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Cirese, de Martino e i miei campanili di Marcellinara

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di Sergio Todesco

Da dove partire? Pare ormai provato che le culture tradizionali abbiano mantenuto un senso degli spazi che a noi moderni è assai spesso precluso se è vero, come è vero, che le esperienze di vorticoso attraversamento degli spazi disponibili nella modernità assai spesso sortiscono la rovinosa deriva dei “viaggiatori” in sensazioni di spaesamento che negano qualunque possibilità di ordinare il tempo vissuto entro forme di memoria condivisa. Se ci volgiamo dunque a considerare la realtà dello spazio così come essa viene percepita in contesti diversi dai nostri, ci accorgiamo che in essi lo spazio naturale è di fatto ritenuto inconoscibile dall’uomo. Lo spazio che l’uomo può ragionevolmente sperimentare e conoscere è solo quello già filtrato attraverso una qualche forma di plasmazione.

Assunta dall’interno della cultura che l’ha elaborata piuttosto che secondo parametri intellettualistici, tale concezione riflette di fatto una valutazione dello spazio quale entità disomogenea. Secondo Mircea Eliade «per l’uomo religioso lo spazio non è omogeneo; presenta talune spaccature, o fratture: vi sono settori dello spazio qualitativamente differenti tra loro» (1968: 19).

Si può dunque sostenere che lo spazio presso le culture tradizionali sia uno spazio discreto, disomogeneo, discontinuo. La cultura umana, l’esserci dell’uomo nella storia, si afferma così nella misura in cui essa operi delle fratture nel continuum spazio-temporale. Avremo pertanto dei tempi strutturati e degli spazi differenziati, nei quali si deposita ciò che mi pare congruo definire una maggiore quantità e qualità di investimento di senso.

Pur muovendosi entro una prospettiva laica, su tali problematiche si sono ripetutamente interrogati nel corso della loro attività di studio e ricerca Alberto Mario Cirese ed Ernesto de Martino, antropologi quanto mai distanti tra loro per equazioni personali e approcci ermeneutici, ma singolarmente sintonici nell’attenzione riservata ai “centri”, ai campanili, agli angoli di mondo in cui hanno luogo le dinamiche di appaesamento, di definizione e costruzione delle identità, di domesticità, infine di riconoscimento di una “patria”. Centri che però da essi, all’interno di un ripensamento diversamente modulato ma sostanzialmente convergente delle tematiche gramsciane, vennero elettivamente individuati nelle periferie della modernità.

Cirese in un articolo dei primi anni ’50 apparso su “La Lapa”, la rivista fondata dal padre Eugenio e con lui co-diretta (Di alcune discussioni in corso…) mostrava già di avere ben chiaro come il riconoscere la validità ermeneutica di un’unica storia non comportasse l’adozione di un unico focus di comprensione delle sue dinamiche, quello in auge presso storiografi ancora digiuni della lezione delle Annales:

«….. nulla vieta che, nel fare l’unica storia possibile, e cioè quella della integralità culturale egemonico-subalterna, si scelga un angolo prospettico diverso da quello tradizionale, e si eleggano come terreno di osservazione la campagna invece che la città, i contadini invece che gli intellettuali…..».

468405b1fa48b4898697baf7d5172192_xlLe posizioni ciresiane furono forse tra le cause del progressivo allontanamento da Benedetto Croce proprio in quel periodo avviato da De Martino. Si trattava per entrambi di recuperare la cultura ponendosi sul versante degli ultimi ed eleggendo tale ambito a elemento significativo nella costruzione di un’identità nazionale, sottraendolo così allo statuto di non-storia, di realtà sulla quale non può esercitarsi azione conoscitiva e della quale non può darsi scienza.

