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Dai ‘Britalians’ alla Brexit: ripensando all’emigrazione italiana nel Regno Unito

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Da Street life in London 1877, di John Thomson e Adolphe Smith (@Creative Commons)

di Alessio D’Angelo, Franco Pittau, Antonio Ricci

Introduzione

L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, divenuta effettiva all’inizio del 2021 dopo oltre quattro anni di faticose negoziazioni, ha segnato una drammatica frattura nel processo di integrazione del Vecchio Continente – una frattura dovuta in parte consistente alle forti resistenze politiche circa la libertà di movimento intra-europea. Da questo punto di vita, la cosiddetta ‘Brexit’ rappresenta anche un’occasione importante per riflettere sulla storia antica e recente dell’emigrazione italiana e sugli insegnamenti che se ne possono derivare. Sebbene per lungo tempo minoritaria dal punto di vista numerico, la presenza di popolazioni di origine italiana nelle isole Britanniche – i cosiddetti ‘Britalians’ – hanno giocato un ruolo importantissimo dal punto di vista storico, economico e culturale, configurandosi come un interessante caso studio per quanto riguarda i processi di integrazione e la ridefinizione delle identità nazionali nell’ambito di processi storici complessi.

Guardando ai dati statistici, è solo dopo la Seconda guerra mondiale che i flussi migratori italiani cominciano a farsi consistenti, realizzati anche tramite arruolamenti collettivi, e tuttavia distanti dalle dimensioni di massa riscontrabili nei flussi diretti verso altri Paesi europei. Paradossalmente la maggiore rilevanza quantitativa del polo britannico si è avuta quando, dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, si sono moltiplicati prima la presenza sul posto per lo studio della lingua inglese e poi i flussi di personale qualificato o meno nell’area londinese, specialmente nel corso degli anni Duemila.

In diversi altri Paesi di destinazione, in Europa e oltreoceano, la riflessione sulla presenza italiana emerse quando si percepì la loro rilevante numerosità, che poneva gli italiani al primo posto tra gli immigrati. Nel Regno Unito, come indicheremo, la percezione di una presenza italiana significativa richiamò l’attenzione solo negli anni ’60 del secolo scorso e in alcune città di grandezza media. In questo breve saggio, condotto sotto l’ottica dell’integrazione, è stato da noi considerato un caso di interessante studio, anche per le problematiche che comportò e i relativi insegnamenti.

Un confronto più massiccio si ebbe paradossalmente (in considerazione degli eventi che lo determinarono) quando alcune centinaia di migliaia di soldati catturati dalle forze alleate passarono la loro prigionia in terra britannica, lavorando quindi a contatto con la popolazione locale. Un altro contatto, temporalmente più limitato e comunque non irrilevante nei suoi effetti, è quello degli studenti, che si recano a Londra e in altri centri, per gli effetti che comporta a livello professionale e di progettazione della propria vita. Infine, essendo diventata la Gran Bretagna uno dei maggiori sbocchi dei flussi attuali di professionisti affermati e di giovani che hanno beneficiato di un livello d’istruzione superiore, l’attenzione ai fatti storici va congiunta con la riflessione sulla fase attuale.

Questo breve saggio non solo descrive quanto è avvenuto, ma cerca anche di interpretarlo, ed essendo imperniato sul criterio dell’integrazione come prima richiamato, evidenzia aspetti meritevoli di essere presi in considerazione in profondità, andando oltre la visione più immediata di quanto avvenuto.

La nostra riflessione si compone di un insieme di spunti storici, politici, culturali, sociologici, legislativi e statistici, ritenuti utili per descrivere la cornice dell’emigrazione italiana in Gran Bretagna: per questi spunti, ai quali ci siamo rifatti con la nostra linea interpretativa, siamo debitori a molti autori, ben al di là da quanto appaia nella succinta bibliografia. Abbiamo quindi ripreso, oltre a nostri precedenti contributi sul caso della Gran Bretagna e delle migrazioni qualificate, il frutto della nostra collaborazione con il Centro Studi e Ricerche Idos per quanto riguarda gli aspetti statistici e l’integrazione. L’auspicio è che la lettura del caso britannico sia stato reso da noi stimolante per cogliere nel passato lezioni che siano d’aiuto per il presente, portando a ripartire equamente le responsabilità tra Paese di origine, Paese di insediamento e gli stessi migranti.

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Vigilio Collini con i figli e il loro camioncino da arrotini a Londra, 1919 (Fondazione Museo storico del Trentino)

I flussi verso la Gran Bretagna nei secoli passati

Nel lontano passato, come posto in evidenza da un’interessante nota curata dall’Ambasciata d’Italia a Londra [1], non mancarono i contatti dell’Italia con quella grande Isola oggi nota come Gran Bretagna. Dopo la caduta dell’Impero Romano, che ebbe con la Britannia un rapporto di conquista, e l’affermazione del cristianesimo, vi si recarono i monaci e si svilupparono frequenti contatti durante il Medioevo, quando l’autorità del papa di Roma si era affermata, anche se non sempre sussisteva la sintonia tra il Pontefice e i regnanti su diverse questioni. Ad esempio, Sant’Anselmo d’Aosta (1033/1034-1109) fu monaco e abate, apprezzato al suo tempo (e anche in seguito) per le sue qualità di teologo e filosofo, convinto assertore della necessità di far riferimento alla ragione nell’affrontare le questioni teologiche. Anselmo, molto apprezzato anche per le sue qualità di mediatore, a 60 anni fu chiamato a ricoprire l’importante carica di arcivescovo di Canterbury e a trovare un compromesso tra il papa e la corona d’Inghilterra sul tema delle investiture, obiettivo che effettivamente conseguì.

Dopo che nel 1290 re Edoardo I espulse dal regno gli ebrei, i lombardi ne rilevarono l’attività creditizia, dando avvio ad un sistema bancario moderno, come tuttora ricorda la Lombard Street, collocata nel cuore della City. Durante il Rinascimento gli italiani recatisi a Londra si stabilirono attorno a Lombard Street. Poi arrivarono artisti e musicisti, specialmente tra le metà del XV e la metà del XVI secolo durante il regno dei Tudor. Va ricordato che il navigatore veneziano Giovanni Caboto (1477-1577) si mise a disposizione della corona inglese, che si mostrò pronta a realizzare la sua strategia di conquista delle nuove terre.

L’arrivo di intellettuali e artisti continuò anche in seguito. Nel XVIII secolo, soggiornò per una decina d’anni (1745-1756) a Londra il pittore veneziano Antonio Canaletto, che si stabilì a Soho, diventato poi il quartiere popolare degli italiani. Nel 1790, arrivò a Londra Gaetano Pontieri, il segretario di Vittorio Alfieri, che tradusse in italiano diverse opere inglesi. I discendenti di Pontieri ebbero una grande fama come letterati, poeti, artisti e anche uomini d’affari: ne fu un chiaro esempio il livornese Moses Montefiore, che operò come imprenditore e filantropo nel corso dell’Ottocento (morì nel 1885).

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L’arrotino Domenico Vidi di Pinzolo a Londra, 1924 (Fondazione Museo storico del Trentino)

I flussi d’élite e proletari tra il Settecento e l’Ottocento

In questo periodo la presenza italiana divenne più consistente, si concentrò specialmente a Londra e si presentò sotto un duplice aspetto: quello delle persone istruite (gli esuli) e di altre benestanti e affermate, e quello dei miseri popolani che per sopravvivere si arrangiavano.

Nel XIX secolo Londra fu un rifugio per quanti si opponevano alla restaurazione in Europa. Qui trovarono riparo patrioti, rivoluzionari socialisti, massoni e avventurieri. In città si respirava un’aria di libertà, e si stava protetti dall’anonimato, ma non si superava del tutto la nostalgia della propria terra e si era molto spesso alle prese con l’isolamento e le difficoltà della sopravvivenza. Erano pochi quelli ammessi nei salotti aristocratici, mentre gli altri si dovevano accontentare di una sistemazione presso miseri alberghi basso costo [2].

