell’Università di Sassari, l’Università ha un ruolo fondamentale nella promozione dei processi educativi nel contesto penitenziario. L’Università di Sassari ha infatti istituito, ormai da anni, una collaborazione con il carcere di massima sicurezza di Nuchis (Tempio Pausania) e di Alghero.

«L’Università, in questo senso, ha un ruolo rieducativo, nel dare un’altra possibilità a chi in qualche modo ha sbagliato e si trova in un contesto di detenzione. L’Università rappresenta un’apertura verso l’esterno, una porta che permette di mettere in comunicazione chi sta dentro con chi sta fuori attraverso lezioni, dialoghi, esami, ma anche attraverso i libri e il materiale di studio che apre spazi di riflessione, di consapevolezza e di crescita» (Intervista alla Prof.ssa Guerrini, 15/06/23).
Le carceri di Sollicciano (ph. Sabina Leoncini)

Casa Circondariale di Sollicciano (ph. Sabina Leoncini)

Teatro, cinema e carcere

«Antonio dopo anni di gemiti e di orgasmi tu mi ringrazierai, questa è una delle esperienze che ti riportano alle radici profonde del nostro mestiere. Monta su quel palco e dimostra che sei ancora vivo!» Così l’amico storico di Antonio, doppiatore di film porno con un passato da attore teatrale di fama locale, gli propone di avviare un corso di teatro in un carcere romano. Il film di Riccardo Milani Bravi ragazzi (2022) vede protagonista il grande Antonio Albanese che ancora una volta con la sua comicità e la sua delicatezza nell’affrontare temi sociali urgenti, tra i tanti l’immigrazione, (Contromano 2018) parla di teatro e di carcere. L’opera da mettere in scena è il magnifico Aspettando Godot di Samuel Becket. Così cinque detenuti, interpretati da Vinicio Marchioni, Giacomo Ferrara, Giorgio Montanini, Andrea Lattanzi e Bogdan Iordachioiu sotto la guida di Albanese che si scontra con gli innumerevoli ostacoli burocratici e l’iniziale diffidenza della direttrice Sonia Bergamasco, iniziano il loro viaggio attraverso prove, spettacoli e tournée in tutta Italia, fino all’epilogo finale.

Il tema dell’attesa, del trascorrere del tempo, della soggettività con cui l’animo umano lo percepisce, diventa sempre più protagonista di questa storia, che è la storia di tante persone che hanno commesso (presumibilmente) un reato e si trovano ad attendere. «Loro sanno cosa vuol dire aspettare, aspettano i colloqui, aspettano il giorno dopo…» [3] dice proprio Albanese riferendosi ai suoi allievi. Questo film permette di portare sul grande schermo una realtà di cui poco si parla e si scrive ma che ci riguarda da vicino.

In Italia sono numerosi i penitenziari che vantano tra le varie attività rieducative quella teatrale, a partire dalla pluriennale esperienza della Compagnia di Armando Punzo del Carcere di Volterra. Purtroppo però durante il periodo Covid tutte queste attività sono state completamente sospese e l’attesa è diventata infinita. Per fortuna alcune piccole realtà come quella della compagnia di Sollicciano (Firenze) diretta da Elisa Taddei sono riuscite a “mantenersi a galla” grazie all’incessante opera della stessa Elisa che è stata dentro e fuori dal carcere proprio per riuscire a mantenere un contatto diretto con i detenuti della compagnia e con le altre compagnie con cui collaborano. Quella che segue è l’intervista integrale a Elisa che si è svolta a Sollicciano a settembre 2022 dopo la rappresentazione dell’opera Don Chisciotte, con l’apertura al pubblico, e una serie di incontri con le scuole durante i quali gli studenti hanno potuto rivolgere domande direttamente agli attori.

Elisa Taddei

Elisa Taddei

Qual è la tua storia?

