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Chi ha paura del Sinodo? Francesco e i tradimenti della Chiesa

1di Leo Di Simone

È facile parlare dei tradimenti della Chiesa in un’epoca di scristianizzazione come la nostra, quando tutti i riflettori mediatici le sono puntati contro per mettere in luce ogni ruga che altera la sua fisionomia, ogni piaga, per usare la metafora rosminiana, che fa sanguinare il suo corpo. Quella di Rosmini fu un’analisi puntigliosa dei mali che affliggevano la Chiesa del suo tempo impedendole di essere vero lievito nel mondo. Delle cinque piaghe della santa Chiesa è opera di ampia prospettiva ecclesiale, di coscienzioso impegno cristiano, bollata per troppo tempo dal sigillo della censura ecclesiastica in quanto aperta denuncia del retaggio feudale che bloccava la Chiesa impedendole la piena manifestazione spirituale e inibendola nel ruolo più evangelico di “lume” delle nazioni. Gli accenti posti da Rosmini sulla relazione fede e politica, sul conflitto tra potere politico ed ecclesiastico, sull’ingerenza univoca o mutua dell’uno nei confronti dell’altro o sulla mancata consapevolezza e partecipazione del popolo cristiano alla vita della Chiesa a causa del clericalismo, sono di estrema attualità. Oggi può essere considerata una sorta di spartiacque tra critiche più antiche, che il filosofo seppe cogliere e interpretare, e critiche successive alla sua che sono scaturite, fino al presente, anche grazie ai nuovi apporti delle scienze più moderne quali l’antropologia, la sociologia, l’ermeneutica di cui la teologia più recente si è avvalsa.

delle-cinque-piaghe-della-santa-chiesa-trattato-dedicato-al-clero-cattolico-con-appendice-di-alcune-lettere-sulla-elezione-de-veQuella di Rosmini può essere considerata una critica emblematica, ma è solo una delle tante che punteggiano l’incedere diacronico della Chiesa; ogni epoca storica ha espresso la sua, insistente sostanzialmente sulla de-formazione della sua forma evangelica. Si tratta di un coro di critiche interne alla Chiesa stessa che tratteggia, in un crescendo continuo, tutta la fatica e i rischi dell’essere nella storia, la difficoltà dell’assolvere il precetto evangelico di dover essere nel mondo senza essere “del” mondo; critiche che non sempre hanno sortito il loro effetto e che anzi hanno provocato le lacerazioni profonde del suo tessuto, lacerazioni non ancora ricomposte che mostrano al mondo una Chiesa divisa in spezzoni confessionali che nessun movimento ecumenico è ancora stato capace di ricomporre in unità. Questo sembra davvero il macro tradimento della Chiesa: la mancata risposta alla radicale proposta di unità del suo fondatore! La piaga più macroscopica che rende oggi la Chiesa incredibile quando parla di unità del genere umano senza considerare la sua situazione disgregata.

È anche vero che la divisione interna alla Chiesa favorisce inevitabilmente gli attacchi accusatori, specie quelli esterni che certamente non scaturiscono dall’amore per Gesù Cristo e per il regno da lui annunciato: tale amore ha sempre segnato l’inizio di ogni rinnovamento ecclesiale, almeno nelle intenzioni. La storia della santità, nella Chiesa, mostra come tale amore abbia molte volte vinto ottusità ataviche e superato ostacoli altrimenti insormontabili. La Chiesa è una realtà mai completamente compiuta e semper reformanda; e anche se quest’ultima è affermazione di un certo valore dogmatico non sempre se ne seguono le implicazioni. È vero inoltre che proprio una situazione di crisi può rappresentare un buon punto di partenza per necessari rilanci. Nel pieno dell’entusiasmo post conciliare e della “rivoluzione sessantottesca” Walter Kaspar scriveva:

«Si fa un gran parlare dappertutto d’una crisi della Chiesa e della teologia. Sembra che non esista più nulla di solido e di sicuro. Su tutto si discute; tutto è messo in questione. Che sia così nessuno può negarlo. Eppure proprio la radicalità della crisi è quanto di più promettente ci offra la nostra situazione. Ci costringe a porre gli interrogativi di fondo» [1].

ksperGli faceva eco, in sincronia, Jürgen Moltmann che dalla sua prospettiva di teologo evangelico constatava come «oggi la Chiesa viene criticata da tutte le parti. La critica alla Chiesa sembra costituire uno stabile pregiudizio dell’uomo contemporaneo ed essere tipica d’una società in rapido mutamento sociale. Per molti l’interesse per il cristianesimo si è ridotto ad una critica negativa della Chiesa» [2]. Per questo esortava la Chiesa a non continuare a guardare più solo a se stessa, per salvaguardare la sua entità deplorando lamentosamente coloro che le voltano le spalle, sprofondando così nella sua angoscia; la invitava a considerare le «critiche esterne», e non tanto come fonte di ispirazione per l’azione della sua riforma, quanto per valutarne l’inconsistenza alla luce della più radicale critica che è completamente «interna» alla Chiesa e che è Gesù Cristo stesso. «Egli è la critica della sua non verità, poiché è l’origine della sua verità» [3]. Eppure neanche questa evidente verità sembra utile a diradare le nebbie che offuscano il fenomeno Chiesa, facendolo apparire ambivalente.

Una ambivalenza che si poggia tutta su un equivoco di fondo, mai completamente risolto, non tanto nella considerazione teologica quanto nell’inconscio collettivo degli stessi cristiani. Noi siamo figli di una cultura cristiana che ha identificato per troppo tempo il Regno di Dio annunciato da Gesù Cristo, con la Chiesa. Ne sono nate non poche presunzioni spirituali: tragiche cecità storiche che hanno impedito di capire la fermentazione del Regno di Dio che avveniva in tutte le culture in cui il Vangelo veniva annunciato; di capire che la Chiesa è un segno e uno strumento di ciò che la sorpassa, del Regno di Dio. Se la prospettiva ecclesiocentrica non viene copernicanamente ribaltata si continuerà a dar seguito a tutti i consequenziali integrismi che consistono nella ostinata delimitazione dei confini del Regno in coincidenza con quelli di una Chiesa fedele al suo passato, ad un modo storico e culturale con cui s’è vissuta la fede in un punto culturalmente datato sull’asse diacronico e a cui si dà il nome di tradizione. Senza l’emersione alla coscienza ecclesiale del fatto che nella tradizione si cela la realtà stessa del tradimento.