Un italiano che riuscì ad affermarsi fu Antonio Panizzi (1797-1879), che lavorò presso il British Museum, diventandone direttore. Va ricordato anche l’arrivo di Ugo Foscolo (1778-1827), uno tra i più grandi letterati italiani tra il XVII e il XIX secolo. Il poeta, di idee liberali, fu costretto a fuggire in esilio in diversi Paesi. Egli poté evitare l’estradizione dalla Svizzera all’Austria perché l’ambasciatore inglese gli concesse un salvacondotto per recarsi Londra, dove giunse nel 1816. Accolto con favore nei circoli letterari, grazie alla fama che lo aveva preceduto, conobbe una visibile attenuazione della simpatia nei suoi confronti, dovuta al suo brusco carattere. Inizialmente il poeta riuscì a guadagnare bene e si fece costruire una villa lussuosa, Quindi la sua prodigalità nelle spese gli fece sperimentare le ristrettezze e anche il carcere, seppure per breve tempo. Un alto tenore di vita non gli era più possibile e si ritirò, pieno di debiti, in uno dei quartieri più economici della città, dove fu assistito fino alla morte da una figlia adottiva, della quale aveva dissipato il patrimonio. Da ultimo, Foscolo insegnò italiano presso un istituto femminile e si candidò per la cattedra d’italiano presso l’università di Londra, ma lo colse prima la morte (pare per tubercolosi).

Un altro esule illustre fu il genovese Giuseppe Mazzini (1805-1872), che dal 1840 al 1868 fece di Londra il centro della sua attività patriottica. La sua vita nella capitale inglese e il suo ardente desiderio di promuovere un’Italia unita (è per questo motivo considerato un “cospiratore” dai regnanti dell’epoca) è stata ricostruita con minuzia di particolari [3]. A differenza degli altri esuli, egli si occupò anche della locale comunità dei connazionali, per la quale fondò una scuola in lingua italiana [4]. Mazzini trascorse il suo lungo soggiorno londinese presso il Sablonie Hotel, un albergo, ora scomparso, nei pressi di Leicester Square. L’albergo era gestito da Carlo Pagliano, un emigrato generoso che ospitò molti altri italiani, tra i quali Ugo Foscolo. A Londra, nel 1864, Mazzini accolse Giuseppe Garibaldi e con lui rivolse un discorso ai numerosi italiani che si erano radunati.

Per gli esuli italiani non era facile adattarsi al nuovo ambiente. Al riguardo sono indicative le considerazioni formulate da Mazzini quando fece la sua prima esperienza di un inverno londinese. Si stupì che le luci venissero accese nelle strade già nel primo pomeriggio e constatò che il cielo era in maniera persistente oscurato, pesando come una cappa grigia. Alle condizioni climatiche si aggiungeva la scarsa qualità del cibo. Naturalmente, queste difficoltà pesarono ancor di più su quegli emigrati italiani che si erano recati a Londra per sfuggire alla miseria e che per sopravvivere si arrangiavano in qualche modo.

Tra la fine del Settecento e l’Ottocento si determinarono dall’Italia diversi flussi migratori di proletari, originari del territorio centro-settentrionale, accomunati dalla provenienza dalle fasce deboli della popolazione. Tra costoro si annoverano i venditori ambulanti di statuette di gesso e di altri articoli provenienti dalle valli del comasco; i figurinai della Lucchesia [5], gli esibitori di animali ammaestrati e suonatori di organetto meccanico spostatisi dalle valli del parmense; i musicanti di strada con l’organetto e i ciociari della Valle del Liri, nella prossimità di Frosinone. Il flusso di questi ultimi avvenne tardivamente rispetto agli altri tre gruppi dopo che le guerre napoleoniche avevano scosso il tradizionale panorama sociale ed economico del continente europeo.

Nel periodo della restaurazione non solo aumentarono gli esuli politici ma si incrementò la spinta all’esodo dei proletari, che assunse un carattere a più lunga portata e spesso permanente. Il primo insediamento avvenne nel quartiere popolare londinese di Clerkenwell, a ridosso del centro cittadino e quindi più agevolmente raggiungibile per lo svolgimento di varie attività.

Di questa presenza popolare si occuparono poco gli esuli politici (Mazzini costituì un’eccezione) e peraltro il clero vedeva di cattivo occhio lo svolgimento tra gli emigrati di un’attività ispirata alle idee liberali. Mazzini nel 1841 fondò una scuola gratuita per gli italiani, che fu attiva fino al 1848, quando egli ritornò in Italia. A questa scuola fu affiancata (e, per diversi aspetti, contrapposta) quella creata dal Regno sardo. Successivamente, il censimento del 1861 [6] accreditò in tutto il Paese la presenza di 4.608 italiani, di cui 2.000 a Londra. Tra di essi, a operare come street musicians erano ben 900, la categoria più numerosa. La collettività italiana continuò ad aumentare diventando quattro volte più consistente alla fine del secolo.

Iniziò, con la mutata composizione della collettività, la formazione, nella popolazione locale, di una prima immagine negativa della nuova presenza italiana, diventata ormai di estrazione popolare e ben lontana dal livello d’istruzione della ristretta cerchia degli esuli politici e dalla rispettosa ammirazione riservata nel passato da parte dei rappresentanti più illustri negli ambiti economico, culturale, artistico, religioso. I nuovi membri della collettività italiana erano in prevalenza girovaghi, dediti a lavori precari, interessati a una presenza temporanea e concentrati nelle stradine del quartiere di Holborn. Quando le autorità presero provvedimenti per la demolizione degli slums   la Little Italy nata sul posto fu ridimensionata.

Mal visti dalla popolazione, gli italiani erano accusati di imperversare tra i passanti del centro con i loro fastidiosi organetti e di costringere gli adolescenti a seguirli, di vivere ammassati nelle loro abitazioni e in pessime condizioni igieniche: uno stato di disagio che impressionò anche Mazzini. La povertà, unitamente all’umiltà delle occupazioni, influiva su un pregiudizio negativo, appesantito dal riscontro di altre differenze. Le condizioni dettate dal bisogno avevano messo a contatto, bruscamente, due mondi molto diversi.

Una legge restrittiva nei loro confronti venne approvata nel 1884, rafforzata da successive disposizioni, peraltro con un esito non del tutto soddisfacente. Un cambiamento più sostanziale si constatò verso la fine dell’Ottocento, quando gli italiani ritennero più conveniente astenersi dalle attività girovaghe per svolgere altre attività come il piccolo commercio di prodotti alimentari, la vendita ambulante dei gelati e lo svolgimento di diverse mansioni nei servizi di ristorazione. In questo periodo nella capitale, dove viveva quasi la metà della collettività (ormai presente in tutto il Paese), la centrale zona di Soho divenne il secondo quartiere italiano.

I giovani soli, spessi assunti come camerieri, si riunivano nei loro club ed erano mal visti dalla popolazione per le loro risse (con feriti e anche morti). Erano accusati di praticare il gioco d’azzardo e la distillazione illegale di prodotti alcolici. Si diffuse nell’immaginario collettivo l’idea dell’italiano come persona violenta. La diffidenza era alimentata anche dal timore che questi affollamenti potessero favorire la diffusione delle idee anarchiche, che, in effetti, attraverso la comunità italiana circolarono a Londra. Per un certo tempo, operò anche Enrico Malatesta (1853-1932), il più significativo rappresentante del pensiero libertario in Italia, amico di Bakunin e di Proudhon, che passò gran parte della sua vita in carcere o in esilio. Nel 1881 egli organizzò a Londra, con Kropotkin, il Congresso Internazionale Socialista Rivoluzionario [7].

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Italiani internati nei campi in Gran Bretagna, 1945 (@Creative Commons)

Gli italiani in Gran Bretagna nella prima metà del Novecento

Al censimento del 1900 gli italiani furono 24.383 in tutto il Paese e questo aumento assai contenuto attesta che la destinazione britannica non era diventata una scelta preferita nel periodo della grande emigrazione italiana. L’andamento fu simile anche nel nuovo secolo, sia prima che durante il fascismo. Agli inizi del Novecento molti italiani, già presenti nel Regno Unito, iniziarono a operare, specialmente a Londra, nel settore della ristorazione, come gestori di ristoranti, bar e pasticcerie, come commercianti di alimentari o come venditori ambulanti di gelati, mentre le altre attività dei girovaghi andarono diventando sempre più rare. Come figura di lavoratore dipendente era molto diffusa quella del cameriere. Conobbe un incremento anche la ricomposizione familiare e, di conseguenza, aumentò l’incidenza delle donne. Inoltre, aumentarono le presenze di meridionali: ad esempio, i gelatai, oltre a provenire dalla Ciociaria o da Roma, erano anche napoletani [8].

Questo cambiamento era di per sé in grado di attenuare l’immagine negativa dell’italiano girovago, dedito a lavori precari e spesso fastidiosi e si accompagnò anche all’affermazione di qualche esponente delle incipienti seconde generazioni. Ad esempio, Louis Charles Colasanti fu inizialmente professore di letteratura e lingua persiana presso l’Università di Manchester e, quindi, vescovo della diocesi cattolica di Salford dal 1903 al 1925. Tuttavia, i cambiamenti occupazionali prima richiamati non furono un elemento positivo risolutivo e l’immagine dell’italiano, specialmente a Londra, continuò ad essere avvicinata a quello del violento. Come prima anticipato, influì, al riguardo, la forte presenza a Londra di giovani soli, spesso operanti come camerieri, che si radunavano nei club italiani, dove praticavano il gioco d’azzardo, distillavano alcolici senza autorizzazione, si abbandonavano a risse spesso con feriti e anche morti: una immagine per di più dannosa rispetto a quella legata ai lavori marginali.

