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Da Ovidio a Vecchioni: l’immaginario e il diritto all’anacronismo

 copertina di Virginia Lima

«Io conosco poeti che spostano i fiumi con il pensiero e naviganti infiniti che sanno parlare con il cielo» cantava Roberto Vecchioni in un suo celeberrimo brano della fine degli anni Novanta. Un invito, quello del cantautore milanese, a non smettere di sognare e ad usare l’immaginazione e le parole per creare il proprio futuro nonostante gli ostacoli posti da coloro che «diranno parole rosse come il sangue, nere come la notte». Si tratta di un’esortazione quasi un ordine come indica il titolo stesso della canzone. Sogna ragazzo sogna nasce, infatti, dalla ferma convinzione per la quale da sempre l’uomo è accompagnato da una forza nello stesso tempo devastante e costruttiva: quella delle parole, della poesia, dell’immaginario che trova la propria massima realizzazione nell’arte e nella letteratura attraverso cui affermare il proprio pensiero e ideale. E probabilmente non è un caso che tale spunto venga proprio da un cantautore, professore di lettere, che spesso ha incluso nel proprio repertorio musicale e poetico aspetti legati alla tradizione mitologica e letteraria.

Nel riflettere sul binomio parole/immaginario che attraversa tutta la letteratura fin dalle sue origini, il pensiero non può non andare ad una delle opere più sorprendenti della produzione latina che forse il ragazzo, se ben guidato, di qualunque epoca, potrebbe recepire come opera in cui identificarsi: Le Metamorfosi di Ovidio. Questa è, infatti, una vera e propria enciclopedia, un archivio che raccoglie storie di miti, di trasformazioni, di amori e di violenze, di sofferenze patite dagli umani a causa dei capricci di dèi arroganti, egoisti e vendicativi. Ovidio non crede in ciò che scrive, non crede che tra mitologia e realtà ci sia un’identificazione e non fa appello a facili moralismi o a logiche del potere costituito. Ma, al contrario, crea una serie di immagini che esaltano il gioco amoroso, la seduzione, elementi peraltro essenziali della propria poetica, attraverso cui ci presenta un mondo fatto di precarietà, di instabilità in cui, dunque, soprattutto l’adolescente in fase di evoluzione da bambino a uomo potrebbe riconoscersi. Amore e trasformazione, gioco e seduzione, sono aspetti che potrebbero allettare anche il più difficile dei ragazzi e che più di tutti si prestano alla possibilità di essere realizzati mediante immagini e immaginazione. Ed è attraverso queste che l’uomo può indagare se stesso, comprendere il suo vero essere, interrogarsi sull’identità e realizzare la propria unica molteplicità.

Effettivamente, leggendo le pagine di Ovidio tradotte da Sermonti si percepisce il valore insito nel patrimonio letterario dell’immaginario in quanto presenza costante per l’uomo non solo di oggi, ma anche del passato. Attraverso un linguaggio diretto ad un destinatario reale quanto ipotetico, lo studioso ci guida tra le pagine di un mondo illusorio in cui nulla è ciò che sembra. Dopo tutto anche l’individuo di oggi è alle prese con l’illusione, l’apparenza e la precarietà nella vita di tutti i giorni. Egli è continuamente bombardato da immagini di vario genere e l’immaginazione diviene così strumento usato in molte delle sfere sociali contemporanee: dalla letteratura alla scienza, dall’arte alla pubblicità, dalla tecnologia alla politica. Se infatti il linguaggio politico si basa sulla capacità di far sognare l’elettorato, quello pubblicitario è impregnato per sua stessa condizione dalla facoltà immaginifica e simbolica che ha potenza di seduzione. Così, attraverso un profumo la donna si riesce ad immaginare più desiderabile, più bella, mentre il possesso di un’automobile fa diventare l’uomo più potente e affascinante.