Tradimento e tradizione hanno la stessa origine etimologica, vengono dallo stesso ceppo semantico, esprimono varianti di uno stesso segno: Tradere, verbo latino che sta per “consegnare”. Ora, se da un punto di vista culturale è possibile affermare che ogni processo evolutivo, necessario ed ineluttabile, si compie all’interno della dinamica tradizione-tradimento, attraverso l’abbandono dell’ultima “consegna” ereditata dalla storia, che viene tradita in nome della successiva, per cui senza tradizione non c’è cambiamento e senza tradimento non c’è modernità, dal punto di vista della tradizione cristiana l’affermazione non regge. Non è la continuità di una forma culturale che la Chiesa deve garantire e tutelare ma l’integrità di Gesù Cristo nell’unico ed esclusivo modo col quale è stato “consegnato” alla storia e al quale bisogna restare fedeli nel mutare della storia. Un modo che non è culturale ma teologico, non è secondo la tradizione degli uomini ma secondo quella asimmetrica di Dio.

Gesù Cristo è stato “consegnato” da Giuda perché da lui ritenuto “traditore” di una tradizione religiosa che sarebbe dovuta culminare con l’instaurazione di un regno terreno. Giuda è stato vittima dell’altro increscioso equivoco, ancora non del tutto dissipato, che tende ad equiparare una qualsivoglia fede religiosa con la fede cristiana. La fede religiosa che contempla sempre il dominio di una determinata classe, razza, cultura, organizzata con un apparato di potere retto con strumenti temporali e che cerca nella divinità la legittimazione del suo operato. Fede religiosa come processo autonomo delle risorse umane interiori ed esteriori per cui l’uomo rende la divinità conforme al proprio modello. La fede cristiana non ha nulla a che vedere con la fede genericamente religiosa, con i miti che quest’ultima si inventa per inverare la sua situazione inautentica, la sua carenza antropologica e metafisica. La fede cristiana non parte da un impegno interiore, da una ricerca della volontà, dalla fantasia, dalla filosofia, dall’etica; è risposta ad un appello, anzi è l’effetto dell’appello di Dio giunto all’umanità nella persona di Gesù di Nazareth, il suo Cristo che è stato “consegnato” alla storia nell’evento scandaloso della Croce. Nell’unico modo in cui poteva essere consegnato per non tradire la traditio divina nel fatto che in Lui Dio “si è dato”. Non alla maniera religiosa dei giudei o filosofica dei greci, ma in maniera “scandalosa” per entrambi nel suo essere il Crocifisso.

Se scandalo c’è nel mondo è quello della Croce di Cristo. Se tradimento c’è nella Chiesa, nel senso del travisamento di Giuda, tradimento per antonomasia, è quello della trasformazione della Croce di Cristo in atto “religioso” e non in impegno che impedisca le stragi di vittime innocenti, in politica di incarnazione della volontà di Dio per l’edificazione del suo Regno. Considerato che la religione, secondo la celebre espressione del cardinale Daniélou, «non salva» [4], appaiono frustranti e disgreganti tutti i tentativi di conservare accanitamente una tradizione che è soltanto espressione di manifestazione religiosa della Chiesa in forme inessenziali all’integrità del Vangelo; le forme di una Chiesa rimasta troppo a lungo costantiniana, paga della sua autorità amministrativa, del suo sistema gerarchico, del suo ritualismo esteriorizzato e ancora invischiato in modelli medievali e barocchi, del suo omogeneo sistema dottrinale controllato da una comoda teologia manualistica capace di piegare anche la Bibbia alle esigenze del dogma e la Liturgia agli schemi concettuali del diritto romano che ha plasmato un “rito romano” emulo della religione dei Cesari. Una Chiesa edificatasi troppo presto e per troppo tempo quale struttura monolitica tradendo il legittimo concetto di Chiesa universale.

costituzione-dogmatica-lumen-gentium-sulla-chiesa-3112297f-26d5-4ee8-800d-8f63a9605d34Quella monolitica sembra ancora essere la sua unica dimensione, tanto che quell’altra delineata in Lumen Gentium 26 «senza una vera e propria necessità contestuale», come ebbe ad affermare Karl Rahner, una sorta di appercezione pneumatica, sembra quasi surreale: Chiesa come concreta comunità locale eucaristica! Chiesa di Cristo veramente presente in legittime comunità locali di fedeli aderenti ai loro pastori [5]: «In queste comunità, sebbene spesso piccole, povere e disperse, è presente Cristo, per virtù del quale si raccoglie la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica» (LG 26).

Si tratta delle chiese delle quali non si denunciano scandali, né si accendono riflettori sul sangue versato dai suoi cristiani perseguitati ed emarginati. Per una sorta di nemesi inversa. Per il solo fatto che è mediaticamente più proficuo attaccare la Chiesa in quanto istituzione pubblica, con le sue connivenze col denaro e con il potere, stigmatizzando la sua appartenenza ad un vecchio sistema sociale che a ben guardare è lo stesso di quello praticato dai suoi accusatori che nell’accusarla pensano che il male comune è mezzo gaudio e che la complicità facilita la mutua copertura. Gli scandali che di recente hanno portato sulla ribalta mediatica la Chiesa istituzionale, non ultimo quello della piaga ripugnante della pedofilia, non sono che gli scandali di questo mondo, dell’attuale “sistema mondo” globalizzato per facilitare i compiti di un sistema di controllo organizzato da un’unica regia.

