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Cirese. Approssimarsi al centro

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Rieti, Piazza San Rufo, febbraio 2012

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di Eugenio Imbriani

Se dovessi scegliere, come in un noto gioco televisivo, una parola che accomuni Cirese, il centro, la periferia, allora opterei per Rieti. Il motivo è davvero banale: perché Rieti gioca ironicamente con il suo destino di essere considerata l’ombelico d’Italia senza crederci più di tanto, se è vero che il punto esatto in cui cadrebbe il centro della penisola, in Piazza San Rufo, è indicato da un monumento non indimenticabile sul quale ci si può sedere, un sedile elevato al rango di caciotta nelle conversazioni tra gli abitanti.

Malgrado ciò, non si può disconoscere alla cittadina la sua nobilissima realtà periferica, distante com’è dalle grandi città, in mezzo ai monti, sostanzialmente non disturbata dai flussi turistici, sebbene vanti un passato glorioso e leggendario.

Rieti è la città in cui le cose cominciano, per Cirese, l’impegno politico, lo studio, «La lapa», il matrimonio; egli collocherà la cittadina – anzi, i contadini socialisti di Rieti – tra i momenti iniziali del suo itinerario, che comprendono anche il padre Eugenio e Parigi, Il Musée de l’Homme, passando per Roma, bisogna aggiungere. Tra cosmo e campanile scivolano le vite (Cirese 2003), non tutte in modo uguale, logicamente, a seconda della mobile vicinanza a ciascuno dei poli: c’è chi ritiene di non voler uscire dal suo angolo (ma le vicende del mondo lo toccano ugualmente e lo attraversano: la guerra, l’influenza, le elezioni, temporali mai visti prima, le chiamate del nipote che lavora fuori), chi pensa di poter fare a meno del campanile e magari si affeziona a un paese che si chiama like, e chi lo desidera tanto da cercarsene uno, o anche più, come insegnava Ernesto de Martino.

Pietro Clemente, che su questi temi ha fornito, e continua a farlo, importanti contributi di riflessione, illustra così la posizione di Cirese: «Voleva intendere che la vita degli uomini si dispiega nella sostanziale unità del genere umano, e insieme nella pluralità dei modi di vivere. Ma voleva suggerire anche di non accentuare mai una sola prospettiva: mettere al centro il locale, senza collocarlo nel quadro generale, e viceversa. Diceva anche che gli studi sul luogo non si fanno con le teorie del luogo, come a dire che la conoscenza è sempre legata al mondo degli studi e non è mai localista. E che la centralità che hanno per noi oggi il luogo, la località, la ‘perifericità’ si basa su pensieri e teorie che vengono dal dibattito sulle prospettive della nostra civiltà» (Clemente 2018: 3).

A Cirese era ben presente la sua costituzione provinciale – personale e familiare –, e che studiare le Indie di quaggiù ha maggiore efficacia e utilità quando si inseriscono le vicende storiche particolari in un sistema complessivo di relazioni di cui Gramsci aveva fornito chiavi di lettura ineludibili. Comunque, questa impostazione dovrà fare i conti con il richiamo che la struttura eserciterà su Cirese, nella versione che proviene da Parigi, dal Musée de l’Homme, da Lévi-Strauss.

raccontami-una-storia-foto-copertina-cirese-clementeE però la attrazione parigina non è affatto incondizionata, come dimostra la posizione assunta da Cirese nella diatriba che si aprì tra Lévi-Strauss e Propp a proposito di Morfologia della fiaba e delle famose 31 funzioni; ebbene, secondo Cirese, l’etnologo francese si mostra assai meno rigoroso, malgrado la sua professione formalista, del russo, e, addirittura, ne contesta l’operato usando espressioni davvero molto severe, come leggo nella bella Introduzione di Maria Federico al volume Raccontami una storia, che raccoglie testi di fiabistica di Cirese e di Pietro Clemente (2021); gli attribuisce, infatti, leggerezze, inesattezze, enunciati confusi, un lavoro, complessivamente, da «manovale di periferia» (Federico 2021: 39). Altro che bricoleur. Qui, tuttavia, una caduta di stile possiamo notarla: non perché non si possa maltrattare Lévi-Strauss (de Martino, si ricorderà, in punto di morte, aveva in programma di ucciderlo), o degradarlo, ma per l’uso improprio di quella definizione, manovale di periferia, come una clava o un insulto.