Un gioco, questo, di cui anche il poeta di Sulmona era a conoscenza, come dimostra la sua Ars Amatoria. In fondo, quando assistiamo ad una delle pubblicità non facciamo altro che immaginare di trasformarci proprio in un altro individuo più adatto ai canoni estetici o culturali della società in cui ci riconosciamo. L’immaginazione viene inoltre usata per spingere l’individuo oltre i propri limiti. Un esempio fra tutti: la recente campagna pubblicitaria di un noto marchio telefonico che circola in questi giorni si dispiega proprio tra i concetti di creatività, potenza comunicativa, libertà di non dover scegliere e condivisione. Il volto dello spot ci spiega che solo fino ad una certa età siamo liberi di pensare; superata tale soglia cronologica «viaggiamo su binari predefiniti». È a questo punto che interviene la tecnologia, la quale ci aiuta appunto a comunicare in modo nuovo e originale. In realtà, la tecnologia non è la spinta produttrice dell’immaginazione ma, al contrario, è attraverso la facoltà del pensiero e delle parole che l’uomo si è spinto, nel bene e nel male, là dove è arrivato. In altri termini, sono le parole, le metafore, prima ancora degli oggetti, che rendono potenzialmente l’uomo l’essere creativo e produttore di simboli.

_FOTO1 Annibale Caracci, Diana e Endimione

Annibale Caracci, Diana e Endimione, affresco Palazzo Farnese, Roma

Alla domanda che pone e si pone Sermonti, «perché il ragazzo di oggi dovrebbe leggere Le Metamorfosi?», si potrebbe, dunque, rispondere che se le abitudini e le necessità di oggi sono sicuramente diverse rispetto ai tempi in cui Ovidio ha pensato e creato la propria opera, la capacità simbolica dell’uomo non è certamente venuta meno. Il poeta latino crea un’opera erudita ma al di là degli aspetti linguistici ciò che risalta agli occhi di chi ancora oggi si approccia al testo è la forza, la potenza delle immagini che in essa sono contenute. Non a caso nell’introduzione Vittorio Sermonti definisce l’opera di Ovidio come “opera dell’adolescenza”, identificando in quella fascia d’età così delicata e instabile «l’esperienza della mutazione in costanza di identità che ogni adolescente patisce affacciandosi sul mondo con uno sguardo continuamente intercettato da una miriade di specchi» (Sermonti, 2014: 14). L’esempio più scontato di tale cambiamento è Narciso: «un ragazzo diventa una sindrome che diventa un fiore, restando disperatamente l’io che era» (ibidem: 12).

A rileggere oggi le pagine latine sembra così che Ovidio e Vecchioni si rivolgano agli stessi ragazzi, ma non solo a quelli: riprendendo uno spunto pascoliano si fa appello, dunque, al fanciullo che c’è in ogni individuo capace di intercettare una tale sensibilità. Ed è qui che si concentra il legame tra ieri e oggi, tra il cantautore milanese e il poeta latino. Sermonti inaspettatamente per un testo così lontano da noi, mette in primo piano un diritto sacro, quello dell’essere anacronistici all’interno di una società in cui ormai quasi nessuno è più attento osservatore di ciò che lo circonda, in cui la maggior parte degli individui è calata nel proprio mondo fatto di conversazioni virtuali, giochi di ruolo, messaggi sempre più tachigrafici. Tutto è pensato e realizzato all’insegna della velocità, dell’immediatezza e spesso inevitabilmente ci dimentichiamo della possibilità di sognare, di uscire proprio da quei binari prestabiliti a cui la quotidianità ci inchioda e da cui l’immaginazione ci libera. Ovidio ci offre un altro tipo di velocità, una velocità che crea ricchezza intellettuale e simbolica attraverso cui mettere in discussione i dati che spesso troppo superficialmente consideriamo scontati. Il diritto all’anacronismo, dunque, è la fonte del cambiamento e la lettura è un modo di nutrirlo e alimentarlo; così si dà vita alle nuove scoperte – anche quelle tecnologiche – alle rivoluzioni del pensiero, alle varie “primavere arabe” e ai nuovi orizzonti ideologici, scientifici e culturali.