81013tb3s4lOra il discorso si può fare davvero scandaloso e anacronistico. Vi si trova davvero il sasso d’inciampo che può mettere al tappeto tutta la cultura planetaria messa a nudo da una luce che esplode in maniera imprevista, e che appartiene alla Chiesa anche se la Chiesa l’ha tenuta nascosta per troppo tempo sotto il mòggio. Radice del suo più consistente tradimento. Tutti i tradimenti della Chiesa, quelli che le vengono rinfacciati “dal di fuori” e dal suo interno, hanno origine nell’unico aberrante tradimento di cui essa stessa non ha piena consapevolezza, vittima com’è, per dirla con Moltmann di una «cattività babilonese in cui lo stato sociale dominante tiene la Chiesa medesima» [6]; o ancor di più e in maniera ancora più grave, per dirla con René Girard, a causa della «rivelazione non ancora pienamente compresa» [7]. Affermazione pesantissima dopo duemila anni di riflessione teologica, eppure non peregrina se si pensa alle forme della riflessione teologica. Sì, perché siamo stati abituati a pensare la fede attraverso mediazioni astratte, attraverso i concetti che  hanno svuotato la Parola di Dio del suo slancio profetico e sovversivo e l’hanno rinchiusa nel dogma fermo, immobile che come un masso rigido, monumentale, lascia scorrere la storia attorno a sé senza lasciarsene scalfire, senza percepire che l’umanità cerca la pace e la giustizia ma senza di noi che il documento della liberazione lo abbiamo dogmatizzato e archiviato nel Denzinger [8] e ci siamo dimenticati del tuffo del divino nella nostra carne mortale che forse abbiamo colto come ideale metafora e non come evento reale, sconvolgente, scandaloso per la religiosità e per il pensiero.

Ai detentori del potere mondano piace, fa comodo, che tale documento noi non lo sbandieriamo troppo, ed anzi ci aiutano a costruire tabernacoli sacrali dove custodirlo, perché sarebbe un guaio serio se la sua rivelazione fosse pienamente compresa e globalmente diffusa. Sono in prima fila gli “atei devoti” a tessere la tela di un cristianesimo religioso, bigotto e tradizionalista, che non smuove coscienze, ed anzi le tiene al loro posto rigidamente gerarchizzato e le controlla con una più rigida morale kantiana che contempla la religione nei limiti della pura ragione. E si sbracciano, e puntano il dito con accuse di eresia che giungono fino al papa se solo qualcuno osa sbilanciarsi nell’annuncio del Vangelo “sine glossa”; che sarebbe l’effetto Francesco nella duplice veste del santo d’Assisi e del vescovo di Roma. Il primo non costituisce più un problema; è stato storicizzato e istituzionalizzato tra i molteplici rami dell’albero da lui soltanto seminato e lo scandalo della sua povertà non è più immediatamente visibile, è rientrato nei ranghi e collocato sugli altari. Il secondo è più pericoloso, vivo e vegeto, il Signore ce lo conservi, e – ciò che più fa rabbrividire gli atei devoti – è a capo della Chiesa. Per questo ai crocicchi del web vengono posti dia-bolizzanti detrattori che imboniscono i devoti della “vera chiesuola” circa la nullità della sua elezione.

Due di questi, in particolare, si sono travestiti da teologi e sproloquiano a più non posso sostenendo che papa Benedetto XVI ha rinunciato al ministerium e non al munus, per cui è rimasto papa fino alla morte, mentre papa Francesco non sarebbe altro che un usurpatore. Né l’uno né l’altro, il mediatico neosofista Fusaro e il pluriscomunicato Minutella, sanno che il papato non è un sacramento, che munus e ministerium sono inscindibili e che comunque Jorge Mario Bergoglio li ha ricevuti congiuntamente il 27 giugno 1992 con l’ordinazione episcopale. Il papa è anzitutto il vescovo di Roma, e così Francesco si è presentato affacciandosi alla loggia delle benedizioni, circondato dai cardinali elettori che né prima né dopo hanno sollevato dubia sulla validità dell’elezione. I dubia successivi dei “quattro cavalieri dell’Apocalisse” erano di altra natura, erano votati a fustigare l’eccessiva franciscitas di Francesco, ossia l’abbandono della tradizionale abitudine di edulcorare il Vangelo e di farlo parlare, finalmente, sine glossa! Si comprende che simili sceneggiate hanno una regia unica e che gli attori si attengono ad un copione trito e ritrito: l’enfant prodige della filosofia mediatica auspica una religione metafisica, aerea, come la respira forse nei cenacoli di destra che ama frequentare nonostante il suo cuore marxista, mentre l’altro assume toni mistici e devozional-melensi, ma solo perché parla con la Madonna e di frequente anche con padre Pio. E la regia unica sfrutta la stupidità della gente non tanto per screditare il papa in prima battuta, ma per tentare di deviare la linea del cambiamento di rotta che papa Francesco sta imprimendo alla Chiesa.

Questa regia unica e occulta delle accuse alla Chiesa coi riflettori puntati sui suoi tradimenti, ha d’altra parte sollecitato a lungo la Chiesa stessa ad accompagnarsi ai progressi della società. Una Chiesa progressista, una Chiesa al passo con i più diversi movimenti di liberazione, una Chiesa moderna, aperta più che al mondo alla mondanizzazione, tecnologizzata persino, a rimorchio della cultura globalizzata e narcotizzata dal rammollimento borghese di matrice occidentale. Molti tra gli accusatori concedono alla Chiesa le attenuanti generiche in quanto associazione significativa su scala mondiale, per meriti di assistenza umanitaria, di educazione, di vicinanza ai sofferenti, di solidarietà con le vittime dell’ingiustizia, dell’odio, della guerra. Rafforzando con ciò l’autostima della Chiesa-service, assistenzialista, e contribuendo alla sua integrazione nella cultura borghese che si serve della religione unicamente per raggiungere i suoi scopi. Naturalmente nessuno pensa che c’entri la Massoneria, mentre il papa è accusato di essere massone dagli accoliti del sistema stipendiati per denigrarlo sul web. Così, il filosofo mediatico che in sé ha fatto sintesi di destra e sinistra hegeliana e annuncia dura battaglia contro il capitalismo, accusa il papa di essere connivente col sistema neoliberista e di essere al soldo del grande capitale.

metzIl pericolo, stando alla denuncia di Johann Baptist Metz, il teologo che ha introdotto la teologia nel discorso intellettuale del presente, sta nel fatto che certo presunto «rinnovamento della Chiesa venga cercato non sulla base del Vangelo ma su quella della religione borghese, che poi, a dei “ritardatari” come siamo noi cattolici, potrà apparire anche molto “progressista” e addirittura “liberante”» [9]. Una Chiesa che si assume oneri di supplenza, che espleta ruoli spettanti alla società civile non fa che rendere «invisibili i dolorosi contrasti che si determinano tra poveri e ricchi, tra felici e infelici, tra coloro che hanno conseguito il successo e quelli che soccombono […] alla fin fine non dichiariamo invisibile la grazia proprio perché rimangano invisibili soprattutto i nostri peccati? E non è proprio questa invisibilità di Dio e della sua grazia a rovinarci, come già temeva Bonhoeffer nel 1932?» [10]. Tutto questo sotto l’abile regia dell’accusatore della Chiesa che è anche l’accusatore di Cristo e che per Renè Girard ha un nome soltanto, un nome principale tra i tanti dietro i quali nasconde la sua identità: Satana.