Cirese sviluppò nella sua riflessione tale orientamento attraverso la sempre maggiore attenzione verso i temi connessi al campanile, alla storia orale, ai musei come luoghi di raccolta della cultura materiale dei ceti subalterni, ossia di un “sistema degli oggetti” in larga misura distonico e contrapposto a quello espresso dalla cultura dominante. Sperimentò dunque, tanto nella sua veste di studioso quanto in quella di paysan, la scoperta di una patria elettiva nel Molise, scoperta destinata in seguito a reiterarsi nell’approdo in Sardegna.

Il convincimento della capacità delle periferie di stare nella storia e di fare esse stesse storia testimoniando oralmente delle proprie condizioni accompagnò lo studioso lungo l’intero suo percorso. In un’intervista del 1994 apparsa in “Ethnologie française” egli ne mostrava ancora una volta lucida consapevolezza:

«Benedetto Croce diceva che la storia si scrive a partire dal centro e che le periferie non si esprimono che per negazione e resistenza nei confronti del centro. La mia tesi (che ho esposto negli anni 1953-54) era che la storia si fa anche nelle periferie, ma non è storia delle periferie, è storia della circolazione culturale vista a partire dalle periferie. Si tratta dunque di un processo, e, come ho scritto, anche le periferie fanno storia, accogliendo o respingendo, elaborando o rielaborando…»

2Anche de Martino, nato a Napoli, ebbe a sperimentare nel corso della sua esistenza nuove modalità di ancoraggio, dapprima alla Lucania e poi alla Puglia, terre da assumere sotto l’identica etichetta di “terre del rimorso”, in cui l’apparentemente serena compostezza delle categorie crociane mostrava tutte le sue crepe, facendo emergere quanto di “rimosso” la cultura liberale avesse lasciato nel corso del suo ascendere de claritate in claritatem.

Già in uno studio esemplare di settant’anni fa egli aveva messo in luce come il pellegrinare degli aborigeni australiani, la cui cultura nomade esigeva il continuo addentrarsi in un territorio ostile e sconosciuto sotto la spinta delle varie necessità connesse alla ricerca di cibo, fosse punteggiato da riti consistenti nel «ripetere simbolicamente il mito della creazione», indirizzati «a riplasmare sempre di nuovo uno spazio rischioso e alieno trasformandolo in ‘patria’»; si trattava com’è evidente di una strategia consistente nella periodica rifondazione del proprio universo simbolico che giovava a “tenere in piedi”, a dotare di senso l’universo reale.

In particolare, presso il gruppo totemico Achilpa delle tribù Aranda assumeva un ruolo di primo piano il palo kauwa-auwa, il più sacro oggetto cerimoniale della tribù, una sorta di centro di comunicazione fra i diversi piani cosmici. Gli aborigeni piantavano il palo ovunque eleggessero il loro temporaneo soggiorno. De Martino mostrò come la funzione del palo kauwa-auwa fosse sostanzialmente quella di destorificare la peregrinazione: gli Achilpa, in forza del palo attorno al quale procedevano nella conquista di nuovi spazi, «camminavano mantenendosi sempre al centro». Il palo kauwa-auwa era per loro, per così dire, «un asse del mondo in movimento».

Lo stesso de Martino tornava a occuparsi dello spazio sottoposto a plasmazione culturale in un famoso brano dell’opera postuma La Fine del Mondo. È emblematico l’episodio da lui raccontato, che ha offerto suggestione a questo mio contributo: un vecchio pastore calabrese, indotto a entrare nell’auto dei componenti l’equipe demartiniana per mostrar loro una certa strada, man mano che l’auto si allontanava dal suo paese non potendo più scorgere il campanile che ne costituiva un segno riconoscibile iniziò a manifestare un’angoscia sempre maggiore, avendo perduto il punto di riferimento «del suo estremamente circoscritto spazio domestico». Nel riportare l’episodio lo studioso concludeva: «Certamente la presenza entra in rischio quando tocca il limite della sua patria esistenziale, quando perde ‘il campanile di Marcellinara’». L’angoscia del vecchio pastore, il sentimento di “perdita della presenza” da cui venne preso è la medesima angoscia di chi oggi perde, o teme di perdere, i riferimenti a quei luoghi domestici dove avverte di “consistere”. Quella che sembra esser messa a rischio è la propria identità in un contesto diventato irriconoscibile. La perdita degli ancoraggi culturali, della domesticità, sottrae senso al mondo. Lo priva inoltre, mi pare di poter aggiungere, di un potente dispositivo atto a dischiudergli il sereno confronto con i variegati “mondi di fuori”.