L’impatto negativo sulla rappresentazione dell’italiano conobbe un peggioramento a causa dell’entrata in guerra dell’Italia. Alla vigilia della Prima guerra mondiale gli italiani erano circa 25 mila dei quali circa la metà a Londra e 4 mila in Scozia. Tra di essi i lavoratori erano così ripartiti: 1.600 camerieri, 900 cuochi, 1.000 lavoratori d’albergo, 1.400 fornai e 500 proprietari di caffè. Il protagonismo degli italiani nei quartieri londinesi di Holborn e di Soho, con i loro locali e i loro negozi, si sarebbe poi diffuso in tutta Londra, come anche in altre città, grazie alle rivendite di fish&chips e dei gelati [9].

Nel dopoguerra, in un contesto europeo maggiormente portato alle restrizioni, la Gran Bretagna approvò l’Aliens Order, che faceva obbligo di munirsi di un permesso di lavoro, concesso però solo dopo aver salvaguardato la priorità degli autoctoni nell’accesso ai posti disponibili: gli italiani, essendo piccoli imprenditori, riuscirono a sopravvivere meglio alla “Grande depressione” e a far arrivare comunque parenti e amici. Nel periodo fascista i flussi si ridussero drasticamente, sia per l’andamento economico generale (basti ricordare la grande depressione mondiale del 1927), sia per la contrarietà del regime all’esodo degli “emigranti” (termine al quale fu preferita la dizione di “italiani nel mondo”), mentre si incrementava quello nelle colonie italiane. Nello stesso periodo aumentò, invece, la fuoruscita di esuli antifascisti in diversi Paesi europei e anche in Gran Bretagna.

 Nel 1921, a seguito di una decisione personale di Mussolini (che la definì «la casa primogenita all’estero»), fu aperta una sezione del fascio a Londra. La struttura si rese molto attiva fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale su impulso dell’ambasciatore Dino Grandi e di due professori di italiano all’Università di Londra (Camillo Pellizzi e Antonio Cippico). Gli emigrati, inizialmente guardinghi, poi si lasciarono attrarre, a detta dello studioso Lucio Sponza più per patriottismo che per apprezzamento dell’ideologia. Da parte sua il regime non mancò di sostenere l’apertura di scuole italiane (se ne contarono 11), consultori familiari, organismi di beneficenza e le tante apprezzate colonie marine o montane in Italia. Influirono sull’atteggiamento positivo nei confronti del fascismo l’adesione di Guglielmo Marconi, residente a Londra, e la firma dei Patti Lateranensi con il Vaticano, che fecero guadagnare a Mussolini un grande prestigio. Lo stesso Churchill ebbe inizialmente un atteggiamento positivo, modificato quando fu palese il carattere autoritario del regime e ancor di più dopo la sua entrata in guerra, a fianco dei nazisti, il 10 giugno 1940. A quel punto si parlò di Italian enemy aliens.

Durante il fascismo, la Gran Bretagna fu un rifugio sicuro per molti esuli antifascisti, tra i quali si possono citare alcuni nomi famosi: l’economista Piero Sraffa (1898-1983), invitato da Keynes presso l’università di Cambridge, rimanendovi anche alla fine della guerra; l’accademico Guido Pontecorvo (1907-1999), fratello del regista Gillo, espulso dall’Università di Firenze nel 1938 a causa della sua discendenza ebraica e accolto nelle università di Edimburgo e di Glasgow come docente sui temi riguardanti la genetica e la zoologia; Arnaldo Momigliano (1908-1987), esperto della storiografia antica, estromesso dall’università di Torino in applicazione delle leggi razziali e accolto nell’Università di Oxford. Furono diversi gli speaker italiani inseriti nelle trasmissioni di Radio Londra (BBC), iniziate nel mese di settembre del 1943. Questo servizio contribuì ad alimentare il sentimento antifascista e, tramite i messaggi in codice, a sostenere le lotte dei partigiani in appoggio alle forze alleate impegnate nella campagna d’Italia (1943-1945).

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Italiani internati nei campi in Gran Bretagna, 1945 (@Creative Commons)

Nella comunità italiana, che per motivazioni patriottiche ritenne di dover essere più vicina al fascismo, non mancò, comunque, una parte contraria al regime. Fu un gruppo di residenti nel quartiere di Soho a dare vita, nel 1922, al primo nucleo antifascista nella capitale e a richiamare l’attenzione sul pericolo rappresentato dall’ideologia fascista. Di questo gruppo la persona più conosciuta fu il torinese Silvio Coiro, d’ispirazione anarchico-socialista, compagno della più nota suffragetta Sylvia Pankhurst (1882-1960), attiva non solo nelle campagne femministe per il diritto di voto, ma anche per il conseguimento di diversi obiettivi umanitari. Gli oppositori al fascismo erano sotto il continuo controllo della potente e diffusa polizia segreta fascista (OVRA), come è stato messo in evidenza dalla mostra Dangerous characters in London’s Little Italy: fascists, anti-fascists, sufragettes and spies, curata nel 2015 dalle sedi londinesi dell’ANPI e dell’INCA nel Regno Unito.

Le preoccupazioni inglesi di fronte alle mire della Germania nazista, con cui l’Italia si era schierata, indussero i governanti britannici ad attuare misure restrittive nei confronti di 4.500 italiani, ritenuti simpatizzanti del fascismo, sia a Londra che in altre città e anche in diversi piccoli comuni: gli internati furono una rilevante quota della ridotta collettività italiana. Con questa misura precauzionale fu colpito anche, per sbaglio, qualche noto antifascista o qualche capofamiglia che aveva il figlio al fronte con gli altri soldati britannici. Si ritenne che un luogo di custodia più sicuro potesse essere il Canada e perciò si pensò di imbarcare un contingente di internati sul transatlantico Arandora Star che non recava l’insegna della Croce Rossa (ma probabilmente sarebbe stato attaccato lo stesso), e fu silurato e affondato da un sommergibile tedesco il 30 giugno 1940: vi trovarono la morte 446 italiani su 717 che erano stati imbarcati insieme a prigionieri tedeschi e austriaci, che parimenti subirono delle perdite. Per evitare i pericoli del trasferimento via mare, gli altri internati vennero custoditi nell’isola di Man, dopo aver requisito alberghi e pensioni. L’accettazione di lavorare per il governo britannico avrebbe consentito di sottrarsi all’internamento, ma molti rifiutarono, più per patriottismo che per adesione al fascismo come prima accennato. In questa contingenza l’inoperosità obbligata dei maschi favorì l’emancipazione e il dinamismo delle donne italiane. Dopo la firma dell’armistizio di settembre 1943 con gli Alleati il regime dell’internamento fu mitigato, ma il periodo bellico rappresentò comunque una ferita dolorosa nella storia della collettività, essendo molti soldati italiani fatti prigionieri e internati in Gran Bretagna.

Di per sé la Convenzione di Ginevra del 1929 avrebbe dovuto dissuadere dalla custodia in una zona di guerra, come lo era la Gran Bretagna, continuamente esposta ai bombardamenti, ma il governo preferì questa soluzione perché aveva bisogno di manodopera, specialmente in agricoltura. Si iniziò con la deportazione dei soldati catturati nella campagna d’Africa e alla fine del conflitto si contarono in Gran Bretagna ben 250 mila prigionieri italiani. Fu questa la prima occasione di un contatto di massa tra la popolazione britannica e quella italiana e, nonostante le particolari condizioni in cui avvenne, l’esito fu alla fine positivo. Talvolta, si rafforzarono i pregiudizi contro gli italiani, ma in maniera più diffusa più stretti contatti favorirono sentimenti di reciproco apprezzamento e amicizia. Spesso, infatti, i prigionieri erano assegnati alle aziende, presso le quali andarono a risiedere, per cui i contatti divennero più ravvicinati e meno superficiali. Per la prima volta si trovarono, nel Paese, italiani di tutte le regioni, e in particolare del Meridione, come sarebbe avvenuto nell’immediato dopoguerra anche per i flussi lavorativi [10].