Non è una affermazione teologica quella che Girard proferisce nel suo studio; è affermazione dichiaratamente antropologica, conclusione di una indagine che mette in luce il sostrato antropologico della rivelazione giudaico-cristiana, assecondando l’intuizione di Simone Weil che i Vangeli, prima di essere una teoria su Dio, sono una teoria sull’uomo [11]. Seguendo le sottili analisi di Girard sulle religioni arcaiche, sui loro miti, sulla loro violenza sacrificale, sulla valenza palliativamente pacificante del «capro espiatorio», lo si vede giungere alla conclusione che non solo la rivelazione biblica è asimmetrica rispetto a tali concezioni, nonostante le apparenti somiglianze col sistema mitico e sacrificale, ma che essa, nella sua essenza «rivelativa» è uno smascheramento antropologico dell’astuzia sacrificale che mette a morte innocenti facendoli passare per colpevoli. Nei miti arcaici sono gli accusatori ritenuti “innocenti” a individuare la vittima considerata “colpevole” e ad ucciderla “giustamente”. Pro bono pacis, per la pacificazione momentanea della società, per la mitigazione dell’istinto collettivo di violenza omicida. Tale costante antropologica, secondo Girard, corrisponde al parametro evangelico «Satana scaccia Satana» (Mt 12, 26): Satana che si affanna a porre in atto il suo ontologico stato di divisione provocando una serie di guasti illimitata dove ogni “rimedio” è sempre peggiore del male.

baumanZygmunt Bauman nella sua opera titolata Danni collaterali, diseguaglianze sociali nell’età globale, ha messo in luce come le situazioni disastrose che comportano un elevato numero di vittime, e di cui veniamo a conoscenza sempre «a disastro avvenuto», sono il risultato di cinici calcoli in cui il disastro è un «rischio che vale la pena correre» [12]. Così anche le disuguaglianze sociali non vengono considerate come rischi per il benessere collettivo in ordine alla salute fisica e mentale delle popolazioni, la qualità della loro vita, la solidarietà dei rapporti; ciò che viene preso in considerazione è il tasso di «minaccia all’ordine pubblico». La povertà viene pensata come un «problema da combattere con gli stessi mezzi cui si ricorre per far fronte alla delinquenza e alla criminalità» [13], mentre sull’altare dell’importanza degli obiettivi militari in gioco vengono sacrificati i soldati cui poi si tributano solenni funerali di stato.  Tutti i morti nel canale di Sicilia in questi ultimi tempi sono le vittime di situazioni di ingiustizia diabolicamente tenute in vita per rifocillare un sistema economico globale sempre più avido e disumano. Ed è l’aperta denuncia di tale inumana situazione che ha guadagnato a papa Francesco l’odio dei potentati di tutto il mondo. Il suo magistero torna su questi temi in maniera martellante, cancellando ogni linea diplomatica che ha sempre legato i pronunciamenti dei suoi predecessori.

Sono false come il demonio le ipocrite espressioni di cordoglio degli accoliti del potere che sanno bene come quelle vittime siano il “prezzo calcolato” utile all’aumento dei loro profitti. Vittime innocenti considerate parte di un calcolo economico. Le povere vittime non possono scampare alla loro morte comunque annunciata. Nell’attuale dittatoriale struttura di potere globale gli accoliti di Satana «mirano a lasciare i loro attuali o futuri subordinati senza alcuna scelta se non quella di accettare con docilità la routine che i loro attuali o futuri superiori hanno stabilito o intendono imporre loro» [14]. Ci vogliono altre prove, sul semplice piano antropologico, per mostrare, come fa Girard, che «Satana esiste innanzi tutto in quanto soggetto delle strutture della violenza mimetica»? [15] ossia di quella violenza quale nefasta fonte di emulazione malvagia tesa alla distruzione dell’umanità? Per la Chiesa è sufficiente pregare, e pregare soltanto, per le anime delle vittime? Chi difenderà i poveri e gli oppressi dai soprusi satanici? C’è bisogno di un buon avvocato, un parácletos che metta in luce la verità.

alberto-melloni-chiesa-madre-chiesa-matrigna-einaudiParaclito è il nome che Giovanni nel suo Vangelo attribuisce allo Spirito Santo: l’avvocato che difende gli innocenti dalle false accuse di Satana. I Vangeli non sono che i documenti redatti dal Paraclito per mostrare l’infamità delle accuse che sono state riversate in unica soluzione su Gesù di Nazareth: tutti i «peccati del mondo». Lui se li è addossati inchiodandoli alla sua stessa croce. Per dirla con Paolo, Cristo ha cancellato il «documento accusatorio» e «lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce». Solo così «ha spogliato della loro forza i Principati e le Potestà. Li ha esibiti in pubblico, trascinandoli nel suo corteo trionfale» (Col 2, 14-15). Il corteo trionfale di Cristo si snoda dalla croce, momento della sua “esaltazione”. Tutti guardano a lui “trafitto” e vedono in piena luce la perfidia di Satana. La croce fa trionfare la verità perché nei resoconti evangelici redatti dal Paraclito «la falsità delle accuse è rivelata, l’impostura di Satana è screditata per sempre a causa della Crocifissione. Tutte le vittime del medesimo tipo sono così riabilitate» [16]. Una Chiesa che sta sotto la croce di Cristo è una «comunità che non si adatta più alle leggi né alle potestà di questo mondo, bensì diffonde, nella resistenza alle une e alle altre, la libertà di Cristo. Una comunità che si fa inquietante presenza ai potenti che lottano per il dominio del mondo» [17].