41w2xozaval-_sx366_bo1204203200_Qualche mese fa, potenza e miracolo della memoria, mentre in casa facevo qualcosa di poco importante mi è improvvisamente e senza preavviso ritornato alla mente un episodio dell’infanzia. All’età di otto anni ho vissuto per un intero anno scolastico a Pettineo, un piccolo paese dei Nebrodi in cui mia madre si era stabilita avendo lì avuto l’incarico di maestra elementare. Noi abitavamo a Messina, ma dovendo indicare una sede la mamma aveva preferito questo estremo lembo di provincia perché, originaria della vicina Castel di Tusa, aveva proprio a Pettineo una sorella in grado di ospitarci. Io l’avevo seguita, perché mio padre lavorava alla Rasiom di Augusta e tornava solo il fine settimana. Stiamo parlando del 1960, anno in cui mi sono così trovato a frequentare a Pitinìa la mia quarta elementare.

Che anno fantastico! Una volta finita la scuola e fatti i pochi compiti c’era tutto un pomeriggio che si spalancava dinanzi. Eravamo una piccola banda di quattro, cinque picciuttieddi, che se ne andavano a zonzo campagne campagne a tirare pietre agli uccelli, sgraffignare grappoli di uva dai vigneti, catturare le lucertole. Scoprire il mondo insomma.

Da quei miei compagni, alcuni dei quali autoctoni, ho imparato presto tante cose. Come muoversi – io mingherlino bambinetto di città – tra gli arbusti e i dirupi, come arrampicarsi sugli alberi, come non aver paura degli esseri in cui ci si imbatta, cavalli cani vacche maiali, e anche cacciatori urdunàra carbonai porcari…. Come insomma trasformare quella iniziale ingens sylva in un luogo domestico, appaesato, in cui muoversi con sicurezza e fierezza sentendosi un cow boy o un giovane esploratore.

Il ricordo che appunto mi ha sorpreso come un ladro allampo è stato quello legato a un piccolo rituale appreso dai miei compagni di avventura. Quando, dopo una pioggia autunnale o primaverile, ci imbattevamo nei crastùna, quei grossi lumaconi che dopo una scaricata proliferano in gran numero, per indurli a uscir fuori dal loro guscio utilizzavamo una sorta di cantilena-formula magica che faceva così:

«Rapi li corna ca veni to pa’ e to ma’, rapi li corna ca veni to pa’ e to ma’…..», o anche «Nesci li corna ca veni to pa’ e to ma’, nesci li corna ca veni to pa’ e to ma’…..», vale a dire: apri le corna – o esci le cornache vengono tuo padre e tua madre…».

e così via, iterando la formula incantatoria fin quando il lumacone, probabilmente infastidito dal fatto che gli stavamo scassando i cabbasisi, si decideva a tirare fuori il viscido corpo alla cui sommità iniziavano a ergersi i due cornicini retrattili, rendendoci in tal modo avvertiti che l’incantamento era andato a buon fine. Una formula magica che non pronunciavo più da sessant’anni…

Il vero incantamento, in realtà, è consistito nello scoprire in quel meraviglioso anno scolastico l’esistenza dell’universo agropastorale e contadino, un universo governato da codici che quelle scorribande extra moenia mi hanno consentito pian piano di introiettare rendendomi sempre più capace di decriptarne la grammatica e la sintassi, fino a sentirmene in qualche modo facente parte.

