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Chi è papa Francesco?

COPERTINA. di Marcello Vigli

Non è dato sapere le conseguenze delle parole pronunciate da papa Francesco sull’aereo dal Messico all’Italia sulla sorte del disegno di legge sulle unioni civili: «Io non so come stanno le cose nel Parlamento italiano. Il Papa non si immischia nella politica italiana. Nella prima riunione che io ho avuto con i vescovi nel maggio del 2013 una delle cose che ho detto: col governo arrangiatevi voi. Perché il Papa è per tutti e non può mettersi in politica, concreta interna di un paese. Questo non è il ruolo del Papa». È certo, però, che mentre costituiscono una dura sconfessione nei confronti dell’intervento del cardinale Bagnasco, schierato a favore del voto segreto sugli articoli controversi dello stesso disegno di legge, rappresentano un appello alla responsabilizzazione dei cattolici nel rapporto con la politica.

Il Presidente della Cei aveva avanzato la perentoria richiesta: «La libertà di coscienza su temi fondamentali per la vita della società e delle persone sia, non solo rispettata, ma anche promossa con una votazione a scrutinio segreto». Tale intervento assume un valore ben più rilevante dell’appoggio della Cei al raduno, promosso da alcune organizzazioni cattoliche al Circo Massimo di Roma, per sostenere gli oppositori all’approvazione della legge, perché non esprime solo un auspicio, ma pretende di interferire sullo svolgimento dei lavori di una delle due Assemblee della Repubblica  in cui si esercita il potere legislativo. Legittima i cosiddetti cattodem che avevano preteso di giustificare con l’obbedienza alla gerarchia la loro scelta di votare, sul disegno di legge sulle Unioni civili, in contrasto con la scelta del loro partito e in sintonia con la destra populista e reazionaria. A loro papa Francesco ha  tolto ogni alibi ricordando:«Ma il parlamentare cattolico deve votare secondo la sua coscienza ben formata, questo direi soltanto. Credo che sia sufficiente, dico ben formata».

C’è una radicale delegittimazione di quanti continuano a promuovere la confessionalità della Repubblica in contrasto con l’accelerata secolarizzazione non contraddetta da un aumento della presenza islamica. Lo conferma anche il Segretario della Cei mons. Galantino che ha pubblicamente dichiarato: «per rispetto del Parlamento e delle istituzioni preferisco non parlare». Del resto lo stesso portavoce della Cei, don Ivano Maffeis, è intervenuto per spiegare che «con le sue parole il cardinale Bagnasco non intendeva entrare in un discorso tecnico, in alcun modo, questo appartiene alla sovranità delle Camere». Questa tardiva dichiarazione non basta a nascondere la conflittualità interna alla Cei che, andando ben oltre il contrasto di cui si è detto, si innesta sulla sorda (non sempre!) opposizione dell’episcopato italiano al nuovo stile di papa Francesco.

In lui continuano, invece, a confidare, seppure con minore entusiasmo e con più pressanti interrogativi,  i cattolici che dopo la sua elezione avevano sperato nell’affermazione della Chiesa del Concilio. Cominciano, infatti, ad essere delusi per il ritardo nella realizzazione delle riforme, annunciate o solo avviate, e per le manifestazioni di acquiescenza ai “valori” e riti della Tradizione. Molto grave è apparso lo spazio concesso ai francescani per la trionfale marcia di Padre Pio sulla Roma del Giubileo. Se, da  un lato, la partecipazione dei fedeli ha mostrato la permanenza di forme di fideismo al limite della superstizione, dall’altro, ancor più grave, si è confermata l’esistenza di un’autorità religiosa disposta ad assecondarle e utilizzarle.

 La salma di Padre Pio in Vaticano

La salma di Padre Pio in Vaticano

Non bisogna dimenticare le valutazioni negative sulla esperienza del frate di Pietralcina, condivise dallo stesso papa Giovanni,  che si possono sintetizzare  nelle parole di Padre Gemelli, il fondatore dell’Università cattolica di Milano, che,  in una relazione dopo una sua visita di ispezione, lo definì «autolesionista, imbroglione, psicopatico».  L’increscioso episodio dei tre giorni di esposizione in San Pietro, nonostante la presenza del papa sia stata molto discreta, ha offerto anche l’occasione per l’espressione, su Riforma.it, il quotidiano on-line delle Chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia, della diffidenza presente in campo evangelico nei confronti di papa Francesco.  «Il cristianesimo può essere coniugato in forme dissimili, spesso discordanti, come è stato fin dalle origini, ma assistere all’idolatria che circonda il cadavere di un uomo (padre Pio) mi suscita imbarazzo e indignazione: soprattutto se penso che tale idolatria è incentivata e promossa dall’attuale vescovo di Roma, che è descritto e celebrato dai principali organi di comunicazione e da numerosi intellettuali (o presunti tali, di qualsiasi orientamento essi siano) come un innovatore, un progressista, uno che sta riformando la Chiesa cattolica. Non è così».