D’accordo, se il bricoleur è un manovale con qualche quarto di nobiltà, ci vuol poco a smontarne la prosopopea; ma perché «di periferia» deve suonare come un’aggravante? Essere manovale «di centro», assegna qualche titolo in più, una postura e una collocazione sociale più presentabili? Come sono i manovali di Castropignano?

Il padre di Alberto, Eugenio, considerava il piccolo comune molisano il centro delle sue memorie, come aveva detto nell’estate del 1954, pochi mesi prima di morire: un centro privato, intimo, familiare, rispetto al quale il mondo circostante sembra perdere consistenza. Niente a che vedere con il doloroso mondo dell’Italia esplorata da de Martino, in quegli anni, né con i tropici esotici e tristi, ma spazio e tempo biografico di cui coltivare la memoria, fin nei dettagli, seppure con qualche imprecisione (i sette gradini che conducono all’orto ricordati da Eugenio sono nove, puntualizza Alberto). Chissà dov’è il centro della memoria di mia madre, quando cerca di superare gradini immaginari, anche da seduta, e protesta tenacemente perché vorrebbe tornare a casa sua, che non riconosce in questa in cui vive da sessant’anni, in un piccolo paese della più lontana tra le province pugliesi.
Non so se sia legittimo, ma credo che sia possibile considerare il complesso programma intellettuale di Alberto Cirese come un costante tentativo di approssimarsi al centro, tra mille strategie e progetti vari, calcoli matematici e applicazioni informatiche, indagini storiche ed etnografiche, minuziose analisi e scritture. L’assunto da cui parte è la identità della mente umana, da cui deriva, kantianamente, la categorialità delle forme basilari della vita sociale e, quindi, la sostanziale invarianza dei meccanismi comunicativi e relazionali. Il nocciolo sta nell’invarianza, dunque: bisogna cercarla, ma essa si nasconde nella molteplicità che pure regola; Lévi-Strauss paragonava il lavoro dell’antropologo a quello del geologo e dello psicologo, chiamati a scavare nelle profondità della terra e della coscienza.

Cirese si muoveva con estrema dedizione nei sistemi di catalogazione e di indicizzazione, come se davvero tutto fosse possibile incasellare, normare, declinare secondo regole semplici e generali. Esemplare, da questo punto di vista è quel suo obbiettivo, non raggiunto, perché una vita non basta a compiere certe imprese, di realizzare un definitivo Catalogo dei cataloghi della fiaba italiana.

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Antonio Verri e la madre (ph. Fernando Bevilacqua)

Per analogia, non posso fare a meno di accostare a questo totalizzante di Cirese, il disegno del poeta Antonio L. Verri di realizzare il Declaro, un dizionario delle parole anarchiche, giocose, sonore, slegate da vincoli grammaticali, morfologici, sintattici, dai significati condivisi; da studente universitario si era imbattuto nel Declarus del monaco siciliano Angelo Senisio, un dizionario compilato nel XIV secolo che lo aveva molto colpito, ma di cui aveva perso le tracce; da qui gli era nata l’idea (Imbriani 2017).

Da un punto di vista strutturale, le due opere programmate, il Catalogo dei cataloghi e il Declaro, sono, per così dire, speculari, costituiscono una coppia oppositiva perché seguono due direttrici divergenti: la prima cerca il centro che regolamenta, l’altra ne rifugge decisamente. Detto così, però, suona troppo schematico, mentre la realtà delle esistenze e delle ricerche lo è molto meno.

Antonio è nato molti anni dopo Cirese, da una famiglia contadina, in un paese a sud di Lecce, che ha piuttosto un nome da dorsale appenninica, Caprarica; purtroppo è morto ancora molto giovane a causa di un incidente stradale, nel 1993. Nel suo paese ha continuato a vivere, non certo perché affetto da retrotopia, per dirlo con Bauman, ma per una scelta intellettuale onesta e molto consapevole. Caprarica e, per estensione, il Salento, venivano a costituire il nucleo di una ragnatela di relazioni con un numero altissimo di studiosi, artisti, operatori culturali attivi nell’area e in varie città dell’Europa e del mondo. Accadeva, così, che iniziative pensate e realizzate tra Caprarica e Lecce cercassero e trovassero riscontro in città come Milano o Ginevra.