Quella scoperta, quella conquista da allora in poi non mi hanno più lasciato, e le mie storie professionali si sono in qualche modo, teleologicamente, intrecciate con il mondo dei pastori e dei contadini, facendo sì che finissi col riconoscere in quei territori una sorta di seconda patria. Da ciò me ne è derivata la gioia che sempre si rinnova allorquando torno a percorrere quei sentieri, sentendomi al centro del mio mondo, nonostante la loro identità si sia in gran parte opacizzata, essendo da quelle plaghe scomparse, come Pasolini ci ha insegnato, tutte le lucciole.

È forse questo il destino di ognuno, quello di dover cercare tutta la vita, in aggiunta alla casa natale, una casa sognata in cui poter organizzare simbolicamente le proprie visioni del mondo senza mai sentirsi un paria, un estraneo. Io ho avuto la fortuna di fare assai presto tale incontro, compiendo un viaggio che è stato al contempo dall’infanzia all’adolescenza e dalla città alla campagna. Un viaggio etnografico, a suo modo.

«Il viaggio etnografico si colloca nel quadro dell’umanesimo moderno come il rovesciamento totale del viaggio mitico nell’al di là che maghi, sciamani, iniziandi e mistici di tutte le civiltà religiose compiono per recuperare in questo oltre elettivo lo smarrirsi della presenza nei momenti critici del divenire storico: nel viaggio etnografico non si tratta di abbandonare il mondo dal quale ci sentiamo respinti e di riguadagnarlo attraverso la mediazione di una rigenerazione mitica variamente configurata, ma semplicemente si tratta di una presa di coscienza di certi limiti umanistici della propria civiltà» (La terra del rimorso, 1961).
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Castel di Tusa, Gruppo sotto il castello (inizi 900)

Anch’io da questo viaggio, dapprima in modo istintivo ma via via che crescevo sempre più fortemente, ho preso coscienza dei limiti umanistici della mia propria civiltà, la medesima, povera civiltà che in questo frangente ci costringe tutti a rimanere chiusi in casa, controllati a vista (i meno avvertiti) dai televisori.

Questo di Pettineo è solo uno dei miei diversi Campanili di Marcellinara, intendendo con tale termine i luoghi che nel corso della mia vita mi hanno conferito domesticità, ancoraggio e senso di appartenenza, affezione a un angolo di mondo dal quale mi è stato in seguito possibile aprirmi al resto del mondo.

Altro luogo per me privilegiato è proprio quella Marina di Tusa, paese natale di mia madre, per me divenuto patria culturale nel senso che de Martino attribuiva a tale termine:

«… alla base della vita culturale del nostro tempo sta l’esigenza di ricordare una patria e di mediare, attraverso la concretezza di questa esperienza, il proprio rapporto col mondo. Coloro che non hanno radici, che sono cosmopoliti, si avviano alla morte della passione e dell’umano: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria, a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che l’opera di scienza o di poesia riplasma in voce universale» (L’etnologo e il poeta, 1959).

Ho infatti trascorso una stagione cruciale della mia vita in questo paesino di mare che per me si è venuto costituendo come una vera e propria seconda patria, a tal punto che ancora oggi Castel di Tusa, e la casa avita in cui ho trascorso quegli anni lontani, tornano con struggente pervicacia nei miei sogni, e ogni realtà significativa della mia esistenza “adulta” ha dovuto prima o poi fare i conti con questi luoghi la cui pregnanza simbolica, nonché attenuarsi e sbiadire, si è venuta viceversa sempre più accrescendo mano a mano che il tempo depositava su di essi la sua polvere.

Se mi provo a riflettere sulle radici di questi remoti ancoraggi esistenziali, le risposte che mi vengono – forse filtrate attraverso le mie successive esperienze – sono le seguenti.