A questo periodo si ricollega un piacevole aneddoto, svoltosi in Scozia. Qui un gruppo di questi. Finita la guerra molti avrebbero voluto mantenere gli italiani a lavorare sul posto, ma il governo concesse l’autorizzazione solo per 1.500 casi: comunque, molti ex prigionieri ritornarono dopo nel Paese come normali migranti. Nel corso della prima metà del Novecento la presenza italiana in Gran Bretagna, che pure sembrava ben avviata con il superamento dei lavori ambulanti, non conobbe tuttavia un apprezzabile sviluppo né sotto l’aspetto quantitativo né sul piano dell’apprezzamento e lasciava intendere che un atteggiamento non benevolo nei confronti degli italiani avrebbe pesato anche del dopoguerra, come in effetti avvenne.

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Lombard Street, Londra (@Creative Commons)

Gli italiani nel Regno Unito nella seconda metà del Novecento

Nella prima fase il Regno Unito conobbe per la prima volta una intensa immigrazione di italiani. Al censimento del 1951 gli italiani residenti furono 34 mila per oltre il 60% donne (per la prima volta in maggioranza): l’incremento si attuò per due decenni secondo ritmi prima sconosciuti. Ad arrivare per prime furono diverse centinaia di donne italiane, unitesi in matrimonio con militari britannici durante il periodo delle operazioni belliche in Italia e conosciute come “le sposine di guerra”.

Negli anni ’50 e ’60 le partenze degli italiani per il Regno Unito si aggirarono, annualmente, tra un minimo di 3.500 unità e punte di 10 mila unità. Le persone coinvolte, tra il 1948 e il 1968, furono circa 150 mila con la prevalenza dei meridionali (in particolare dalla Campania, dove a Napoli fu istituito un centro di arruolamento), dalla Calabria e dalla Sicilia. La collettività italiana andò assumendo una nuova fisionomia, anche dal punto di vista della ripartizione territoriale: la quota di pertinenza di Londra scese dalla metà a un quarto [11]. Da notare, poi, che circa il 20% dei nuovi arrivati fece ritorno in Italia, mentre gli altri si adattarono alla prospettiva di un inserimento stabile sul posto, come era desumibile anche dalla diminuzione delle rimesse e dalla ricomposizione delle famiglie. Al censimento del 1961 gli italiani furono 81.327 e, mentre continuarono gli arrivi nel corso di quel decennio, dagli anni ’70 i flussi diminuirono fortemente.

Nell’immediato dopoguerra, alla ripresa dei flussi, la comunità italiana era abbastanza chiusa nelle sue realtà familiari e nelle sue forme associative etniche, completate da uno stretto riferimento alle Missioni Cattoliche Italiane. Nel Paese era palese il fabbisogno di manodopera straniera, necessaria per riprendere lo sviluppo nei diversi settori, ma non altrettanto ampia era l’apertura della popolazione locale all’accoglienza dei lavoratori stranieri, così come talvolta lo fu lo stesso sindacato: ad esempio, sull’inserimento degli italiani nelle miniere di carbone, auspicato dagli imprenditori e dal governo, si pronunciarono contro i rappresentanti sindacali e perciò non si diede corso all’ipotesi di arruolamento degli italiani.

Si procedette su un duplice binario: sia attraverso i canali attivati dalle catene familiari e amicali, che aiutavano a trovare i posti di lavoro e, quindi, ad ottenere il permesso di lavoro; sia attraverso gli arruolamenti collettivi, organizzati dalle aziende e concordati con le autorità ministeriali dei due Paesi, consentendo così ai lavoratori di fruire del passaggio gratuito, opportunità molto apprezzata in quella fase di grande miseria. L’afflusso degli italiani, pur notevolmente aumentato rispetto al passato, era pur sempre ridotto rispetto ai flussi diretti in altri Paesi: quello britannico continuò a essere uno sbocco secondario nel quadro complessivo dell’emigrazione italiana: come vedremo, solo negli anni Duemila la destinazione britannica sarebbe diventata uno sbocco prevalente.

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Wandsworth Bridge Road Caffè Nero (@Creative commons)

L’area metropolitana londinese continuò a essere di grande attrazione, unitamente ad alcune aree industriali non molto lontane dalla capitale, ma furono diverse anche le altre destinazioni. In quel periodo a Londra fu maggiore il protagonismo degli italiani, specialmente nei comparti della ristorazione, del turismo e del commercio, ad opera degli emigrati insediatisi in precedenza e dei newcomers (per una parte di questi ultimi l’esperienza fu temporanea). Per il lavoro nelle fabbriche furono i meridionali che si resero maggiormente disponibili, specialmente nelle aree di produzione di laterizi, che verranno qui di seguito prese in considerazione per gli inconvenienti che insorsero a livello di relazioni sociali.

Nella seconda fase, che incluse gli anni ’70 e i due decenni successivi, gli espatri degli italiani prima diminuirono, poi cambiarono i protagonisti ed emersero i fattori che avrebbero collocato la Gran Bretagna al vertice come sbocco migratorio per gli italiani. A spostarsi furono, in prevalenza, persone interessate ai ricongiungimenti familiari o anche singole persone decise a tentare l’esperienza britannica, spesso dopo avervi trascorso in precedenza soggiorno di studio. Iniziò lentamente in questa seconda fase, per poi ingrandirsi sempre più, l’attrazione di Londra e di altre città britanniche, come sede privilegiata per apprendere o perfezionare la lingua inglese e anche per frequentare le diverse università di prestigio (si pensi al rinomato “triangolo d’oro” universitario Londra-Cambridge-Oxford). Sebbene il Regno Unito fosse entrato nella Comunità verso la metà degli anni ’70, è solo a partire dagli anni ’80 e, ancor più, ’90 che il Paese assunse un ruolo dominante nello spazio culturale e professionale europeo, diventando una meta privilegiata per programmi di studio (tra cui l’Erasmus) per i giovani studenti e professionisti italiani. Lo sbocco migratorio britannico, che era stato prima marginale, si preparava così a diventare prioritario; sebbene, dal punto di vista del Regno Unito, questa componente rimase numericamente minoritaria, in un sistema migratorio caratterizzato in gran parte da migrazioni di natura post-coloniale, di arrivi dal Commonwealth Britannico e da richiedenti asilo.

71euwa0byolIl caso di Bedford

Nella storia dell’emigrazione italiana del Novecento la cittadina di Bedford ricopre un ruolo particolarmente significativo. Negli anni ’50, flussi di una certa consistenza si diressero dal Meridione d’Italia verso questo centro al nord di Londra, che allora contava circa 50 mila residenti, poi aumentati a seguito dell’arrivo degli immigrati. Bedford era importante per la concentrazione delle fabbriche di laterizi, che per far fronte alla ricostruzione postbellica abbisognavano di numeroso personale, non del tutto rinvenibile sul posto.

Gli italiani iniziarono ad arrivare nel 1951 nell’ambito di una campagna di assunzioni, organizzata dagli industriali del settore in collegamento con i Ministeri del lavoro dei due Paesi. Il ricorso agli italiani non fu la prima scelta. Si cercò di rimediare alla mancanza di manodopera necessaria, prima utilizzando i prigionieri di guerra e poi i rifugiati (molti dei quali polacchi già presenti sul territorio). Quindi, si cercò di coinvolgere gli irlandesi, che però resistettero poco tempo nello svolgimento di lavori così gravosi. Infine, si pensò agli italiani, che qui avevano già lavorato come prigionieri di guerra.

Le aziende, con una scelta controcorrente, individuarono i meridionali come gli operai adatti a rispondere alle loro esigenze. Infatti, in Svizzera, come in altri Paesi europei, si tendeva a escludere i meridionali dai programmi di emigrazione assistita per la disistima nei loro confronti, che aveva le radici, oltre che nella loro fisionomia (bassi e scuri), anche nella loro scarsa istruzione. Le aziende britanniche aprirono un ufficio a Napoli, dove i lavoratori confluivano e venivano selezionati e non erano poche le persone interessate a trovare un lavoro sicuro all’estero, fruendo di un viaggio gratuito. Tra il 1951 e il 1957 questi reclutamenti collettivi coinvolsero 5.103 italiani. Si ebbe l’accortezza di tenere nella debita considerazione le esigenze culinarie degli italiani e dei primi contingenti facevano parte anche dei cuochi. Al loro arrivo essi furono sistemati lontani dalla città e vicino alle fabbriche, nei capannoni (hostels) dei campi di prigionia. Questa sistemazione abitativa era funzionale alle esigenze delle fabbriche e serviva anche a tenerli lontani dalla città, dove gli autoctoni mostravano di non essere predisposti ad accoglierli.

Il problema della convivenza, evitato fin quando gli italiani vivevano appartati, scoppiò quando essi iniziarono a trasferirsi in città, facendo arrivare anche i loro familiari. Si fece di tutto per evitare la presenza dei congiunti: prima insistendo sulla permanenza negli ostelli, poi rendendo onerose le condizioni per i ricongiungimenti, cercando infine di ovviare alla necessità degli italiani ricorrendo agli ungheresi, obiettivo dal quale si desistette in considerazione dell’elevata produttività assicurata dai primi.