Il caso più interessante, a questo proposito, fu la pubblicazione, per una settimana, del «Quotidiano dei poeti» che fu distribuito, con l’aiuto di numerosi sodali, nelle città in cui essi vivevano. Milano, Roma, Napoli, Losanna… furono immaginate, con apparente noncuranza, periferia di Caprarica. Veramente, non c’era niente di semplice nel voler «fare le cose qui», perché richiedeva vigilanza, impegno, tenacia, collaborazioni che bisognava guadagnarsi, vincendo la logica dei politici e il sussiego di qualche professore.

22Antonio era un tessitore di legami nuovi, ma non ha mai rinunciato a quello con il mondo contadino, perché in quel contesto di vicende personali e locali, di mestieri, storie, fiabe, saperi vernacolari, trovava temi e fonti per dar vita alla sua opera letteraria: la quale, tuttavia, propone la ricerca di soluzioni originali, innovative, aperte, apparentemente in contraddizione con l’adesione a un universo a cui venivano attribuiti i caratteri della marginalità e della subalternità, ma in cui pescava miti e fantasticherie, segni di liberazione, la coesistenza, in un dialogo reciproco, di persone, cose, animali e le figure che popolano l’immaginario: un florilegio di personaggi fantastici, di racconti, fiabe, leggende, strumenti, insomma, per avviare e nutrire il suo progetto letterario.

Inoltre, la quotidianità del lavoro, della fatica, della povertà, del contatto con la terra, lo stesso modo abituale di esprimersi delle persone, gli offrono materia plastica da forgiare, e tasselli da incastrare, numerosi, di per sé incantati, pronti per l’uso. Nel poemetto Il pane sotto la neve (1983, n. e. 2003) rendeva esplicita questa duplice necessità:

«Sto con te, lo sai, e col tuo vecchio cuore di contadina
ma cerco, e devo cercare ancora madre, continuamente
modi nuovi o parole di sangue» (Verri 2003: 72).

Ma procedere in questa disamina ci porterebbe certo fuori tema. Il confronto, tuttavia, mi aiuta a discutere lo specialissimo rapporto che Cirese ha avuto con i luoghi in cui è transitato o si è fermato e ad avvicinarmi ai princìpi analitici del suo pensiero: spezzare, tagliuzzare, penetrare, con lo scopo di cercare la norma dove non si vede, avvicinarsi al centro, muovendosi nelle periferie.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Riferimenti bibliografici
Cirese Alberto Mario, Tra cosmo e campanile. Ragioni etiche e identità locali, Siena, Protagon, 2003.
Cirese A. M., Clemente Pietro, Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori, Palermo, Edizioni Museo Pasqualino, 2021.
Clemente P., Paese che vai usanza che trovi, tra cosmo e campanile, in «Archivio Antropologico Mediterraneo», n. 2, 2018: 1-8: 3. http://journals.openedition.org/aam/809
Federico Maria, Introduzione. Ragioni comparative. Cirese fiabista, in Cirese, Clemente 2021: 15-44.
Imbriani Eugenio, La strega falsa. Distinzioni e distorsioni in antropologia, Bari, Progedit, 2017
Verri Antonio L., Il pane sotto la neve, Calimera, Kurumuny, 2003.

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Eugenio Imbriani, professore associato di Antropologia culturale e Storia delle tradizioni popolari presso l’Università del Salento (Lecce), afferisce al Dipartimento di Storia, società, studi sull’uomo. I suoi interessi sono orientati allo studio del folklore, ai temi della cultura popolare, della scrittura e dell’esperienza etnografica, ai rapporti tra memoria e oblio nella produzione dei patrimoni culturali e delle identità locali. Ha prodotto numerose pubblicazioni, monografie, saggi apparsi su riviste, in volumi collettanei, atti di convegni; è direttore della rivista “Palaver”; dirige la Sezione etnografica del Museo Civico di Giuggianello (Le). Ha conseguito l’abilitazione nazionale alla prima fascia della docenza.

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