Ogni cultura trova certamente il fondamento in coordinate sue proprie, nel mondo materiale e nel complessivo sistema degli oggetti che di essa costituiscono il corpo e l’orizzonte visibile ma – in misura non certo inferiore – si basa anche negli universi mentali, nel sistema di segni, nei parametri di riferimento e nella weltanschauung che essa esprime. In ciò risiede probabilmente quello che viene definito il Genius Loci. E tale è stata per me la Marina, un luogo di appaesamento e di ancoraggio, un laboratorio entro il quale mi è stato offerto di vivere gran parte dei momenti iniziatici dell’infanzia, e poi della giovinezza.

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Castel di Tusa, La marina, inizi 900

A Castel di Tusa ho vissuto ad esempio – ancora di pochi anni d’età – il mio primo incontro con la morte, perché nella società e nella cultura di allora questo evento naturale non era ancora stato sottoposto agli incomprensibili meccanismi di tabuizzazione, rimozione ed espunzione cui è stato in seguito fatto oggetto. Alla Marina ho imparato ad amare il mare, quel mare, e i suoi scogli, il suo pietroso arenile, i profumi delle sere d’estate, quando gli aromi e le fragranze dei frutti e dei fiori (i fichi, i gelsomini) si diffondevano nell’aria mescolandosi alla salsedine, alle fritture, agli odori del cordame bagnato e delle barche tirate a riva. Amo tuttora gli anni sessanta, la loro musica, le loro passioni, i loro struggimenti, la loro sostanziale pulizia rispetto alle epoche certamente più buie che ne sono seguite; ma ciò, probabilmente, perché li ho vissuti attraverso il filtro di quest’angolo di mondo, che per una parte dell’anno diveniva per me il mondo.

Detto in breve, l’esigenza di un axis mundi come centro intorno al quale far ruotare la propria esistenza è un dato che giova a dare ragione della necessità che ognuno di noi possiede di avere un “paesaggio interiore”. Il problema della domesticazione degli spazi è stato dunque per me quello di sentirmi sempre come se fossi al centro del mio universo, un universo chiamato a costituirsi come un solido sistema di garanzie atto a conferire sicurezza, senso e valore a me che lo abitavo.

Che si sia trattato di uno spazio costruito contrapposto a quello della selva esterna, dello spazio del lavoro, del rito, della società civile, della vita, si è trattato pur sempre di uno spazio domestico, autentico, “appaesato”, baluardo comunitario contrapposto a quelli rischiosi, inautentici, “spaesanti” (“perturbanti”, secondo la definizione freudiana, unheimliche) che si schiudono, tristi non-luoghi, nei paesaggi desolati della modernità.

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Castel di Tusa, spiaggia e barche, inizi 900

La più avvertita cultura antropologica contemporanea ha giustamente stigmatizzato la retorica delle piccole patrie, scorgendo in esse i luoghi di elaborazione delle false identità, delle identità monolitiche, costruite a tavolino e impermeabili all’apertura e al confronto con altre identità, cui non sono disposte a riconoscere una pari dignità.

Il rischio è che con tale sacrosanta presa di distanze da una concezione barbara (“barbaro” è chi si ostina a credere nella barbarie, ci ricorda Lévi-Strauss) che ha alimentato il leghismo e tutte le barbarie del nostro tempo, si finisca col gettar via con l’acqua sporca anche il bambino, che viceversa andrebbe nutrito e aiutato a crescere, educato infine a uscire dal local per aprirsi fiducioso al global che quel local comprende, pronto però a ritornarci, a quell’angolo di mondo che gli consente di mantenere vivo il proprio villaggio vivente nella memoria.

Mi pare che solo in tal modo possa esserci dato evadere da quelle gabbie mentali dalle quali con diverso nome (storicismo ristretto, limiti di umanesimo) ma identica diagnosi Alberto M. Cirese ed Ernesto de Martino ci hanno nelle loro opere messi in guardia.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020.

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