A ridurre la portata di queste critiche, condivise da molti cattolici suoi sostenitori, hanno subito dopo contribuito due eventi radicalmente innovativi: l’incontro con Kirill, il patriarca ortodosso  di Mosca, e con i cattolici del Chiapas. Un evento il primo che, non solo ha interrotto una secolare reciproca indifferenza fra Roma e Mosca rappresentante da oltre cinque secoli della parte preponderante dei cristiani ortodossi, ma ha anche chiuso con l’abbraccio di Francesco e Kirill a l’Avana il ciclo aperto cinquant’anni fa a Gerusalemme da quello fra Paolo VI e Atenagora I. La loro Dichiarazione comune, che ha sancito la fine del contenzioso aperto con le reciproche scomuniche nel 1054, ha certo una ben maggiore rilevanza dottrinale del documento siglato quest’anno da Francesco e Kirill. Questo è, però, molto significativo per  la  riaffermazione, in esso contenuta, che ortodossi e cattolici sono uniti non solo dalla comune Tradizione della Chiesa del primo millennio, ma anche dalla missione di predicare il Vangelo di Cristo nel mondo di oggi, pur se ciascuno nella “sua lingua”. Non c’è infatti nessun tentativo di superare le divergenze dottrinarie che separano le due Chiese, ma solo la individuazione di una comune strategia nella gestione delle crisi di fedeli dovuta alla secolarizzazione globale e alla persecuzione dei cristiani nei Paesi a maggioranza islamica.

Né è da sottovalutare la valenza “politica” di questo incontro, che può essere considerato un segno del radicale mutamento della Ostpolitik vaticana: la Santa Sede va oltre la prudente politica di dialogo con i Paesi al di là della ex-cortina di ferro. Costituisce infatti il punto di arrivo dell’operazione di disgelo con Mosca avviata da Benedetto XVI, che aveva smentito la convinzione, generata dall’intraprendenza missionaria di rappresentanti di Comunione e Liberazione ai tempi di papa Wojtyla, che il Vaticano volesse fare del proselitismo nella Russia post-sovietica.

L'abbraccio di Francesco e Kirill

L’abbraccio di Francesco e Kirill

Papa Francesco si muove sulla stessa linea di Benedetto nella speranza che l’incontro possa avvicinare il momento della tanto auspicata sua visita in Russia. Per questo ha accettato per l’incontro con Kirill sia la scelta di una sede “neutra”, che esalta l’eccezionalità dell’evento,  sia che si sia svolto alla vigilia del Concilio pan-ortodosso previsto per giugno a Creta, dove s’incontreranno rappresen- tanti  di tutte le Chiese ortodosse, come non avveniva da più di un millennio. L’aumento di prestigio, che ne deriva per Kirill, gli giova non solo per influenzare i lavori del Concilio, proprio quando la recente tensione fra Russia e Turchia potrebbe anche metterne in crisi lo svolgimento, ma anche per affermare la sua autonomia nei confronti del capo del Cremlino. Per il papa, invece, queste implicazioni hanno suscitato le critiche, neppure troppo larvate, del primate cattolico ucraino per la legittimazione che, con l’operazione, papa Francesco avrebbe offerto a chi sta invadendo il suo Paese.

L’altro evento che lo ha visto protagonista indiscusso è stata, invece, la sua visita nel Messico, cattolico per antica tradizione ma a lungo soggetto ad un’opera di declericalizzazione, dove ha riproposto i suoi temi preferiti. Alla gerarchia locale si è rivolto con dure reprimende e inequivocabili appelli a preti e vescovi per incitarli a non rassegnarsi al dominio dei narcos, definiti «una metastasi che divora il paese»  e ad assumere chiara posizione della lotta contro di loro perché non ci siano più persone «distrutte da trafficanti di morte». Bisogna resistere alla tentazione di cadere nella rassegnazione: «che ci paralizza e ci impedisce non solo di camminare, ma anche di fare la strada…una rassegnazione che non soltanto ci spaventa, ma che ci trincera nelle nostre ’sacrestie’ e apparenti sicurezze». Ha poi affrontato,  rivolgendosi ai laici, un tema che in Italia sta interrogando la comunità ecclesiale: il reintegro dei divorziati ri-sposati, quindi irregolari.  Interloquendo con una coppia di loro – che gli hanno esposto il loro impegno ad astenersi dal chiedere di poter fare la comunione – li ha ringraziati approvando la loro  dichiarazione: «Non possiamo accostarci all’eucaristia…ma possiamo fare la comunione attraverso il fratello bisognoso, il fratello malato, il fratello privato della libertà». Essi hanno, infatti, realizzato quella «integrazione» e «più piena partecipazione» nella Chiesa, «come membra vive», dei divorziati risposati auspicata  nella “Relatio” finale del recente Sinodo sulla famiglia, che lui stesso è chiamato ad approvare definitivamente al suo ritorno a Roma.