«Sono giunta a Sollicciano per caso poiché cercavano qualcuno che avesse già fatto teatro in carcere. Sono stata assegnata alla sezione maschile, c’è una sezione femminile a Sollicciano ma non fanno teatro. Per quanto riguarda la mia passione per il teatro, sicuramente mi ha segnato l’aver assistito a uno spettacolo a Volterra della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo. Quest’ultimo utilizza un linguaggio poetico, stile completamente diverso da quello delle mie opere ma che mi piace molto e mi ha incoraggiata ad avvicinarmi a questo mondo. Mi sono laureata al DAMS di Bologna, e sono stata coinvolta dal regista Gianfranco Rimondi nel laboratorio teatrale del carcere della Dozza. Ho iniziato a lavorare nel mondo del teatro da giovane e dal 2004 collaboro con il carcere di Sollicciano. Il mestiere del regista credo che si impari soprattutto attraverso la formazione sul campo, la frequenza ai laboratori e soprattutto guardando tanti, tantissimi spettacoli. Oggi ho una mia associazione: Krill Teatro, nata nel 2008 con la finalità di fare e promuovere il teatro all’interno della casa Circondariale di Sollicciano. Il mio progetto è stato approvato dal Coordinamento Regionale Teatro e Carcere, promosso dalla Regione Toscana, a cui aderiscono le principali realtà artistiche che operano nel settore teatro e carcere, presenti sul territorio regionale e sostenuto economicamente dalla Fondazione Carlo Marchi. Partecipano circa 30 detenuti tra attori, scenografi, assistenti. Essendo una casa circondariale molti attori non arrivano alla realizzazione dello spettacolo, perciò abbiamo previsto che si possano inserire nuovi partecipanti. Ad oggi la compagnia ha realizzato tredici spettacoli, che sono stati replicati varie volte».

Odissea, Sollicciano

Sollicciano, Odissea

Tra i vostri spettacoli c’è stata anche una rivisitazione dell’Odissea, perché questa scelta?

«La popolazione carceraria di Sollicciano è costituita per il 70/100 da stranieri, molti dei quali provengono dal Nord Africa; i carcerati italiani sono una minoranza. Ho pensato che il tema dell’Odissea potesse lasciare un margine di discussione e di apertura ad uno spunto di riflessione tra gli spettatori essendo un tema attuale quello del viaggio legato alla migrazione oggi».

In questo contesto come donna come ti senti e perché non ci sono donne se non professioniste tra le attrici?

«Ho provato in passato ad includere il reparto donne nella realizzazione degli spettacoli ma, sebbene ciò arricchisse il gruppo, si creava una situazione di difficile, stressante e faticosa gestione a livello di sicurezza e organizzazione interna. Nonostante questo io credo profondamente che la presenza femminile sia fondamentale in contesti come Sollicciano, poiché c’è una sorta di “addolcimento” dei rapporti interpersonali e della relazione all’interno del gruppo se c’è la presenza di una donna; essa crea un equilibrio, tira fuori dagli attori qualcosa in più.  A maggior ragione lavorare con attori professionisti donne porta al gruppo nuovi stimoli. Io non ho mai avuto alcun problema a lavorare con soli uomini e non mi sono mai trovata in situazioni di difficoltà, di mancanza di rispetto, di violazione della privacy o del mio essere donna in alcun modo. Ovviamente c’è un dress code da adottare proprio per il rispetto reciproco. Soltanto alcuni anni fa mi sono trovata ad avere a che fare con una persona che faceva stalking nei miei confronti e devo dire che il gruppo è stato fantastico perché mi ha aiutata e supportata fortemente nella situazione sostenendomi e cercando di far capire a questa persona che si stava comportando in maniera poco adeguata. Per questo ritengo che sia fondamentale dare fiducia al gruppo e al singolo al suo interno. Senza la fiducia è impossibile arrivare ai risultati che abbiamo ottenuto con i nostri spettacoli».

Come pensi che il carcere potrebbe avvicinarsi a quello che c’è fuori?

«Io vorrei tanto portare il carcere fuori e far conoscere questa realtà a tante altre persone che non siano addetti ai lavori; il teatro crea dei ponti tra l’interno e l’esterno del carcere. Durante i primi spettacoli che mettevo in scena qualche anno fa gli spettatori erano solo interni, poi dopo invece piano piano sempre più persone sono venute a conoscenza del progetto e oggi devo dire che sono felicissima della grande partecipazione delle realtà presenti sul territorio. Negli ultimi sei, sette anni tra l’altro le nostre repliche venivano proposte anche alle scuole, poi c’è stato un problema di tempistica rispetto ai ritmi degli esami della scuola. Avevamo provato anche ad aprire le porte di Sollicciano agli studenti per poter assistere alle prove, ma poi a livello logistico ci è risultato impossibile continuare. Anche a livello organizzativo non è semplice poiché Sollicciano è una casa di reclusione come tante altre, dove ci sono persone che sono in attesa di una sentenza definitiva, perciò anche il meccanismo della richiesta dei permessi da parte dei magistrati è molto complicato. Il fatto che i familiari dei reclusi possano partecipare e che dopo lo spettacolo ci sia un piccolo momento conviviale per il gruppo è un elemento fondamentale».