È chiaro così che tutti i tradimenti possibili della Chiesa stanno in ordine con l’occultamento, più o meno palese, più o meno cosciente, dell’eminenza dell’evento rivelativo della croce di Cristo. Tutte le volte che la Chiesa si è resa connivente con l’ordine stabilito dai Principati e dalle Potestà di questo mondo, di un mondo perennemente “sacrificale” e “sacrale”, con ciò stesso ha offuscato la luminosità della croce e il suo trionfo che è il frutto della rinuncia totale alla violenza. La Chiesa sa che i suoi venti secoli di storia sono stati alternanza ininterrotta di “tradizione” e “tradimenti”. Dev’essere sempre consapevole della propria colpa e avveduta nell’evitare i tranelli sottili del tentatore antico, bugiardo, divisore e omicida. Al centro della sua fede sta il Crocifisso Risorto. «La sua croce separa la fede dalla superstizione e dalla miscredenza, dalle altre religioni e dalle ideologie del mondo moderno» [18]. Il Risorto è riconosciuto tale perché porta e mostra le sue cinque piaghe di Crocifisso. Le piaghe luminose che il Paraclito esibisce ancora al mondo quale prova del diritto di Dio e di inaugurazione del suo Regno.

Credo che da questa prospettiva si possano leggere chiaramente tutti i capisaldi dell’azione pastorale di papa Francesco, di cui la straordinaria iniziativa di un Sinodo universale non è che il coronamento. Come la croce, dunque, tutto ciò che lui mette in atto lascia spiazzati e suscita discussioni, distinguo, polemiche, timori, scandalo. Ricorda Andrea Riccardi che l’arcivescovo Bergoglio, quasi alle soglie della pensione e già candidato sconfitto al conclave del 2005 in cui fu eletto Joseph Ratzinger, «è stato scelto non per attuare un programma dettagliato (salvo la riforma della Curia vaticana), quanto per far uscire la Chiesa dall’impasse in cui si trovava. Il papa ha risposto a questa attesa con la sua iniziativa risultata imprevista a vari suoi elettori o apparsa sconvolgente a una parte dei cattolici» [19].

È certo che con lui finisce il papato romano e romanizzante, europeo ed eurocentrico e si apre una pagina inedita del ministero petrino di cui il vescovo di Roma è investito, curando il rigurgito del papismo più classico, quello che identifica la Chiesa col cattolicesimo e il cattolicesimo col papa. Con Francesco infatti ha preso corso, nella semplice prassi quotidiana e senza pronunciamenti dogmatici, quel «ripensamento del ministero petrino nella Chiesa che lo stesso Giovanni Paolo II aveva indicato come tema sensibile nel presente storico del cattolicesimo nell’enciclica Ut unum sint»; ma non senza qualche incoerenza, come ad esempio l’accentuazione di quel processo di “papolatria”, come lo chiamava Yves Congar, che accompagnò tutto il suo lungo pontificato sostenendo la visione monarchica del papato. Un problema rimasto inevaso nell’agenda pontificia, la cui mancata soluzione incide negativamente sul dialogo ecumenico, con grande gioia degli integristi di ogni risma che vedono nel papa un punto comune di legittimazione «al funzionamento del sistema» [20].

140810414-92bda6a5-511b-48ba-a479-6da2976d2f6aMa la visione pastorale di Francesco – e lo si doveva sospettare – non poteva insistere su coordinate preordinate sulla forma del papa romano cresciuto in ambienti teologicamente protetti e ulteriormente ritoccato dalle sollecite premure della Curia romana e della diplomazia vaticana. La sua visione, come lui, viene «dall’altro mondo», e non solo geograficamente. Viene intanto dalla dinamica fucina culturale della Compagnia di Gesù, “croce e delizia” del papato del postconcilio; e non secondariamente dalla “teologia popolare” di Rafael Tello, il teologo argentino che può essere considerato il suo maestro e per il quale la teologia deve farsi pastorale e la pastorale teologia. Francesco svilupperà questi principi nell’Evangelii gaudium in due prospettive complementari: una con un approccio economico e sociale, che denuncia le cause strutturali delle povertà, l’altra di ordine teologico che attraverso la visione biblica dei poveri li assume come categoria teologica, per cui per la Chiesa l’opzione per i poveri non è una semplice prassi ispirata al Vangelo, ma fa parte della “dottrina”. Il povero non è nella Chiesa “l’assistito” ma fa parte del popolo di Dio [21]. Tutto ciò ribadito con forza e con decisione nell’arco del decennio del ministero di Francesco non può non lasciare un segno nella compagine ecclesiale, sia di consensi che di dissensi, mentre Francesco usa parole come pietre che ci inducono a riflettere sulla incompleta comprensione della rivelazione come diceva Girard, facendoci capire che il Vangelo non è stato completamente capito. Sia come sia, Rafael Tello fu comunque un profeta; prima di morire scrisse una lettera al suo antico discepolo divenuto arcivescovo di Buenos Aires, nella quale diceva: «Per me il problema più grande della Chiesa argentina è come arrivare a questa immensa maggioranza di cristiani su cui la Chiesa istituzionale non ha presa. Credo che tu abbia la missione provvidenziale di iniziare una riforma della Chiesa (Buenos Aires? Argentina? Più in là? Io non so). Chiedo a Dio che tu possa compierla» [22]. L’avrà tenuta presente questa premonizione il cardinale Bergoglio quella sera del 13 marzo 2013 quando si affacciò su piazza san Pietro come Francesco?