Nell’incontro con i detenuti del carcere Cereso, fra i più duri del Messico, ha dichiarato: «La misericordia ci ricorda che il reinserimento non comincia qui tra queste pareti, ma che comincia prima, fuori, nelle vie della città. Il reinserimento o la riabilitazione comincia creando un sistema che potremmo chiamare di salute sociale, vale a dire, una società che cerchi di non ammalarsi inquinando le relazioni nel quartiere, nelle scuole, nelle piazze, nelle vie, nelle abitazioni, in tutto lo spettro sociale. Un sistema di salute sociale che faccia in modo di generare una cultura che sia efficace e che cerchi di prevenire quelle situazioni, quelle vie che finiscono per ferire e deteriorare il tessuto sociale».

 Il Papa in Messico

Il Papa in Messico

Particolare significato hanno avuto, anche, le parole rivolte agli indios cattolici del Chiapas. Ha chiesto loro perdono per la violenza con cui i conquistatori cattolici hanno invaso le loro terre riducendoli in una  servitù durata nel tempo fino ad oggi. Pur se sconfitti, gli indigeni continuano a rivendicare il diritto alla restituzione delle terre, alla fine della repressione, alla tutela delle donne e il papa ha fatto sue le loro richieste rilanciando la denuncia e la condanna delle violenze ad opera delle multinazionali, già espressa nella sua enciclica Laudato si’. In questa prospettiva ha rivolto dure critiche al governo centrale e forti sollecitazioni ai vescovi delle altre regioni perché corresponsabili. Contro di loro, ha ricordato, si era schierato l’indimenticato mons. Samuel Ruiz, compianto vescovo del Chiapas, che non aveva esitato a schierarsi apertamente con l’esercito  zapatista di  liberazione e del suo comandante Marcos nella guerra contro il governo centrale. A rendere evidente la sua partecipazione alla lotta  contro la permanenza di tale sudditanza, Papa Francesco ha, simbolicamente, approvato l’uso della Bibbia e del messale nelle lingue delle comunità indigene del chiapas (tseltal, ch’ol e tsotsil) e consentito che si interrompessero le sue omelie per essere tradotte nelle lingue indigene ottenendo, per questo,  un’autentica ovazione dei fedeli. A conclusione del suo viaggio, nell’omelia della messa celebrata a Ciudad Juarez, al confine fra Messico e Usa, da un palco a soli 80 metri dalla rete metallica che come un “muro” separa i due Paesi, ha proclamato: «Mai più morte e sfruttamento! C’è sempre tempo per cambiare, c’è sempre una via di uscita e un’opportunità, c’è sempre tempo per implorare la misericordia del Padre».

Alla luce di quanto detto alle folle messicane deve essere letta la condanna senza appello nei confronti di Donald Trump pronunciata sull’aereo di ritorno dal Messico. Alludendo al suo intento di voler costruire 2500 km di muro lungo la frontiera e deportare dieci milioni di immigrati, Francesco ha dichiarato: «Una persona che pensa di fare i muri, chiunque sia, e non fare ponti, non è cristiano. Questo non è nel Vangelo». Alla domanda di un giornalista se i cattolici americani devono votarlo ha, però, risposto: «Non mi immischio: solo dico, questo uomo non è cristiano, se dice queste cose. Bisogna vedere se ha detto così oppure no. Su questo do il beneficio del dubbio».

Legittima, a questo punto, la difficoltà a conciliare questo papa con quello che onora in San Pietro la salma di Padre Pio! Appare, però, evidente quanto sia lontana la sua scelta di astenersi dall’interferire nelle questioni italiane ma di farsi protagonista del rinnovamento nel mondo, dalla pretesa dei vescovi italiani di fare della religione la linea di difesa di un passato, ormai superato nel processo di adeguamento della legislazione  alle trasformazioni dei rapporti sociali e fra le persone.

Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016

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Marcello Vigli, partigiano nella guerra di Resistenza, già dirigente dell’Azione Cattolica, fondatore e animatore delle Comunità cristiane di base, è autore di diversi saggi sulla laicità delle istituzioni e i rapporti tra Stato e Chiesa nonché sulla scuola pubblica e l’insegnamento della religione. La sua ultima opera s’intitola: Coltivare speranza. Una Chiesa altra per un altro mondo possibile (2009).

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