Sollicciano, Don Chsciotte

Sollicciano, Don Chisciotte

Perché hai scelto Don Quichotte?

«Don Quichotte lo avevamo già realizzato con una prima versione nel 2011 con un gruppo completamente diverso e da un punto diverso, quello del cavaliere che in realtà si trova incarnato in un detenuto. In questa versione ho dato spazio all’immaginazione, frutto di alcuni esercizi di improvvisazione. L’obiettivo era volare fuori dalla cella con la fantasia, ognuno poteva quindi vedere tutto ciò che voleva. In questo esercizio il ragazzo che ho scelto come protagonista mi ha colpita e viste le sue origini ho pensato anche di introdurre il teatro di figura balinese. Raccontare una storia che mi piace, è il mio obiettivo attraverso le mie opere, scegliendo i personaggi principalmente con l’intuito e aspettandomi di tutto da ciò che si possa scatenare in un gruppo così eterogeneo. Nelle mie opere c’è sempre un’onda nella storia che passa da momenti tragici a momenti comici; una volta un attore ex detenuto tra il pubblico mi ha detto quanto fosse secondo lui “drammaticamente simpatica” la vita dentro al carcere vista da fuori. Nel teatro di parola poi si riesce a tenere un ritmo incalzante, in cui il pubblico ride, piange, viene coinvolto empaticamente».

Cosa sai dei detenuti?

«Io credo che non si possa non tenere conto del fatto che sono detenuti. La differenza con altri contesti come quello della scuola, è che io non devo giudicare o valutare nessuno. Sono consapevole del fatto che chi chiede di fare teatro in carcere inizialmente lo fa solo per uscire dalla cella ma dopo scatta qualcosa dentro di loro, la voglia di avere una soddisfazione, di realizzarsi, di mettere da parte chi sono e perché si trovano lì».

Sollicciano, Pinocchio

Sollicciano, Pinocchio

Conclusioni 

La storia di Elisa Taddei è una delle tante storie che iniziano in altri luoghi, fanno grandi giri e poi finiscono per incontrare persone ai margini delle storie degli altri. Quella di Elisa è una storia che sfiora quella di sette persone su dieci a Sollicciano, che portano con sé anche il proprio percorso di migrazione. Nello spettacolo “Don Chischiotte” messo in scena dalla compagnia del carcere fiorentino, traspare la confusione del protagonista che si perde tra finzione e realtà ma anche la corale fiducia nei confronti della loro guida e la speranza degli attori nel futuro possibile fuori dal carcere. Lo spettacolo, come la vita “tra le sbarre”, alterna momenti tragicomici a momenti di profonda tristezza e malinconia; com’è stata definita da alcuni spettatori, la vita in carcere è “drammaticamente simpatica” ed è anche per questo che il pubblico si sente travolto dagli eventi, tanto più che è fondamentale che persone da fuori, familiari dei detenuti, istituzioni, scuole, conoscano questa realtà attraverso varie iniziative legate al teatro.

«L’obiettivo era volare fuori dalla cella con la fantasia, ognuno poteva quindi vedere tutto ciò che voleva». Chi entra a Sollicciano come volontario o perché collabora con la struttura come esterno non sa quale sia il reato compiuto dai detenuti. Come sostiene anche Elisa, chi sceglie di fare teatro inizialmente lo fa solo per uscire dalla cella, ma poi nasce una motivazione intrinseca molto forte per cui si “vola con la fantasia”, si cerca la soddisfazione per un attimo di non sentirsi dove realmente si è; ci si spoglia del giudizio degli altri e anche del proprio, per sospendere la sentenza che è stata emessa; si smette di valutare cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, perché quando si è sul palco esiste solo la storia che si vuole raccontare, assieme ai riflettori, al pubblico e all’emozione.