Ora, non stiamo qui certo a tessere il panegirico di papa Francesco, dell’uomo, del suo carattere, né della sua schiettezza spesso tagliente, delle prese di posizione che a volte fanno dubitare di un ammorbidimento del ruolo del papato e della sua forma come governo di uno solo, di uno che è solo. Ciò che più salta agli occhi però, è che quest’uomo avanti negli anni è partito spedito, deciso, facendo «ruido» come mai nessuno dei papi del XX secolo aveva fatto in ordine alla riforma della Chiesa. Forse, ricordando il suo predecessore Giovanni XXIII, eletto già vecchio e come papa di transizione, ha riflettuto sul fatto che il tempo a disposizione era breve, e che il gran fuoco acceso da quell’uomo moderato, pacato e diplomatico con l’evento del Concilio si era ridotto a tiepida brace che era necessario rinfocolare. È questo il significato di questo Sinodo fuori ordinanza, spuntato senza preavviso e senza apparenti plausibili ragioni, come nel 1959 l’annuncio di un concilio dato da un papa vecchio davanti ad un piccolo gruppo di cardinali ammutoliti e timorosi. Questo lo scopo: riaccendere il fuoco del Concilio Vaticano II che in sessant’anni è stato smembrato, sezionato, passato al microscopio delle pruderie ermeneutiche ecclesiastiche, centonizzato nelle dotte citazioni dei teologi e centellinato a piccole dosi, nel timore possa far male, provocare dipendenza e assuefazione. Senza mai considerarlo, il Concilio, nella sua globalità di evento dello Spirito, di eventum visitationis per parafrasare Alberto Melloni che da storico della Chiesa navigato fa riferimento a «quelle spinte di rinnovamento che una, due, tre volte a millennio soffiano sul volto sciupato» della Chiesa. Ed è il mancato riconoscimento da parte della Chiesa di quell’evento come tempus visitazionis che per Melloni «sta a valle di una lunga incomprensione del Vaticano II, unico punto di unità della Chiesa, unica medicina a oggi disponibile di rango comunionale nel cattolicesimo romano, unico patrimonio che con tutte le sue criticità garantisce il debito sovrano della Chiesa verso il Vangelo». Tradimento? Peccato contro lo Spirito Santo? Resta il fatto che «di questa indocilità gli scandali e le strategie reazionarie possono essere state a un tempo la causa, ma anche l’effetto» [23].

Con il Sinodo mondiale papa Francesco ha inteso riaccendere il grande fuoco del Concilio, compiendo, motu proprio, un gesto che difficilmente sarebbe uscito con tale originale portata dai piccoli conciliábuli episcopali o cardinalizi, un gesto che rende onore alla tradizione, che consiste appunto nel tenere acceso il fuoco che il Signore è venuto a portare sulla terra, e non nella custodia delle ceneri come in troppi si affannano a fare credendo di rendere culto a Dio. Custodire e idolatrare le ceneri attiene perciò stesso al tradimento del fuoco, privando di luce e calore la Chiesa e il genere umano cui essa è inviata. Sarà stato il problema prospettatogli da Rafael Tello, quello cioè di raggiungere la grande maggioranza dei cristiani su cui la Chiesa istituzionale non fa presa, a far decidere Francesco per questo Sinodo senza precedenti? Potrebbe anche darsi, ma non si può pensare ad un Concilio fuori misura come il Vaticano II o ad un Sinodo “diffuso capillarmente” come l’attuale, che ne costituisce prolungamento e accrescimento, senza l’azione dello Spirito che è specialista nello scaldare ciò che è gelido, nel bagnare ciò che è arido, nel sanare ciò che sanguina e raddrizzare ciò che è deviato. Anche i timorosi e i custodi delle ceneri lo cantano, in latino, nella Sequenza di Pentecoste, ma non ci credono. Credono sia la loro azione rituale ingessata a salvare Chiesa e mondo.

Il nostro tempo ha tutte le caratteristiche per essere tempus visitationis; e mi riferisco a questi sessant’anni postconciliari in cui i pronunciamenti del Vaticano II, così nuovi, così panoramici, così attenti, contro ogni aspettativa, alle necessità della Chiesa e del mondo, avrebbero davvero potuto cambiare l’assetto istituzionale della Chiesa sgravandola dei fardelli mondani che nei secoli sono stati l’ostacolo più grande all’annuncio del Vangelo sine glossa. Perché non è vero che il Vangelo nella sua purezza sia giunto fino ai confini del mondo in ossequio al mandato del Signore; è arrivata in ogni dove senz’altro l’istituzione, non sempre trasparente e non sempre evangelica, specie laddove la fede cristiana è stata imposta metu seu vi, perché era il credo formale dei re e dei potenti, ma senza la contezza dei temi evangelici che potevano tutt’al più essere espressi con parole di una lingua sconosciuta ma non nei fatti della giustizia, dell’uguaglianza, del rispetto per l’uomo, nella verità dell’amore secondo la legge di Dio. L’inculturazione spagnola dei Paesi dell’America Latina non avrebbe dovuto attendere dopo secoli la teologia della liberazione per fare ruido e predicare la forza liberante dell’azione redentrice di Gesù Cristo che è l’unica buona notizia, l’unico Vangelo che la Chiesa è in grado di proclamare oggi all’umanità. E però anche la teologia della liberazione è stata ostracizzata, combattuta, decapitata, ritenuta non conforme alla “dottrina” e alla tradizione cineraria, mentre sul Concilio in quegli anni cominciavano a sollevarsi i molti distinguo ermeneutici della restaurazione il cui compito era quello di spegnerlo del tutto il fuoco.