In un’intervista a Panorama del luglio 2014, Sermonti spiega che non si tratta tanto dell’esaltazione di una fuga dal presente o di evasione tout court, quanto della possibilità dei classici di essere «una promessa per un futuro sconosciuto», un futuro da potere delineare e creare secondo le proprie inclinazioni. E allora ecco che il diritto all’anacronismo altro non è che il diritto al cambiamento, all’imprevedibilità, «la consapevolezza che nessuna identità è fissata per sempre».

Se Ovidio delinea un quadro poetico così innovativo e per certi versi anticonformistico lo si deve anche alla cornice storica in cui la sua vita è calata. Egli è infatti un poeta, un intellettuale che vive nella seconda parte del Principato augusteo, un intellettuale non impegnato che diremmo oggi ha fatto della letteratura un mestiere in una società che non aveva più bisogno di essere guidata nell’accettazione del nuovo regime politico. La pax augustea si era, infatti, affermata grazie anche alla prima generazione di intellettuali che, come Virgilio, ha indirizzato tutto il proprio impegno all’affiliazione con il potere. Diversamente dal poeta mantovano, dunque, Ovidio vive in una Roma pacificata ed è per tale ragione che può dedicarsi ad una letteratura poco seriosa, più leggera, senza tuttavia dimenticare i canoni e lo stile erudito del passato. Un’opera di leggerezza e di levità  esaltata nelle sue Lezioni americane da Italo Calvino, il quale proprio attraverso il mito di Perseo e Medusa raccontato nel IV Libro de Le Metamorfosi, individua la necessità di un nuovo legame tra poeta, letteratura e mondo:

 «nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionalità. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e verifica» (Calvino 1993: 12).

 Tutta la poetica ovidiana è creata proprio sulla spinta di un approccio nuovo, all’insegna di un gioco dell’apparenza, dell’illusione; una letteratura che stravolge i canoni prestabiliti, che elimina i facili moralismi e che disegna la Roma di quel periodo. L’amore stesso non è più celebrato come sentimento puro ed essenziale, non è l’amore che Catullo esalta per Lesbia, ma come gioco d’illusione, di artificio, ma soprattutto di seduzione, vero fulcro del sentimento amoroso per Ovidio che si presenta come un moderno Casanova.

Annibale Caracci, Il mito di Venere e Adone

Annibale Caracci, Il mito di Venere e Adone

Nell’intreccio delle storie, nella loro continuità Ovidio cerca di rappresentare l’instabilità del mondo, della storia, dell’universo attraverso un tecnica retorica leggera che tende a sottolineare sempre l’aspetto mitologico e non reale degli episodi. L’amore, dominio di Venere è, dunque, il solo potere che emerge nell’opera: tutti gli dèi che si avvicendano altro non sono che succubi delle proprie pulsioni, perfino il potente Giove, perfino il potente Apollo. Da tali pulsioni legate all’erotismo o alla vendetta si delineano i cambiamenti, le trasformazioni: Aracne colpevole di avere sfidato Minerva viene trasformata in ragno, le sorelle Progne e Filomena si trasfigurano rispettivamente in usignolo e rondine dopo la vendetta nei confronti di Tèreo, colpevole di atroci delitti. Sono le passioni, dunque, a guidare non solo l’individuo ma anche le divinità, le quali perdono i caratteri sacri virgiliani. E così la metamorfosi è il paradigma culturale che riesce a scardinare la realtà predefinita per dare un nuovo senso allo spazio individuale e, perchè no, sociale, per creare il nuovo.

Se è vero che le Metamorfosi sono il risultato della facoltà dell’immaginazione e della creazione di simboli,  attraverso la metafora l’uomo può e deve legare la sua stessa esistenza al futuro ed è attraverso la parola che egli può  guadagnare l’immortalità, concetto racchiuso da Ovidio in un’unica parola vivam:

«e così ho compiuto quest’opera che né l’ira di Giove né il fuoco, né il ferro, né il tempo vorace cancelleranno mai più. Quel funebre dì che non vanta diritti se non sul mio corpo ponga il termine che preferisce alla mia vita precaria; la parte migliore di me schizzerà immortale più sù del cielo stellato, e il mio nome sarà indelebile in terra; e fin dove sul mondo si spande il dominio di Roma, i mortali mi leggeranno, e per tutta la durata dei secoli tutti, se i poeti hanno un qualche presagio del profondo futuro» ( XII: 871-879).