Mentre le aziende continuarono a essere soddisfatte dell’apporto lavorativo degli italiani (lo furono di meno i sindacati per le difficoltà a inquadrarli nell’organizzazione), le autorità comunali di Bedford opposero un netto rifiuto ad accogliere gli italiani all’interno della loro città, facendosi così carico dell’indisponibilità degli autoctoni. Nel giornale locale (Bedfordshire Times) il 4 maggio 1956 fu dato risalto alla dichiarazione del sindaco contro nuove assunzioni, che era già intervenuto presso il Ministero del lavoro per dare un seguito al parere espresso dal Comitato speciale sugli stranieri costituito presso il Consiglio comunale. Agli italiani venivano rimproverate le scarse condizioni di igiene e il sovraffollamento nelle loro abitazioni e la stampa contribuì ad aumentare il malumore.

Il reclutamento degli italiani, bloccato nel 1957, sembrava destinato a essere ripreso quando nel 1959 le aziende dei laterizi si rivolsero al Ministero del lavoro con una esplicita richiesta. Invece, un alto dirigente ministeriale prese posizione in senso contrario, ipotizzando la possibilità di ricorrere in alternativa ai disoccupati del posto e concludendo che sarebbe stato preferibile importare i mattoni dall’estero piuttosto che farli produrre a Bedford dagli italiani. L’ostilità delle autorità locali si era così saldata con la chiusura accanita delle autorità nazionali. Nel mese di dicembre del 1960 le autorità comunali di Bedford riuscirono a bloccare l’assunzione di 200 meridionali, già selezionati in Italia dalle brick companies: ebbero allora fine gli arruolamenti.

Le aziende, in assenza di flussi programmati, ricorsero allora alle catene familiari e amicali degli italiani. Molti, se insoddisfatti di quel lavoro o rimasti disoccupati, si trasferirono a Londra, dove era fiorente l’attività degli italiani. La decisione di sospendere l’arrivo di un contingente già programmato, presa sotto l’insistenza del Comune di Bedford, divenne un caso diplomatico e l’ambasciatore italiano, nel periodo natalizio, si recò sul posto per portare agli operai italiani la sua solidarietà. Il governo italiano, che fu dinamico nelle fasi che portarono all’accordo sul reclutamento, secondo alcuni studiosi non seguì con assiduità le vicende di Bedford, anche se il Consolato e l’Ambasciata si fecero vedere sul posto nei momenti critici, mentre più continua fu la vicinanza dei patronati e della Missione cattolica italiana.

italia-khhd-u80924653411pte-620x349gazzetta-web_articoloDa ultimo bisogna precisare che il comune di Bedford riportò un’effimera vittoria sui reclutamenti, ma non si “liberò” della presenza italiana, che alla fine degli anni ‘70 giunse a incidere per il 10% sui residenti. Quell’esperienza induce a riflettere che una equilibrata compensazione tra costi e benefici dei flussi migratori esclude la semplice e inefficace rimozione dei problemi al posto di una loro assunzione finalizzata all’integrazione. Il susseguirsi dei fatti di Bedford evidenzia che la comunità autoctona fu mossa da un elevato grado di ostilità, che impedì di considerare gli italiani nuovi vicini di casa, tanto meno quando chiesero di vivere con i loro familiari. Pur tenuto conto delle differenze delle abitudini sociali e del livello culturale, quei meridionali erano persone integrabili, come poi testò la storia di chi rimase nell’area.

Anche a questa esperienza si può estendere il giudizio formulato da Max Frisch per la politica migratoria della Svizzera: «Avevamo bisogno di braccia e sono venute delle persone». Gli italiani furono benvenuti fin quando si affaticarono negli altiforni trattenendosi a vivere negli ostelli lontani dal centro città, mentre non lo furono più quando “pretesero”, nonostante le loro vistose sofferenze, di lasciare le baracche per vivere in città.  Questi uomini, con un breve viaggio, avevano fatto un salto nel tempo, passando dalle antiche tradizioni rurali del Meridione a quelle di una città nel vortice dell’industrializzazione con l’unico supporto di una buona salute e tanta voglia di lavorare: questo era il loro unico demerito. Gli autoctoni avevano pensato solo al beneficio immediato della forza lavoro, ma non ai più complessi aspetti socio-culturali. Tra la comunità immigrata da integrare e popolazione autoctona chiamata a integrarla, doveva fungere da collante un concetto d’integrazione integrale, non limitato ai soli aspetti lavorativi.

Negli anni ’70, in Gran Bretagna, sarebbe stato formulato il multiculturalismo, da considerare in un certo senso come l’accettazione di vite parallele delle collettività immigrate dalle diversa culture. In questo caso, però, si trattò di un rifiuto vero e proprio di persone ritenute non integrabili. Questo fu un atteggiamento sbagliato, così come lo fu anche quello degli abitanti delle città del Nord Italia nei confronti dei meridionali che, nello stesso periodo, vi si trasferivano per far funzionare le fabbriche, aggravato dal fatto della condivisione della stessa cittadinanza, mentre nel caso di Bedford vi era la comune appartenenza europea che, al di là della ruvida scorza di chi era povero e aveva studiato poco, comportava dei valori comuni. L’adesione all’UE della Gran Bretagna, avvenuta nel 1972, fece giustizia di queste chiusure di fronte a persone ritenute di livello inferiore, perché l’istituto giuridico della libera circolazione dei lavoratori sul territorio comunitario escludeva per principio tali comportamenti.

Il caso di Peterborough [12]

Nello stesso periodo dell’arrivo degli italiani a Bedford, un’esperienza simile fu quella degli italiani a Peterborough, una cittadina di 53 mila abitanti a meno di 150 km da Londra. Questo centro, che già praticava la produzione dei laterizi nel secolo XVIII, si perfezionò nella loro fabbricazione e ne divenne il centro più importante, sentendo il bisogno di manodopera aggiuntiva nel periodo della ricostruzione a seguito della seconda guerra mondiale. Fu questo il motivo per cui vi si stabilirono gli italiani. Grazie anche al loro apporto, nel corso di un decennio la sua popolazione conobbe un aumento di circa 10 mila unità [13]. Cessati i flussi dall’Italia, iniziò il periodo dell’inserimento caratterizzato dai rapporti tra immigrati e autoctoni più difficili nelle congiunture critiche (ad esempio negli anni ’70) e sempre delicati per quanto riguarda le implicazioni linguistiche. Come per la comunità di Bedford, si può ritenere che anche a Peterborough i problemi siano stati superati con le seconde e terze generazioni.

Presenza di Italiani (nati in Italia) in Gran Bretagna, 1861-2001
Anno
Gran Bretagna
Inghilterra e Galles
Scozia
1861
4.608
4.489
119
1871
5.331
5.063
268
1881
6.832
6.504
328
1891
10.934
9.909
1.025
1901
24.383
20.332
4.051
1911
25.365
20.771
4.594
1921
26.055
20.401
5.654
1932
24.008
18.792
5.216
1951
38.427
33.159
5.268
1961
87.250
81.330
5.920
1971
108.930
103.510
5.420
1991
91.011
87.091
3.920
2001
107.002
102.066
4.936
2011
134,619
Fonte: Centro Studi e Ricerche IDOS. Elaborazioni su dati UK Censis

Una collettività protesa verso una maggiore affermazione

Nella capitale, poi, da parte italiana furono promosse iniziative atte a dimostrare che la presenza italiana non si esauriva solo nell’esercizio del lavoro manuale. Nell’immediato dopoguerra (1949) fu aperto a Londra l’Istituto Italiano di Cultura, promotore di numerose iniziative rivolte alla popolazione locale. Anche allora iniziarono a operare sul posto apprezzate figure di intellettuali. Uno di essi fu Alessandro Passerin d’Entrèves (1902-1985), che diventò titolare della cattedra di studi italiani presso l’università di Oxford, dal 1946 al 1957. Questo intellettuale di origine valdostana, che nel 1922 conseguì nel Regno Unito un dottorato sulla storia del pensiero medioevale, amico di Gobetti e compagno di studi di Norberto Bobbio (che gli successe nel 1972 alla cattedra di filosofia politica a Torino), fu attivo nel Comitato di Liberazione Nazionale e apprezzato docente, oltre che a Oxford anche a Yale.