«Il carcere è luogo di sofferenza, e di sofferenza terribile, ove la persona si annulla nella privazione della libertà, nella perdita della propria personalità, dei propri affetti, della propria terra, delle prospettive di vita». Queste le parole del Garante per i diritti dei detenuti della Regione Toscana. Se la vita in carcere è privazione di libertà, di personalità, della propria famiglia, d’altra parte il trattamento e il percorso di rieducazione sono indispensabili per preparare il detenuto al mondo fuori dal carcere. Il teatro è quindi una delle tante occasioni per mettersi in discussione e aprire un confronto con l’esterno. Lo spettacolo Don Chischiotte ha lasciato a chi, come me, lo ha potuto vedere, un senso di smarrimento nel seguire le peripezie di questo cavaliere errante, in lotta contro i Mulini a vento, al confine tra tangibilità e illusione. Le stesse peripezie vissute da Ulisse nell’Odissea (altro spettacolo messo in scena dalla compagnia diretta da Elisa Taddei negli anni precedenti) e che vivono in alcune situazioni anche i detenuti. Ecco la testimonianza di un collega insegnante e giornalista dopo lo spettacolo:

«La serata che ho passato a Sollicciano è stata arricchente nella sfera delle emozioni per i protagonisti (dagli attori alle maestranze, ecc…) che hanno contribuito a mettere in scena una rivisitazione del Don Chisciotte di Cervantes. Il pubblico ha dimostrato partecipazione attiva di fronte alle tematiche messe in luce. Oggi, non è facile parlare di carcere soprattutto in una società come la nostra che sembrerebbe portata a dividere tutto in bianco e nero… Ma in questo caso si è trattato di un significativo incontro fra comunità carceraria (detenuti, Direttrice, personale amministrativo e di vigilanza) e comunità esterna ad esso. È stata una dimostrazione di come un penitenziario (a partire proprio dal significato del nome) sia un luogo atto a rieducare ed inserire armonicamente i suoi ospiti nella comunità civile».

Anche una delle studentesse di un Liceo fiorentino che si trova in un quartiere vicino al carcere di Sollicciano commenta lo spettacolo così:

«Per chi guarda da fuori, il carcere alle volte può non sembrare così male. Vedi tutte queste attività che possono fare, tutti questi progetti: teatro, studio, pittura…Forse gli occhi velati, le sbarre lontane, ingannano anche noi, come quel bambino, figlio di un detenuto, che andando a trovare il padre in carcere lo vede sempre felice e impegnato, e pensa “Forse non è così male come lo fanno sembrare”. Chi ci ha vissuto ed è stanco ormai di mentire però, racconta un’altra storia: “Vivere un giorno qua non merita per nessun guadagno”.  Un giorno di gloria non vale cinque anni in prigione. Per quanto possa sembrare esaltante la sensazione del momento, a conti fatti ci si accorge che il piatto della bilancia non era mai stato in equilibrio, che quel contratto era pieno di clausole nascoste. Gli “onesti” da laggiù appaiono lontani e distorti dalle sbarre scure e da un’aria densa di possibilità, di “e se io invece… come sarebbe stata la mia vita?” Tutte le vite che avrebbero potuto vivere e non hanno vissuto, che scivolano via come gli anni che passano, in attesa di un’ultima possibilità. La possibilità di camminare di nuovo tra gli onesti. Quelli che sembrano piccoli, semplici e fragili, rispetto ai disonesti, che camminano a passo sicuro lungo la loro strada. Eppure nella loro umiltà sono più sapienti, perché si sono già accorti che quella strada termina con un vicolo cieco. “Vivere un giorno qua non merita per nessun guadagno” perché un giorno sono come mille, non passano, nonostante la vita passi troppo in fretta anche da questa parte. Chi va in carcere però non ci va per un giorno, ma per mille o duemila o più. E se un solo giorno è come mille, mille giorni quanti sono?». 

Concludo con le parole di chi sostiene che debba esistere una “pedagogia del carcere”, che esca dal meccanismo della sorveglianza e della punizione (Foucault, 1993), o peggio del luogo comune del “buttare via la chiave”. L’educazione non è solo asili nido, scuole, corsi di formazione e università. Il processo educativo ingloba le sfere della quotidianità a noi più vicine anche se emotivamente lontane, ma soprattutto l’educatore svolge davvero la sua funzione all’interno della società se porta i soggetti più fragili a costruire un percorso di cambiamento. A guardar bene,  