Il diritto all’anacronismo di cui parla Sermonti è il diritto ad essere diversi da ciò che si crede di essere, ad essere diversi da ciò che la società vorrebbe che fossimo, ma soprattutto il diritto da esercitare contro coloro che ritengono, riprendendo il testo di Vecchioni, che «la ragione sta sempre con il più forte». Ecco perché l’opera di Ovidio così come il brano di Vecchioni si rivolgono al ragazzo di qualunque età, la metamorfosi diventando un modo per affermare la libertà, per emanciparsi dai modelli predefiniti di una società anch’essa predefinita. Differentemente dal concetto kafkiano di metamorfosi – associato alla rigidità sociale e borghese – l’opera di Ovidio, così lontana da moralismi e da quella sacralità che solo qualche anno prima aveva intessuto l’Eneide virgiliana, oggi deve essere interpretata come esaltazione della pluralità e della diversità degli esseri umani.

Annibale, Il Trionfo di Bacco

Annibale Caracci, Il Trionfo di Bacco

Ovidio ci presenta un mondo di favole, di ibridazioni, di donne e uomini che vengono mutati in pioppi, in pipistrelli, in gazze, in ragni, in alberi o animali per sfuggire a violenze o per essere puniti a causa della propria arroganza e superbia e ci invita a guardare con occhi diversi la realtà, ad avvicinarci al mondo – ci spiega Calvino (1993:12) – allontanandoci dalla pesantez- za del reale e dalla pestilenza del linguaggio corrente. L’esempio più evidente  – dice lo scrittore  – ci giunge dalla scienza: circuiti sempre più leggeri, più piccoli in grado di espletare funzioni complesse e grandiose, atomi e particelle sempre più piccole che sono responsabili della nascita e di cambiamenti genetici. Le trasformazioni rappresentano, dunque, tale leggerezza che si spiega nell’ultimo libro di Ovidio, il XV, quando il filosofo Pitagora riassume il senso di quanto raccontato fino a quel momento: «tutto cambia, nulla sparisce […] nulla è stabile al mondo; tutto fluisce, le immagini non fanno che andare e venire» (XV:165-178). A distanza di millenni anche Roberto Vecchioni ribadisce il legame tra il passare del tempo e l’essenza dell’individuo: «sogna ragazzo sogna, passeranno i giorni, passerà l’amore, passeran le notti, finirà il dolore, sarai sempre tu».

Il classico e il contemporaneo si incontrano pertanto nella potenza della poesia, offrono una lezione di vita all’adolescente e all’adulto. Se Ovidio muove dalla creazione del cosmo e attraverso l’era delle divinità giunge all’età degli eroi e infine al tempo degli uomini, immortali solo attraverso le segrete via della metafora e del simbolo, Vecchioni invita i ragazzi di tutti i tempi ad essere artefici della propria vita, del cambiamento, della società attraverso ancora una volta la metafora della poesia: «sogna ragazzo sogna, ti ho lasciato un foglio sulla scrivania, manca solo un verso a quella poesia, puoi finirla tu». La chiosa della canzone diviene così l’invito ad iniziare la propria vita prendendo consapevolezza che «nessun regno è più grande di questa piccola cosa che è la vita». Un’esortazione che non dovrebbe essere indirizzata soltanto ai ragazzi, ma a tutti!

Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016
Riferimenti bibliografici
Calvino Italo, Lezioni americane, Arnoldo Mondadori Editore, Milano  1993.
Publio Ovidio Nasone, Le Metamorfosi, traduzione a cura di Vittorio Sermonti, Rizzoli, Milano 2014

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Virginia Lima, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici e specializzata in Antropologia culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha orientato parte dei suoi interessi scientifici verso l’antropologia del mondo antico, approfondendo la funzione culturale del prodigium inteso non solo come momentanea rottura dell’ordine cosmico ma anche come strumento della memoria culturale del popolo romano.

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