La promozione culturale non fu solo perseguita ai vertici ma anche tra gli immigrati italiani. Nel 1948 i Missionari Scalabriniani fondarono il periodico quindicinale Voce degli Italiani per seguire le vicende della collettività. Insieme alla stampa fiorì anche l’associazionismo e operarono le strutture di tutela come i patronati. La stampa e l’associazionismo per gli italiani hanno poi conosciuto, anche nel Regno Unito, un forte ridimensionamento, sia per la prevalenza e le caratteristiche dei nuovi arrivati dall’Italia, portatori di nuove esigenze e meno propensi a far parte dell’associazionismo tradizionale, sia per le possibilità di comunicazione offerte da internet, di estrema facilità anche se meno ricorrenti. Lo stile associativo tradizionale degli italiani all’estero, che indubbiamente aveva assicurato dei benefici positivi, è andato perdendo l’incisività tra la fine del secolo scorso e gli anni Duemila a fronte di una realtà migratoria profondamente cambiata.

Una linea di continuità ha, invece, riguardato la propensione imprenditoriale della comunità italiana. Già nel passato diversi italiani si segnalarono anche per il loro impegno imprenditoriale. Come esempio non si può citare Charles Forte (1908-2007), persona di umili origini, di grande gentilezza e di straordinaria capacità organizzativa, che riuscì a creare un impero alberghiero di primaria importanza a livello mondiale e nel 1981 venne nominato baronetto. Con il tempo gli italiani si sono segnalati per una imprenditorialità diffusa, come evidenziato in una ricerca condotta nel 2000 dalla FILEF. Risultava che nel 1995 il 13,7% degli italiani occupati fosse dedito al lavoro autonomo-imprenditoriale attraverso la gestione di piccole imprese, nei due terzi dei casi fondate a partire dagli anni ’70, quando i grandi flussi si erano arrestati. Nel periodo successivo questa vocazione imprenditoriale è andata rafforzandosi anche perché la frequentazione dei ristoranti italiani (nei quali, ormai, i camerieri non sempre sono italiani) fa parte dello stile di vita britannico, come anche l’acquisto di diversi prodotti alimentari italiani.

Anche nell’ambito del lavoro dipendente gli italiani sono pervenuti a livelli soddisfacenti di inserimento. Una ricerca, condotta per conto della Camera di Commercio italiana in Gran Bretagna dall’Associazione Talented Italians in UK, è stata dedicata alla “terza diaspora”, in prevalenza costituita da giovani o comunque da adulti con una buona preparazione. Nella ricerca si legge: «Gli italiani sono presenti in tutti i settori, dalla finanza alla ricerca scientifica, dall’ospitalità al mondo accademico, dall’industria all’edilizia». Non mancano tuttavia i problemi, come quello riguardante innanzitutto la disponibilità degli alloggi, che sono spesso costosi e anche fatiscenti. Per quanto riguarda il settore lavorativo molti posti disponibili sono precari e difficile è l’accesso ai benefici della sicurezza sociale, la retribuzione non di rado non basta a garantire il livello di vita sperato. Anche la via imprenditoriale può rivelarsi ardua. È vero che l’apertura di un’azienda è agevole, ma non lo è altrettanto la sua resa, a causa di una accentuata concorrenza. Neppure è trascurabile la diversità di clima e di regime alimentare, che col tempo può finire col pesare.

Espatriati italiani nel Regno Unito nel periodo 2000-2019
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
3.265
3.586
4.355
4.487
4.805
4.113
5.652
5.117
5.748
5.152
2010
2011
2012
2013
2014
2015
2016
2017
2018
2019
5.046
4.617
6.851
11.484
12.368
16.529
24.796
18.544
20.333
24.891
Fonte: Centro Studi e Ricerche IDOS. Elaborazioni su dati AIRE

figura-1-lbI flussi di massa degli anni Duemila

Gli espatri dall’Italia sono ripresi specialmente dopo la crisi economica del 2008, poiché sono state persistenti le difficoltà incontrate dal sistema italiano nella fase della ripresa. Per contro il Regno Unito, pur a sua volta colpito dal Global crunch, si caratterizzava per un tasso di disoccupazione ancora inferiore alla media europea e, soprattutto per un mercato del lavoro estremamente flessibile, nel quale era relativamente facile inserirsi per lavoratori nuovi arrivati.

I dati registrati dall’Anagrafe dei residenti italiani all’estero attestano che, tra il 2000 e il 2019, sono emigrati dalla penisola complessivamente 192 mila persone per stabilire la loro residenza nella terra d’Albione. Entrando nei dettagli dei dati AIRE, si riscontra che, in questo periodo, gli arrivi sono oscillati tra i 3.000 e i 5.000 all’anno nel primo decennio, per un totale di 46 mila unità. Nel successivo decennio i flussi complessivi sono triplicati (146 mila unità); i numeri iniziali sono stati bassi (5.000/6.000 partenze l’anno), ma poi hanno superato le 20 mila unità nel 2016, per raggiungere un apice mai toccato prima dall’Unità d’Italia ad oggi nel 2019, con 24.891 espatri annuali.

Si può ritenere che, come gli Stati Uniti si sono proposti nel panorama migratorio internazionale come il centro tecnologico di maggiore attrazione, così ha fatto la Gran Bretagna per i migranti qualificati specialmente negli anni Duemila. In questo periodo è ripreso l’esodo dall’Italia, con caratteristiche innovative perché, per lo più, a migrare sono stati i giovani laureati o diplomati. Questo recente esodo si configura come un apprezzabile beneficio per il Regno Unito e in un danno per l’Italia, perché manca la bi-direzionalità negli spostamenti e con una perdita secca di personale qualificato. Si tratta della ben nota questione connotata come “fuga dei cervelli” [14].

italondraLe caratteristiche dell’attuale collettività

Al Censimento del 2011 [15] i residenti nel Regno Unito ma nati in Italia (quindi a prescindere dalla nazionalità) erano 134.619, con un aumento di oltre il 30% rispetto al precedente Censimento del 2001. Alle persone nate in Italia, e poi emigrate, bisogna aggiungere un numero consistente di seconde generazioni. Per contro, incrociando i dati censuari sui Paesi di nascita e la nazionalità, emerge anche come il 15% dei cittadini di nazionalità italiana residenti fossero in un Paese extra-UE, suggerendo una considerevole componente di migrazioni secondarie da parte di persone prima immigrate in Italia e poi trasferitesi nel Regno Unito dopo la naturalizzazione. Secondo le più recenti stime dell’Annual Population Survey, al 2019 la popolazione residente nata in Italia ammontava a 233 mila persone, essendo ormai entrata nella classifica delle dieci più numerose collettività straniere (e dietro a Polonia, Romania, Germania e Irlanda tra quelle europee).

L’Anagrafe degli italiani residenti all’estero accredita una presenza complessiva ancora maggiore: 362.219 persone al 31 dicembre 2019. La quota maggioritaria (i due terzi del totale) spetta alla circoscrizione consolare di Londra, quella che attira maggiormente i nuovi flussi: a seguire le circoscrizioni consolari di Manchester, Bedford ed Edimburgo. Le stime correnti sulla consistenza degli italiani presenti nel Regno Unito sono superiori ai dati dell’AIRE e si ipotizzano fino a 800 mila presenze. A tale riguardo bisogna considerare che, da una parte le iscrizioni all’AIRE, effettuate dagli uffici consolari, possono essere in qualche misura sottodimensionate e, d’altra parte, che occorre tenere presente che la presenza complessiva degli italiani è costituita anche da persone che si trovano sul posto solo temporaneamente, ripromettendosi di iscriversi all’AIRE solo dopo la decisione di insediarsi stabilmente in loco.

Precisato, quindi, che gli iscritti all’AIRE rappresentano la collettività stabile, i relativi dati sono funzionali all’analisi delle sue caratteristiche. Gli iscritti all’AIRE nel 70% dei casi sono emigrati dall’Italia: questo valore percentuale è di 30 punti superiore alla media, calcolata su tutti gli italiani residenti all’estero, e di dieci punti più alto rispetto ai Paesi europei, che sono stati i principali sbocchi dell’emigrazione italiana, come la Germania, la Svizzera, la Francia il Belgio. Gli iscritti all’AIRE per oltre il 50% provengono dal Meridione d’Italia. Gli italiani nati sul posto sono un quinto degli iscritti all’AIRE. Le donne incidono sulla comunità per pochi punti oltre il 50%, superando la media dell’AIRE. Al contrario, è molto ridotta rispetto a tale media l’incidenza percentuale degli over 65, mentre non è distante da un quinto sul totale l’incidenza dei minori.