«[…] l’educazione acquista senso e riscopre valori proprio nei contesti più estremi e, perciò, offre    contributi importanti per contrastare quelle “resistenze emotive” di ostacolo alle prospettive innovatrici. Si tratta di resistenze spesso frutto della paura, di un sentire comune che alimenta pregiudizi, che   consolida   stereotipi, che ritiene che la reazione punitiva sia l’unica e giusta risposta a determinati reati, dimenticando che nessuna persona è mai riducibile all’atto, seppur efferato, che compie» (Colla e Zizioli, 2016: 65). 
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] Cfr. https://ristretti.org/firenze-detenuto-si-impicca-cronaca-di-un-suicidio-annunciato.
[2] Cfr. https://corrierefiorentino.corriere.it/notizie/cronaca/23_luglio_27/firenze-suicidio-nel-carcere-di-sollicciano-mio-padre-poteva-essere-salvato-84caaab4-2135-4f99-96f6-e1909862bxlk.shtml?refresh_ce.
[3] Cfr. il film Grazie ragazzi, R. Milani 2022. 
Riferimenti bibliografici
Callari Galli, M., (1996), Lo spazio dell’incontro, Percorsi nella complessità, Milano: Meltemi Editore.
Foucault, M. (1977), Microfisica del potere, trad. it. di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino
Foucault, M. (1993), Sorvegliare e punire, nascita della prigione, (A. Tarchetti trad), Torino: Einaudi (Edizione originale 1975).
Foucault, M. (2013), Volontà di sapere, storia della sessualità (P. Pasquino, G. Procacci trad.). Milano: Feltrinelli (edizione originale 1976)
Goffman, E. (2018), Stigma. Note sulla gestione dell’identità degradata, (M. Bontempi trad.). Verona: Ombre corte (edizione originale 1963).
Kimberly D. Phillips Dr., Kyong-Ah Kwon, The Impact of Parenting Classes on Incarcerated Mothers, Journal of prison education and reentry, Volume 7, Number 3 (2021-2022) ISSN: 2387-2306
Mancaniello, M. (2017), La professionalità educativa in ambito penitenziario: l’Educatore e il suo ruolo pedagogico. Studi sulla Formazione: 20, 365-374, 2017-2. DOI: 10.13128/Studi_Formaz-22193 | ISSN 2036-6981 (online)
Michelucci G. (1983), Sollicciano crisi di un progetto o crisi della riforma? Conversazione tra Giovanni Michelucci e due dei progettisti del nuovo carcere giudiziario di Sollicciano, Gilberto Campani e Carlo Inghirami, in “La nuova città”, n.1, IV serie, aprile 1983, ora in Michelucci, G., (1993) Un fossile chiamato carcere, scritti sul carcere, (a cura di Marcetti C., Solimano N. Angelo) Firenze: Pontecorboli Editore.
Omero, (2018), Odissea, (M. G. Ciani, E. Avezzù trad.). Milano: edizione Feltrinelli 
Volpini L., Mannello T., De Leo G. (2008), La valutazione del rischio di recidiva da parte degli autori di reato: una proposta, in: “Rassegna penitenziaria e criminologica”. – ISSN 0392-7156. – 1:(2008): 147-161.
Zizioli, E. (2017), Voices of immigrant women from prison,  in “Pedagogia oggi”, XV (1): 251-262
Zizioli, E., Colla, E. (2016), Il diritto di rinascere nel tempo della pena: lo spazio della formazione, in “CQIA Rivista” VI (17): 63-73
Linkografia
https://ristretti.org/firenze-detenuto-si-impicca-cronaca-di-un-suicidio-annunciato.
https://corrierefiorentino.corriere.it/notizie/cronaca/23_luglio_27/firenze-suicidio-nel-carcere-di-sollicciano-mio-padre-poteva-essere-salvato-84caaab4-2135-4f99-96f6-e1909862bxlk.shtml?refresh_ce
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Sabina Leoncini, antropologa, è Dottore di Ricerca in Scienze della Formazione. Il suo principale ambito di interessi è l’educazione mista in Israele/Palestina; si è occupata anche del significato socio-culturale del muro che separa Israele e Cisgiordania. Attualmente si occupa di inclusione sociale. Ha collaborato con alcune Università straniere tra le quali l’università Ebraica di Gerusalemme (HUJI), l’Istituto Universitario Europeo (EUI) di Fiesole, l’Università Ludwig Maximilian (LMU) di Monaco.  Ha usufruito di varie borse di studio (MAE, DAAD) e partecipato a progetti ministeriali tra cui PON e progetti europei, in particolare all’interno del programma Erasmus Plus per i quali è stata referente. Attualmente insegna Scienze umane alla scuola superiore.

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