Non è questo il luogo per poter declinare i riduzionismi, le reazioni, le sottovalutazioni o le cattiverie proferite sul Vaticano II dall’ala minoritaria e conservatrice del cattolicesimo; lo hanno fatto in maniera avveduta Alberto Melloni e Giuseppe Ruggieri nel volume da loro curato Chi ha paura del Vaticano II? [24] dal cui titolo trae ispirazione quello del presente saggio. Nel volume si descrivono le sorti di quell’evento epocale, il suo “fondo”, che sono stati oggetto di un aspro quanto insensato dibattito che lascia sgorgare una domanda, se cioè sia il Vaticano II lo stile con cui oggi la Chiesa vuole porsi davanti alla postmodernità. Quale il ruolo giocato dai predecessori di Francesco, Benedetto XVI in particolare, e dalle gerarchie vaticane: «Siamo in presenza dell’ammutinamento dell’ammiraglio o della ciurma? Di entrambi o di nessuno?»  Una frase, in particolare, riguardante la risposta lapalissiana al tema della paura risulta sibillina: «Ciò che fece e che fa paura fu la “novità”. Ogni concilio è nuovo, giacché è chiamato a rendere eloquente la forza del Vangelo nella congiuntura della storia nuova, mai ad altro. Ma nel Vaticano II i segni della novità apparvero desueti, proprio perché rimandavano a cose antiche, da tempo dimenticate» [25].

summorum__pontificum__facebookIn effetti non si era più in grado di coglierla la novità, avvezzi come si era a porsi timorosi e sottomessi davanti ad un immenso corpus dogmatico costruito e cementato lentamente nei secoli e di cui neppure uno iota poteva essere mutato. Un corpus che si era sostituito al Vangelo e che solo pochi specialisti maneggiavano. Al Concilio il suo strenuo difensore fu il cardinale Alfredo Ottaviani, prefetto del famigerato Sant’Uffizio, la “Suprema” congregazione romana fondata nel 1542 da Paolo III per combattere l’eresia protestante; il suo motto episcopale era emblematico: Semper idem. Fu lui con la sua cerchia a preparare gli schemi di discussione conciliare che avrebbero dovuto liquidare il Concilio in un mese al massimo e che poi furono stravolti dallo Spirito che nel dibattito mostrò di esigere novità, quella che san Paolo nella lettera ai Romani sintetizza nella frase: «In novitate vitae ambulemus»: «dobbiamo camminare in novità di vita» (Rom. 6,4). Il Concilio durò così tre anni. Tra le cose antiche, desuete e da tempo dimenticate si mostrarono la Parola di Dio e il culto in spirito e verità che da essa è normato. La nuova comprensione di questi due elementi che rappresentano i cardini della vita cristiana varò la riforma liturgica che consistette nella potatura delle troppe superfetazioni culturali che avevano trasformato la liturgia cristiana in un culto cerimoniale e clericale a discapito della semplicità delle sue origini [26].

9788806211431_0_424_0_75A quarant’anni da quella riforma, non definitiva, non perfetta, in cerca di dialogo con le fonti più antiche in ordine a nuove inculturazioni, nessuno si sarebbe aspettato che nel 2007, con motu proprio del papa [27] si ritenesse possibile tornare indietro di quattro secoli, alla riforma liturgica del Concilio di Trento! Non c’è stato chi non si sia sentito tradito per questa decisione contro la storia, contro la teologia della liturgia e non secondariamente contro lo Spirito. Altri, esigua minoranza a onor del vero, hanno gioito per la possibilità riconcessa di ritirarsi nella turris eburnea di un culto muto e senza vita, ma soprattutto in un’idea di Chiesa che non esiste più, facendo riferimento alla favoletta della «messa di sempre» che possono ancora raccontare agli indotti solo per il fatto che loro stessi non hanno studiato. Per vent’anni siamo stati così nel conflitto delle interpretazioni e delle lotte intestine, fino alla risoluzione finale di papa Francesco che il 16 luglio 2021 ha indicato nella riforma liturgica del Vaticano II l’unica forma cultuale della Chiesa latina [28] ripristinando l’unica espressione della lex orandi del Rito romano. Chi aveva paura di questo atto di giustizia può continuare ad averne se teme che qualcos’altro cambi con il Sinodo in corso. Col tempo evidentemente, col tempo della Chiesa che non è quello degli uomini.

Adesso è più chiaro che le paure nutrite per questo Sinodo scorrono parallele a quelle nutrite ancora adesso per il Concilio, perché sembra che del Concilio, delle sue ambiguità, dei suoi compromessi, delle sue lacune, delle sue reticenze pro bono pacis, il Sinodo voglia completare l’agenda delle pratiche rimaste inevase. Lo dice bene Alberto Melloni che al Vaticano II si «approvarono tutta una serie di decisioni che non proponevano una manualistica riformatrice del cattolicesimo, ma semplicemente segnavano un inizio, lasciando poi allo sviluppo delle cose, alla discrezione dei pastori e al discernimento delle chiese la definizione di tappe e passaggi» [29]. Adesso, assecondando l’onda naturale dei tempi lunghi della Chiesa, di mezzo secolo in mezzo secolo, alcuni nodi richiedono di essere sciolti. In primis quello della sinodalità stessa, quella reale cui devono seguire decisioni condivise e non censurate e reimpastate dagli organismi curiali romani; non più un Sinodo dei vescovi come organismo consultivo di un papa che venga poi considerato “principe illuminato e riformatore” per qualche ritocco dato a proposte disattese nella sostanza.

Roma, inaugurazione del Concilio Vaticano II,11 ottobre 1962

Roma, inaugurazione del Concilio Vaticano II,11 ottobre 1962

Il fatto che il Concilio abbia ripescato dalla tradizione, per fare un solo esempio, un diaconato “permanente” – inserito bene o male all’interno del sacramento dell’Ordine – da affidare ad uomini sposati, viri probati, non ha sciolto la riserva ideologica del sacerdozio latino celibatario – versus uno orientale uxorato – per cui è stata bocciata la proposta del Sinodo dell’Amazonia che aveva indicato nei viri probati i soggetti idonei, in tempo di crisi di vocazioni, per l’ordinazione presbiterale. Il Sinodo tedesco ha indicato con decisione il nodo celibatario, e ne chiede lo scioglimento con l’inaugurazione di un ministero di uomini sposati come accadeva nel primo millennio e come ancora oggi accade normalmente nelle Chiese orientali di appartenenza e obbedienza cattolica, o ai preti anglicani passati al cattolicesimo con mogli e figli. Il celibato dei preti, come ben si sa, non è un dogma di fede, né è di istituzione divina; è solo una legge “cautelare” della Chiesa latina e teologicamente nessuno può fare obiezioni, per cui seguendo l’onda lunga fra cinquant’anni potrà essere superato.