Questi indicatori statistici attestano che la collettività italiana nel Regno Unito è caratterizzata da un equilibrio demografico e di genere e che il suo rafforzamento è avvenuto per effetto dei consistenti arrivi degli anni Duemila. Un interessante prospettiva circa le caratteristiche della popolazione italiana nel Regno Unito è fornita dalla periodica indagine sulla forza lavoro (Labour Force Survey). L’analisi condotta da D’Angelo e Kofman[16] sui dati del 2014, ad esempio, mostrava un tasso di disoccupazione tra i nati in Italia (3,7%) significativamente più basso che tra i nati in UK (6,0%), nonché una maggiore occupazione nei settori più qualificati. Ben il 46% dei lavoratori italiani svolgevano, infatti, un’attività di tipo manageriale o come professionisti altamente qualificati (il dato è del 29% tra i nati in UK). Anche dal punto di vista del livello educativo, tra gli immigrati italiani si registrava una sovra rappresentazione di quelli in possesso di un titolo di studio universitario: ben il 62,5%, quasi il doppio della percentuale registrata tra tutti i residenti nel Paese.  

164607805-26c58c73-c452-4f45-a28e-416190aca27dMigrazione e ‘settlement’ a cavallo della Brexit

Come accennato nei paragrafi introduttivi, i risultati del referendum del 2016 – quando il 52% degli elettori britannici hanno supportato l’idea di far uscire il Paese dall’Unione Europea – hanno rappresentato uno shock per gran parte dell’opinione pubblica internazionale e, in modo particolare, per gli oltre 3 milioni di residenti cittadini di altri Paesi dell’UE. In particolare, tra gli italiani – come evidenziato in un recente studio finanziato dal programma di ricerca ‘Horizon 2020’ [17] – si è spesso registrato un senso di tradimento, persino di rabbia, certo di disorientamento, tra una popolazione che, tradizionalmente, si sentiva relativamente privilegiata e al riparo dai meccanismi di esclusione sociale che caratterizzavano altre comunità di origine extra-europea. La svolta della Brexit, preparata da anni di crescente campagna mediatica contro l’immigrazione in generale e contro le presenze europee in particolare – a cui non si perdonava la possibilità di entrare e stabilirsi nel Paese più o meno liberamente – ha drasticamente ridefinito l’immagine del Regno Unito come spazio aperto nel cuore (culturale, se non geografico) d’Europa.

Le indagini svolte negli ultimi anni tra le comunità italiane in UK mostrano come in molti abbiano considerato un rientro in Italia (o un trasferimento in altri Paesi europei), mentre altri si sono precipitati a regolare la propria posizione. Se le future migrazioni dall’Italia (e dal resto dell’UE) saranno, infatti, soggette alle stesse normative applicate in precedenza ai Paesi terzi, già in vista del referendum il Governo di Westminster si è affrettato a rassicurare che coloro che già si erano insediati nel Paese, beneficiando dei meccanismi di libera circolazione europea, avrebbero potuto rimanere, senza un sostanziale mutamento dei propri diritti. In particolare, nel 2019, l’Home Office ha lanciato il cosiddetto ‘EU settlement scheme’, che consente ai cittadini UE di richiedere e ottenere uno status equivalente ad un permesso di soggiorno a tempo indeterminato, a patto che si possa dimostrare la propria residenza continuativa per almeno cinque anni prima del 31 dicembre 2020. Coloro che sono entrati nel Regno Unito prima di tale data, possono ricevere un ‘pre-settled status di natura temporanea, in attesa di acquisire i requisiti per lo status permanente. Per tutti, il termine per presentare domanda è il 30 giugno 2021. Ad un anno da questa scadenza (30 giugno 2020), le domande presentate da cittadini italiani sono state 372.380 [18]. Diverse organizzazioni, che rappresentano le comunità italiane ed europee, si sono dette preoccupate che il ‘settlement scheme’ rischia di lasciar fuori un numero consistente di cittadini europei, che in molti casi restano ignari delle procedure da seguire o le cui domande vengono rigettate per vizi di forma o inabilità a produrre documentazione adeguata. Alcuni casi di questo tipo hanno avuto una forte eco nella stampa nazionale, e si dovrà aspettare alcuni anni per valutare l’impatto di lungo periodo di questo processo.

Nel frattempo, la Brexit sembra aver prodotto una complessiva riduzione del potere di attrazione del Regno Unito e non caso, subito dopo il referendum si è registrata una significativa riduzione dell’immigrazione netta da tutta l’area UE – a fronte di una crescita degli arrivi extra-europei. D’altro canto, come si è visto nei paragrafi precedenti, il numero di arrivi dall’Italia rimangono consistenti e, secondo i dati dell’AIRE, addirittura in crescita. Segno che la storia dell’emigrazione italiana nel Regno Unito è tutt’altro che conclusa.     

italiani-londra-2Una riflessione d’insieme sul processo d’integrazione degli italiani

Nel periodo prima della guerra mondiale, il Regno Unito fu ben lontano dalla rilevanza, assunta solo in seguito nel panorama degli italiani residenti all’estero. Chiuso il secondo conflitto mondiale, anche questo Paese fu raggiunto dai flussi di lavoratori italiani, comunque in maniera nettamente inferiore rispetto ad altri Paesi europei e d’oltreoceano, e per una durata temporale di circa due decenni. In questo breve periodo, in cui i meridionali furono i maggiori protagonisti, l’accoglienza della popolazione autoctona lasciò molto a desiderare, specialmente in alcune aree come quella di Bedford, dove i comportamenti furono improntati a una mentalità chiusa, riscontrabile anche in altri territori.

Questa costante, che sempre ricorre nella storia dei flussi migratori, espressa in termini commerciali per evidenziarne la durezza, porterebbe a dire che gli immigrati furono una merce che si volle importare con la pretesa di non dover pagare il dazio a livello umano, nel senso che si fu disponibili ad avvalersi delle prestazioni lavorative, ma senza tenere conto delle differenze socio-culturali da integrare con una paziente strategia nel favorire l’adattamento. Il modello di integrazione del multiculturalismo evidenziò concretamente il pericolo che da un certo parallelismo dei modi di vivere si poteva passare a un separatismo vero e proprio tra la collettività italiana e quella locale, nel cui sistema di vita non veniva riconosciuto uno spazio per i nuovi venuti, fatta eccezione per i luoghi di lavoro.

Aiutarono a superare l’iniziale situazione di forte disagio (e, in alcuni casi, anche di aperta contrapposizione tra le due collettività), la cessazione degli arruolamenti collettivi dall’Italia di lavoratori senza le loro famiglie e, specialmente, la decisione del Regno Unito di aderire, nel 1972, alla Comunità Economica Europea, che prevedeva la libera circolazione dei lavoratori e garantiva loro un’adeguata tutela. Dopo l’entrata in vigore del Regolamento sulla libera circolazione (1968), nei vari angoli d’Europa si continuò a far riferimento a distinte teorie sull’integrazione (nel Regno Unito al multiculturalismo, come all’assimilazione in Francia e alla rotazione nella Repubblica Federale Tedesca), la normativa europea costituì, per diversi aspetti, la garanzia per i lavoratori degli Stati membri che si spostavano in Europa. Dopo le vicende migratorie degli anni ‘50 del secolo scorso, il caso britannico è andato assumendo una maggiore importanza e si colloca tra gli esempi che più si prestano per interrogarsi sulle implicazioni e sul processo d’integrazione degli italiani in un mondo ormai molto avanzato sulle vie della globalizzazione.

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Memorial del tragico naufragio dell’Arandora star (@Creative commons)

L’obiettivo dell’integrazione, così come si presenta oggi, è molto diverso: sia in generale, trattandosi di soggetti culturalmente più preparati ai trasferimenti, sia nel caso del Regno Unito, in particolare per la sua uscita dall’Unione Europea, con la conseguente disapplicazione della sua normativa garantista (temperata dagli accordi presi a tutela dei lavoratori comunitari già presenti sul posto), come anche si dovrà verificare quale ripresa sarà possibile dopo la grave situazione di disagio creata dalla Pandemia del Covid-19. Si può dare per certo che, nella misura in cui la normativa britannica continuerà a consentirlo, quel Paese continuerà ad attirare (in modo speciale) molti italiani, per evidenti ragioni linguistiche, per le opportunità d’inserimento qualificato offerte in diversi settori, per il fascino della globalizzazione che si respira in una capitale come Londra, che fu già a capo di un impero smisurato e si propone ora come anello di congiunzione con gli Stati Uniti.