L’intento nascosto di questo Sinodo però, forse anche spiritualmente inconscio, potrebbe essere quello di raccorciare i tempi, nei tempi di una crisi innegabile e non solo della Chiesa, ma nel mondo nel quale la sua funzione dev’essere quella di sale, lievito, luce e nient’altro. Raccorciare i tempi della lotta contro la modernità che avanza rapidamente nelle forme dei “post”, che essa lo voglia o no. Sicuramente il Vangelo non dev’essere predicato all’uomo del Medioevo, né del Rinascimento né dell’Illuminismo e di tutti gli “ismi” a cui non s’è saputo predicare nella sua essenza. Ed è stato questo, probabilmente, il tradimento più pesante che ha fatto ritenere al mondo che la Chiesa è una istituzione potente che predica una ideologia come tante che si sono affermate e sono tramontate e con le quali è anche entrata in una relazione di complicità. Non si pensa forse così della Chiesa ortodossa russa che almeno nei piani istituzionali alti è complice della politica criminale dello zar? E non suona dissonante ai potentati la voce fuori dal coro di papa Francesco che ha usato aggettivi pesanti per qualificare la terribile guerra in corso che nessuna istituzione riesce a fermare?

Chi ha paura del Sinodo? Sicuramente chi ha paura che il Vangelo arrivi alle coscienze assumendo tutti gli aggettivi squalificanti la dignità umana come armi di denuncia planetaria, facendo comprendere alla cristianità di essere in debito di ascolto col Vangelo e con tutti i poveri del pianeta che attendono una liberazione che non viene dalle religioni, perché «la religione non salva». È giunto il tempo per i cristiani, e non solo per i cattolici, di pensare cosa vogliono fare effettivamente, qual è il cuore del messaggio cristiano da proclamare unanimemente, cosa deve restare nonostante tutti i superficiali possibili cambiamenti. La risposta dovrebbe essere unanime: Gesù Cristo con il suo messaggio, la sua condotta, il suo destino, la sua lotta contro lo spirito del male e la sua forza che sempre dona con lo Spirito a chi crede in lui. Non anzitutto il Gesù Cristo incomprensibile dei dogmi dei Concili ellenistici del IV e V secolo ma il Gesù della storia che ingaggiò il conflitto che gli costò la vita con la gerarchia religiosa e la devozione farisaica: quel Gesù di Nàzaret che Pietro, nel suo primo discorso, dice essere passato «beneficando e risanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10, 38).

E poi… c’è il sogno di Francesco: un nuovo, vero Concilio ecumenico, dove partecipino tutte le confessioni cristiane, per rimediare al tradimento dell’ecumenismo, con una liturgia d’apertura che riecheggi quella semplice e comprensibile degli inizi della Chiesa: una cena con una preghiera di ringraziamento, Eucaristia, nel cui centro sta il memoriale dell’ultima cena di Gesù con il comando di perpetuare il suo amore. Una Eucaristia semplicemente cristiana, da lui presieduta come successore di Pietro, ruolo autorevole che nessuna Chiesa gli contesta, riconoscendogli il munus ministeriale di presiedere nella carità all’unità del corpo di Cristo. Ci riuscirà Francesco, il II o il III? A noi non è dato sapere, solo sperare!

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023 
Note
[1] W. Kaspar – J. Moltmann, Gesù sí Chiesa no?, Queriniana, Brescia 1974: 9.
[2] Ivi: 49.
[3] Ivi: 52.
[4] J. Daniélou, Miti pagani mistero cristiano, ed Paoline, Catania 1968: 51.
[5] K. Rahner, Il Concilio dimenticato, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013: 21- 22.
[6] In W. Kaspar – J. Moltmann, Gesù sí Chiesa no?, cit.: 51.
[7] R. Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, Adelphi, Milano 2001: 69.
[8] Teologo dogmatico del XIX secolo, autore dell’Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum (Manuale dei simboli, delle definizioni e delle dichiarazioni sulla fede ed i costumi) comunemente conosciuto come Denzinger-Schönmetzer.
[9] J. B. Metz, Al di là della religione borghese, Queriniana, Brescia 19902: 99.
[10] Ivi: 68.
[11] R. Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, cit.: 237.
[12] Z. Bauman, Danni collaterali, diseguaglianze sociali nell’età globale, Laterza, Bari 2013: XI.
[13] Ivi: X.
[14] Ivi: 43.
[15] R. Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, cit.: 249.
[16] Ivi: 182.
[17] J. Moltmann, cit.:75.
[18] Ivi: 76.
[19] A. Riccardi (a cura di), Il cristianesimo al tempo di papa Francesco, Laterza, Bari 2018: IX-X.
[20] Cfr. A. Melloni, Chiesa madre, chiesa matrigna, Einaudi, Torino 2004: 14.
[21] Cfr. A. Giovagnoli, Papa Francesco e il suo tempo, in A. Riccardi, cit.: 358.
[22] G. La Bella, l’America Latina e il laboratorio argentino, in A Riccardi, cit.: 45-46.
[23] A. Melloni, Quel che resta di Dio. Un discorso storico sulle forme della vita cristiana, Einaudi, Torino 2013: 46.
[24] A. Melloni e G. Ruggieri, Chi ha paura del Vaticano II?, Carocci, Roma 2009.
[25] Ivi, dall’Introduzione dei due autori: 9.
[26] A questa lunga e intricata questione ho dedicato il mio volume Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano”, Feeria, Panzano in Chianti (Firenze) 2013.
[27] Summorum Pontificum, lettera apostolica di papa Benedetto XVI, pubblicata in forma di motu proprio il 7 luglio 2007. Fissava le norme per la celebrazione della messa secondo il Messale Romano promulgato da S. Pio V nel 1570 e nuovamente edito da S. Giovanni XXIII.
[28] Traditionis custodes, lettera apostolica di papa Francesco, pubblicata sotto forma di motu proprio il 16 luglio 2021 per «ristabilire in tutta la Chiesa di Rito romano una sola e identica preghiera che esprima la sua unità, secondo i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II e in linea con la tradizione della Chiesa».
[29] A. Melloni, Chiesa madre, chiesa matrigna, cit.: 117.

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Leo Di Simone, teologo, scrittore, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo e docente stabile di teologia presso la Scuola Diocesana di Teologia. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per i Migranti. Attualmente è Referente diocesano per il Sinodo dei Vescovi. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti – Firenze): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018).

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