In ogni modo l’esperienza estera (anche quella fortemente attrattiva di Londra) abbisogna di essere valutata con equilibrio. Riferita al “sistema paese”, l’emigrazione unidirezionale non può essere ritenuta una panacea rispetto agli insoluti problemi occupazionali e professionali italiani, bensì un vero e proprio impoverimento. A livello individuale, anche se già beneficiari di un alto livello di istruzione, l’emigrazione qualora non accuratamente programmata, può comportare delle delusioni. Le strade di Londra non sono pavimentate d’oro, come non lo erano quelle degli Stati Uniti ai tempi della “grande emigrazione” svoltasi tra il XIX e l’inizio del XX secolo. Il migrante, però, è una persona che porta con sé gli aspetti migliori della sua terra e in essi non trova ostacoli che gli impediscano di cogliere gli aspetti positivi di un altro Paese. Cosa sia l’integrazione in un contesto così globalizzato come quello londinese è difficile dirlo. Non si tratta tanto dell’adattamento al sistema normativo locale e neppure si tratta delle maniere di vivere che si traducono in comportamenti esterni, tutto sommato, più agevolmente accettabili.

Per un giovane o un adulto, che si trasferiscono a Londra e che col tempo acquisiscono la cittadinanza britannica, cosa significa essere di origine italiana, oltre a mantenere l’affetto per la cerchia ristretta dei familiari e degli amici? Perdureranno altri legami, diversi da quelli affettivi? Ci potrà essere un apporto di ritorno, come si legge nello statuto dell’Associazione di professionisti e degli scienziati aggregatisi sotto l’impulso dell’Ambasciata italiana a Londra? II loro protagonismo potrà influire sui rapporti tra i due Paesi? Gli italiani, presi singolarmente e come collettività, sono un seme d’italianità atto ad accreditare a un livello più congruo la loro patria? La politica italiana e la vita sociale dell’Italia facilitano o ostacolano tale accreditamento?

A questi interrogativi dovrebbe prestare attenzione innanzi tutto il Paese di origine, ma anche il Paese di inserimento, perché ogni immigrato è un ambasciatore della sua terra. Il cosmopolitismo, che occupò la riflessione dei filosofi greci e che, attraverso diverse esperienze storiche, politiche, religiose e culturali, è pervenuto fino a noi, dovrebbe permeare la riflessione sull’integrazione di chi si reca a vivere in un altro Paese. Solo così si riuscirà a fare delle migrazioni, spesso relegate al solo ambito economico, un fattore di promozione culturale, politica e religiosa e la storia degli emigrati italiani, spesso dolorosa, conoscerà finalmente il suo riscatto.

Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021 
Note
[1] Ambasciata d’Italia, “Comunità italiana nel Regno Unito”, https://amblondra.esteri.it/ambasciata_londra/it/i_rapporti_bilaterali/comunita-italiana-nel-regno-unito.html.
[2] Cfr. Bernabei A., Esuli ed emigrati italiani nel Regno Unito, 1920–1940, Mursia, Milano, 1997.
[3] Cfr. Verdecchia E., L’esilio londinese dei padri del Risorgimento (Italiano), Marco Tropea Editore, Milano, 2010.
[4] Cfr. Finelli M., Il “prezioso elemento”. Giuseppe Mazzini e gli emigrati italiani nell’esperienza della Scuola Italiana di Londra, Pazzini, Verucchio (RN), 1999.
[5] Associazione Lucchesi nel Mondo, Breve storia dell’emigrazione lucchese, http://www.lucchesinelmondo.it/storia.html.
[6] Il primo censimento, condotto nel 1851 e limitato a Londra, vi registrò 1.604 italiani.
[7] Verso la metà del secolo XIX si andò dunque rafforzando nella città di Londra una concentrazione d’italiani a Clerkenwell, vicino al Parlamento, dando luogo a una vera e propria “Little Italy”. In questo periodo e in questo quartiere iniziò la costruzione della St. Peter’s Church, su iniziativa di S. Vincenzo Pallotti (1795-1850), destinata al servizio della comunità cattolica italiana. Bisogna tener conto che a Londra l’unico luogo di culto in precedenza era stata la cappella dell’Ambasciatore del Regno di Sardegna, ubicata a Lincoln in Field. A quel tempo, infatti, le funzioni religiose cattoliche erano ufficialmente proibite tranne che nei locali delle ambasciate straniere. Per rimediare a questo divieto, nel 1846 il fondatore dei sacerdoti pallottini, sostenuto dal contributo degli italiani (tra i quali vi fu anche Giuseppe Mazzini) e dall’Ambasciatore del Regno di Sardegna (nonostante rappresentasse un governo laico), ottenne l’autorizzazione a costruire una chiesa per gli italiani, che contribuì a rendere più coesa la collettività, diventandone il centro. Quella fu la prima chiesa cattolica costruita in Inghilterra dopo la Riforma.
[8] È sorprendente leggere che nel 1911 nella sola Glasgow si contavano circa 300 gelaterie (Winder R., Bloody Foreigners. The story of immigration to Britain, Abacus, London, 2004: 191).
[9] Winder R., Bloody Foreigners. The story of immigration to Britain, Abacus, London, 2004: 192.
[10] A questo periodo si ricollega un piacevole aneddoto, svoltosi in Scozia. Qui un gruppo di questi italiani fu autorizzato a utilizzare i materiali di risulta per costruire una chiesetta, denominata l’Italian Chapel, ritenuta di grande valore artistico.
[11] Cfr. Medaglia A., Patriarchal Structures and Ethnicity in the Italian Community in Britain, Ashgate, England, 2001.
[12] Cfr. Tubito M., King R., Italians in Peterborough: Between integration, incapsulation and return, Research Paper 27, University of Sussex, 1996.
[13] Tubito M., “L’émigration italienne en Grande-Bretagne : le cas des Italiens à Peterborough”, in Bollettino della Società geografica italiana Vol. 1, N. 2, 1996: 191-206; Guzzo S., “Immigrazione italiana nel Regno Unito: le comunità di Bedford e Peterborough tra lingua e identità”, in Rivista di studi letterari, linguistici e filosofici dell’Università di Salerno, n. 11, 2017: 127-140.
[14] IDOS-Istituto di studi politici S. Pio V, a cura di Coccia B., Pittau F., Le migrazioni qualificate in Italia. Ricerche, statistiche, prospettive, Edizioni Idos, Roma, 2016; IDOS-Istituto di studi politici S. Pio V, a cura di Coccia B., Ricci A., L’Europa dei talenti. Migrazioni qualificate dentro e fuori l’Unione Europea, Edizioni Idos, Roma, 2019.
[15] Il Censimento successivo ha avuto luogo nel marzo 2021, ma passeranno ancora diversi mesi prima che i primi dati vengano resi disponibili.
[16] D’Angelo A., Kofman E., UK: Large-Scale European Migration and the Challenge to EU Free Movement, in Lafleur J.M., Stanek M. (Eds.), South-North Migration of EU Citizens in Times of Crisis, IMISCOE Research Series, Springer, 2017.
[17] Mazzilli C., King R., “What have I done to deserve this?” Young Italian migrants in Britain narrate their reaction to Brexit and plans for the future, in “Rivista Geografica Italiana”, 125(4), 2019:507-523.
[18] Vargas-Silva C., Walsh P.W., EU Migration to and from the UK, The Migration Observatory, 2020. 
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 Alessio D’Angelo, professore associato presso l’università di Nottingham, nel Regno Unito, dove dirige il centro studi icPSP (international centre for Public and Social Policy), nel corso degli anni ha condotto e coordinato numerosi progetti di ricerca su migrazioni e minoranze etniche a livello locale ed europeo, rivolgendo particolare attenzione alle diseguaglianze sociali, all’accesso ai servizi pubblici ed educativi e al ruolo del Terzo Settore. Attualmente è condirettore della rivista Social Policy and Society e membro attivo della Social Policy Association e della British Sociological Association.
Franco Pittau, ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario di questo genere realizzato in Italia) e suo referente scientifico fino al 2917, si occupa del fenomeno migratorio dai primi anni ’70. Ha vissuto delle esperienze sul campo in Belgio e in Germania, è autore di numerose pubblicazioni specifiche sul fenomeno migratorio. Attualmente Presidente onorario del Centro Sudi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico e docente presso il MEDIM dell’università Tor Vergata di Roma (Master in economia, diritto, intercultura e migrazioni).
Antonio Ricci, dottore di ricerca in “Storia d’Europa: radici culturali e politica internazionale” presso l’Università Sapienza di Roma (2004), è vicepresidente del Centro Studi e Ricerche IDOS. Ha un’esperienza di oltre 20 anni di ricerca sociale in materia di immigrazione e asilo ed è autore di numerosissime pubblicazioni, tra cui – con Benedetto Coccia – il volume L’Europa dei talenti. Le migrazioni qualificate dentro e fuori l’Unione Europea (Roma, 2019). Ha coordinato per conto di IDOS attività transnazionali in Senegal, Tunisia, Marocco e Albania.

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